martedì 23 febbraio 2016

La recente direttiva europea sulla presunzione di innocenza e sul diritto alla partecipazione al processo

La direttiva europea sulla presunzione di innocenza e sul diritto ad essere presente al processo, approvata il 27.1.2016 dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea, si prefigge lo scopo di uniformare le varie legislazioni nazionali sul tema delle garanzie processuali penali e di recuperare la fiducia reciproca nella giurisdizione degli Stati membri. La presunzione di innocenza, in particolare, viene articolata attraverso alcuni profili specifici che ne rappresentano dirette esplicazioni ed incidono in modo effettivo sulle garanzie dell’imputato: l’onere della prova, il diritto al silenzio ed alla non autoincriminazione, il divieto di presentare in pubblico l’imputato come colpevole, il divieto di adottare misure coercitive in chiave colpevolista prima della decisione definitiva, il diritto a presenziare al processo, sono ambiti concreti sui quali si misura, infatti, la tenuta democratica del sistema penale e il diritto effettivo ad un equo processo.
Il 27.1.2016, il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea hanno approvato una fondamentale direttiva sulla presunzione d’innocenza e sul diritto alla partecipazione dell’imputato al proprio processo. La direttiva segue, in verità, una lungo cammino iniziato con il monitoraggio delle modalità attraverso le quali la presunzione d’innocenza vive in concreto nelle legislazioni degli Stati membri dell’Unione Europea, presentato il 26.4.2006 a Bruxelles, dalla Commissione delle comunità europee, come “libro verde sulla presunzione di non colpevolezza”. Da quel momento, senza soluzione di continuità, si è messo in moto un meccanismo che, attraverso vari passaggi, ha portato all’approvazione del testo in esame.
Facendo tesoro di quella esperienza, dei successivi sviluppi e della giurisprudenza della Corte EDU, la direttiva punta ad uniformare le legislazioni dei vari paesi membri con l’intento dichiarato di “rafforzare il diritto a un equo processo nei procedimenti penali, stabilendo norme minime comuni relative ad alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo” e di “rafforzare la fiducia degli Stati membri nei reciproci sistemi di giustizia penale e, quindi, a facilitare il riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale”.
Il punto è declinato in modo puntuale nell’art. 1, laddove è chiarito come la ragion d’essere dell’iniziativa legislativa sia quella di individuare norme minime comuni concernenti la presunzione di innocenza nei procedimenti penali e il diritto di presenziare al processo penale. L’esigenza di uniformare le legislazioni nazionali rappresenta un’essenziale premessa per il funzionamento effettivo di tuti i meccanismi di cooperazione, molto importanti nel settore penale. In questo ambito, infatti, il riconoscimento reciproco delle decisioni è l’elemento nucleare di sostegno ad ogni ambizione europea ed è determinato, per un verso, dalla fiducia che ogni Stato ha nell’attività giurisdizionale dell’altro e, per altro verso, dall’esistenza di un minimo di garanzie comuni.
La presunzione di innocenza mira ad evitare che un soggetto, prima di essere giudicato responsabile del fatto penalmente illecito contestato, possa essere ritenuto colpevole o anche solo trattato come tale. In questo senso, rappresentando un corollario logico del fine razionale assegnato al processo essa mostra una indiscutibile preferenza ontologica nei confronti dell’innocenza, che si traduce nella convinzione secondo cui il processo penale ha una funzione cognitiva proiettata alla dimostrazione, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza e non dell’innocenza.
La scelta di approvare una specifica direttiva sull’argomento è di estremo rilievo per la intrinseca capacità dello strumento di incidere direttamente sulle legislazioni dei paesi membri, determinando i necessari adeguamenti normativi. Il suo recepimento, infatti, “sconvolgerà”, in termini di rispetto delle garanzie, gli assetti procedurali di molti Stati membri dell’Unione.
L’art. 2 del provvedimento amplia il perimetro di applicazione dei principi richiamati, individuando espressamente le coordinate della loro futura operatività all’interno degli Stati membri: valenza che inizia nel momento stesso in cui prende avvio un’indagine penale nei confronti di una persona fisica e dura fino a quando la decisione non diventa definitiva. In questa prospettiva, la solenne affermazione contenuta nel successivo art. 3, secondo cui “gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza”, deve essere intesa nel senso che il momento conclusivo coincide col passaggio in giudicato della sentenza che decide sulla responsabilità penale. Ed è un significativo passo avanti rispetto alla stessa lettera della Convenzione europea, che, invece, utilizza una terminologia intesa, nel passato, in modo meno ampio.
La direttiva dunque obbliga gli Stati membri dell’Unione ad adeguarsi a quanto previsto ed indicato ed in particolare obbliga tutti i paesi a considerare la presunzione di innocenza come un pilastro essenziale del diritto all’equo processo, valido per tutte le legislazioni penali. Passo avanti sul piano giuridico, ma anche su quello culturale, non estraneo ai percorsi legislativi interni.
Di particolare interesse è, poi, la scansione delle varie declinazioni che, secondo il legislatore europeo, la presunzione assume. Innanzitutto, l’onere della prova: l’art. 6 indica, infatti, agli Stati membri l’obbligo di assicurare che l’onere di provare la colpevolezza competa all’accusa e non alla difesa. Questo profilo individua uno delle caratteristiche e delle garanzie essenziali del processo penale, laddove fissa l’oggetto dell’accertamento e il ruolo dei protagonisti: l’accusa deve dimostrare i fatti penalmente rilevanti contestati alla persona imputata e nessuna inversione dell’onere dimostrativo è legittima, cosi come non possono trovare spazio presunzioni di qualsiasi natura.
Immediatamente dopo, però, la direttiva richiama e fa salvo l’eventuale obbligo per il giudice o il tribunale competente di ricercare le prove sia a carico che a discarico in conformità del diritto nazionale applicabile. Questo rinvio può avere un senso, però, solo se letto nella prospettiva di non delegittimare quelle legislazioni ove è contemplata un‘iniziativa probatoria attiva del giudice particolarmente ampia. Nel sistema italiano, invece, la specificazione può essere pericolosa nella misura in cui vive la convinzione secondo la quale l’attivismo probatorio del giudice, oltre i limiti rigidamente fissati dal codice di rito, incide (limitandola) sulla sua imparzialità. Ampliare gli spazi dell’iniziativa probatoria del giudice finirebbe per destrutturare i delicati equilibri che presiedono l’acquisizione e la valutazione delle prove.
Un’immediata e diretta conseguenza della regola dell’onere della prova è fissata nel par. 2 dell’art. 6 secondo il quale il “dubbio” deve essere sempre valutato a favore della persona indagata o imputata, anche se deve essere assolta: il principio è già noto al sistema processuale penale come modalità di articolazione del giudizio (in dubio pro reo), ma deve essere favorevolmente salutato ogni ampliamento della sua latitudine, in una prospettiva di vietare anche di assolvere col beneficio del dubbio e poi motivare manifestando un proprio (moralistico) convincimento di colpevolezza o comunque un giudizio negativo sulla persona.
Una ulteriore declinazione della presunzione di innocenza è individuata nel diritto al silenzio e nel diritto a non autoincriminarsi. L’art. 7 indica la necessità che ad ogni indagato e imputato debba essere riconosciuto il diritto al silenzio in merito al reato che viene loro contestato (par. 1) e il diritto a non rendere dichiarazioni autoincriminanti (par. 2). La successiva puntualizzazione secondo la quale gli Stati membri possano valorizzare comportamenti collaborativi o raccogliere prove lecite attraverso l’uso di poteri coercitivi, comunque esclude, senza equivoci (par. 5 ), che l’esercizio dei diritto al silenzio ed alla non autoincriminazione possa essere utilizzato contro l’imputato o come prova della commissione del fatto. Questa connessione virtuosa – già più volte operata dalla giurisprudenza della Corte EDU - è di particolare rilievo perché dimostra la concretezza del principio e la sua proiezione garantista. La scelta degli elementi utilizzabili a determinare il convincimento del giudice, infatti, non è un dato neutro rispetto alle dinamiche dell’equo processo. Far passare la presunzione di innocenza attraverso la tutela delle fondamentali prerogative di libertà dell’indagato o dell’imputato è un modo per radicare la garanzia all’interno del processo e nel limbo delle declinazioni di principio.
Una successivo ed importante ambito viene disciplinato dall’art. 4, ove sono valorizzati i collegamenti esistenti tra il profilo di pubblicità e la presunzione stessa. In particolare, è fatto obbligo agli Stati membri di adottare le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni delle autorità pubbliche non presentino la persona come colpevole. Ugualmente per le decisioni diverse da quelle sulla colpevolezza.
La precisazione è di particolare rilievo e si pone in netto contrasto con molte prassi disinvolte di presentare all’indomani di un’operazione di polizia, le persone coinvolte come colpevoli. Ciò non impedisce il sacrosanto diritto di cronaca, ma ne limita la sua manipolazione (assai frequente, in verità). Gli Stati membri dovrebbero impedire, ove possibile, che in pubblico la mera inchiesta venga già proposta come una affermazione di responsabilità.
Infine, la presunzione di innocenza viene anche considerata come regola di trattamento e riferita in particolare alle misure coercitive ante iudicium. In questa prospettiva, l’art. 5vieta che gli indagati e imputati possano essere presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica. Questa essenziale puntualizzazione non vieta l’applicazione di misure coercitiva ma solo se sono necessarie per ragioni di sicurezza, tutela del processo o per impedire la fuga. Mi sembra veramente opportuno questo doppio intervento che se, da un lato, fissa alcune semplici regole di condotta, dall’altro dovrebbe ridimensionare tantissimo il ricorso disinvolto alla coercizione anticipata.
La direttiva si conclude col riconoscimento del fondamentale diritto a presenziare al proprio processo. In questa prospettiva molto netta, viene anche considerata la possibilità di celebrare il processo in assenza dell’imputato, ma solo a condizione che sia stato informato in tempo del processo e delle conseguenze della sua assenza.
La partecipazione diretta dell’imputato al processo rappresenta la modalità unica ed essenziale per esercitare i propri diritti ed in particolare per difendersi al suo interno. Senza la sua presenza attiva, o mediata dal difensore tecnico, il diritto al processo equo diventa una sterile affermazione teorica priva di senso.
La sua valorizzazione all’interno di una direttiva incentrata sulla presunzione d’innocenza scandisce, peraltro, la stretta correlazione esistente tra i due ambiti.
Con questo provvedimento, il processo penale diventa sicuramente più capace di proporsi come il luogo ove si accerta un fatto penalmente rilevante nel rispetto delle garanzie dell’individuo.

Per leggere la direttiva clicca qui: dirUE_innocenza pdf.pdf

Fonte: www.quotidianogiuridico.it//

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