giovedì 12 novembre 2015

Non è più reato trasferire nell’utero della donna i soli embrioni sani

Sulla scia della sentenza n. 96 del 2015, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 229/2015 ha bocciato la punibilità della condotta di selezione degli embrioni nei casi in cui sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili. Permane invece il divieto di soppressione degli embrioni soprannumerari affetti da malattie genetiche a seguito di selezione finalizzata ad evitarne l’impianto nell’utero della donna.

Il caso

Il Tribunale di Napoli sollevava una duplice questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., nonché per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU – ad oggetto l’art. 13, commi 3, lett. b), e 4, e l’art. 14, commi 1 e 6, l. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui contemplano, quali ipotesi di reato rispettivamente, la selezione eugenetica e la soppressione degli embrioni soprannumerari, «senza alcuna eccezione», non facendo, quindi, salva l’ipotesi in cui una tale condotta «sia finalizzata all’impianto nell’utero della donna dei soli embrioni non affetti da malattie genetiche o portatori sani di malattie genetiche» e la soppressione concerna, conseguentemente, gli embrioni soprannumerari affetti, invece, da siffatte malattie.

Ad avviso del remittente, sanzionando penalmente anche la condotta dell’operatore medico volta a consentire il trasferimento nell’utero della donna dei soli embrioni sani o portatori sani di malattie genetiche, l’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, l. n. 40 del 2004, si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con il principio di ragionevolezza e con il diritto alla salute, per contraddizione rispetto alla finalità di tutela della salute dell’embrione di cui all’art. 1 della medesima legge n. 40.

La norma violerebbe altresì l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il diritto al rispetto della vita privata e familiare include il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica (in tal senso, Corte EDU, Costa e Pavan contro Italia, sentenza del 28 agosto 2012, § 57).

Ad analoghe censure si esporrebbe l’art. 14, commi 1 e 6, l. n. 40 del 2004, nella parte in cui parallelamente vieta e penalmente sanziona la condotta di soppressione degli embrioni, anche ove trattasi di embrioni soprannumerari risultati affetti da malattie genetiche a seguito di selezione finalizzata ad evitarne appunto l’impianto nell’utero della donna.

Secondo il remittente, la norma censurata violerebbe il diritto di autodeterminazione, garantito dall’art. 2 Cost., e il principio di ragionevolezza, rispetto al disposto dell’art. 6 l. 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), che consente agli operatori sanitari di praticare l’aborto terapeutico – anche oltre il termine di 90 giorni dall’inizio della gravidanza – in presenza di “processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro.

Inoltre, la disposizione in esame si porrebbe parimenti si porrebbe in contrasto con il richiamato art. 8 della CEDU, con conseguente violazione dell’art. 117, comma 1, Cost.: assoggettare a sanzione penale l’operatore medico che proceda alla soppressione degli embrioni soprannumerari affetti da malattie genetiche, costringerebbe le coppie che fanno ricorso alle tecniche di PMA, e che volessero evitare il procreare un figlio affetto da malattia genetica, a subire in ogni caso l’impianto degli embrioni affetti da malattie genetiche – con evidente pregiudizio della salute dalla donna se non sotto il profilo fisico, quantomeno da un punto di vista psicologico – nonché a seguire necessariamente la strada dell’interruzione volontaria della gravidanza.

La decisione della Corte

La Corte ha ritenuto fondata – non poteva non farlo - la prima delle questioni sollevate.

La Corte non ha potuto che trarre le conseguenze dalla situazione normativa venutasi a creare con la recente sentenza n. 96 del 2015; con quella decisione, infatti, è stato dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, l. n. 40 del 2004, «nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 […], accertate da apposite strutture pubbliche».

E «ciò al fine esclusivo», come chiarito in motivazione, «della previa individuazione», in funzione del successivo impianto nell’utero della donna, «di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro», alla stregua del suddetto “criterio normativo di gravità”.

Se, quindi, per effetto dell’intervento additivo della Corte, è divenuto lecito il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, esso, di conseguenza, per il principio di non contraddizione, non può «essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante».

La norma, pertanto, è stata dichiarata illegittima «nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela della maternità e sulla interruzione della gravidanza) e accertate da apposite strutture pubbliche».

La Corte ha invece dichiarato non fondata la seconda questione sollevata dal tribunale campano.

La Corte ha preso le mosse dal proprio costante indirizzo in relazione al sindacato delle scelte circa l’individuazione delle condotte penalmente punibili: la discrezionalità del legislatore può essere censurata solo ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto od arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza (tra le più recenti, cfr. sentenze n. 81 del 2014, n. 273 del 2010, n. 364 del 2004, ordinanze n. 249 del 2007, n. 110 del 2003, n. 144 del 2001).

Ad avviso dalla Corte, un vizio del genere non è ravvisabile nella scelta del legislatore di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita – ciò che propriamente il rimettente denuncia – agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica.

Netto il giudizio della Corte: la norma è posta alla tutela voglia tutelare la dignità dell’embrione, «la cui malformazione non ne giustifica, sol per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani creati in «numero […] superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto»

L’embrione – sano o malato - «non è certamente riducibile a mero materiale biologico» e la sua tutela, come già affermato nella sentenza n. 151 del 2009, trova copertura costituzionale nel precetto generale di cui all’art. 2 Cost.; si tratta di una tutela che non è assoluta, potendo cedere in passo «solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti».

Una situazione che la Corte non ha ravvisato nel caso di specie: «il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova però giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista».

Infine, la Corte ha rigettato la questione anche in relazione agli altri parametri evocati «per l’assorbente ragione che il divieto di soppressione dell’embrione malformato non ne comporta, per quanto detto, l’impianto coattivo nell’utero della gestante».

fonte: www.quotidianogiuridico.it//Non è più reato trasferire nell’utero della donna i soli embrioni sani | Quotidiano Giuridico

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