Con l’entrata in vigore, in data 24 dicembre 2013, del decreto legge n. 146/2013, “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”, (pubblicato sulla G.U. n. 300 del 23 dicembre 2013), in attesa di una più approfondita analisi all’esito dell’approvazione della legge di conversione, si rende opportuna una prima riflessione sui principali effetti della modifica all’art. 73, comma 5, del T.U. in materia di stupefacenti.
Il decreto di urgenza nasce dalla necessità di restituire alle persone detenute la possibilità di un effettivo esercizio dei diritti fondamentali e di affrontare il fenomeno del sovraffollamento carcerario, pur tenendo conto delle istanze di sicurezza della collettività.
Sulla spinta delle sollecitazioni provenienti dal Presidente della Repubblica, dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, il Governo ha introdotto una serie di provvedimenti che intervengono su piani distinti, con l’obiettivo di diminuire, in maniera selettiva e non generalizzata, il numero dei detenuti. In questa sede verranno analizzate soltanto le modifiche apportate all’art. 73, comma 5, DPR 309/90. Al fine di ridurre i flussi di ingresso negli istituti di pena il Governo, infatti, ha ritenuto di intervenire, tra l’altro, anche sulla fattispecie che disciplina il piccolo spaccio di stupefacenti, responsabile della presenza in carcere di un numero elevatissimo di persone.
Con l’art. 2 comma 1. lett. a) del d.l. 146/2013 il legislatore ha disposto la sostituzione dell’art. 73, comma 5, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 con il seguente comma: "5. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000."
La disciplina della c.d. ipotesi di lieve entità è stata quindi novellata non solo attraverso la riduzione del massimo pena detentiva edittale, portata da sei a cinque anni di reclusione, ma anche attraverso quella modifica che, già da una prima lettura, delinea una autonoma ipotesi di reato e non più una circostanza attenuante.
In attesa di verificare se l’intervento produrrà effettivamente l’auspicata riduzione immediata del sovraffollamento carcerario, appare utile una prima analisi dei principali effetti delle modifica alla disposizione in materia di sostanze stupefacenti.
Nella previgente formulazione, il quinto comma dell’art. 73 D.P.R. 309/90 stabiliva, per i delitti contemplati dallo stesso articolo 73, un trattamento sanzionatorio più mite qualora fossero da considerare di lieve entità per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze. L’attenuazione del trattamento sanzionatorio trovava applicazione sia con riguardo alle condotte di cui al primo comma dell’art. 73 sia per quelle di cui al comma 1-bis della stessa disposizione.
La norma era stata introdotta per consentire al giudice di riequilibrare la severità delle scelte sanzionatorie operate con la riforma del 1990, comportanti l’applicabilità delle gravi pene previste dall’art. 73 alle fattispecie prima riconducibili al reato di spaccio di modiche quantità di stupefacenti ed alla detenzione per uso personale di quantitativi superiori al limite della d.m.g., limite solo successivamente eliminato a seguito del referendum abrogativo del 1993 [1].
In origine la norma stabiliva una diversa misura della riduzione della sanzione edittale a seconda che le condotte avessero ad oggetto droghe c.d. pesanti o droghe c.d. leggere. Con il venir meno di tale distinzione, la quantificazione della pena venne rideterminata in una misura unica (reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 ad euro 26.000), a prescindere cioè dalla tipologia delle sostanze stupefacenti, con la conseguenza pratica di un generalizzato inasprimento della risposta sanzionatoria.
La ratio della norma è stata ravvisata nell’esigenza di temperare il rigore sanzionatorio a cui sono soggette tutte le condotte previste dall’art. 73 in relazione ai fatti connotati da una ridotta dimensione offensiva [2]. Al riguardo, la dottrina ha rilevato come si tratti di un’ipotesi con la quale il legislatore ha perseguito l’obiettivo di trovare una via di mezzo tra le situazioni di cui agli artt. 75 e 76 sanzionate in via amministrativa e quelli di cui all’art. 73 sanzionati pesantemente come delitti.
Secondo l’opinione prevalente in dottrina [3] ed in giurisprudenza [4], la previgente formulazione del quinto comma dell’art. 73 delineava una circostanza attenuante e non già un titolo autonomo di reato. In dottrina, tuttavia, si è registrata qualche opinione discorde [5]. Anche a seguito delle modifiche introdotte con la l. 49/2006, la Suprema Corte ha ribadito come la fattispecie di cui al quinto comma abbia continuato a mantenere natura di circostanza attenuante, e non di reato autonomo [6], con la conseguente assoggettabilità dell’attenuante al giudizio di comparazione, ai sensi dell’art. 69 c.p. in presenza di circostanze di segno opposto. Si trattava chiaramente di una circostanza ad effetto speciale.
Osservando come il “nuovo” quinto comma dell’art. 73 abbia quale unico elemento specializzante la “lieve entità” del fatto, si potrebbe ritenere immutata la sua natura di circostanza attenuante. E l’opinione troverebbe fondamento nel fatto che il legislatore, allorquando ha avuto l’esigenza di sottrarre una circostanza alle conseguenze tipiche della sua natura, ha fatto ricorso alla tecnica del divieto del bilanciamento. L’argomentazione non è tuttavia convincente trattandosi, evidentemente, di titolo autonomo di reato, secondo peraltro anche il chiaro intento del legislatore dell’urgenza. L’opinione è sorretta sia dalla presenza della clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) sia dalla nuova formulazione letterale laddove, in particolare, all’espressione “si applicano le pene” oggi corrisponde “è punito”, con riferimento ad “uno dei fatti previsti dal presente articolo”.
L’inquadramento della disposizione in trattazione quale fattispecie autonoma non è privo di rilevanti conseguenze.
In precedenza, infatti, trattandosi di circostanza attenuante (del c.d. fatto di lieve entità), l’ipotesi lieve era soggetta al giudizio di comparazione con le aggravanti eventualmente contestate, di talché, in caso di ritenuta equivalenza, la pena veniva determinata sulla base della sanzione edittale prevista per le fattispecie di cui al primo comma dell’art. 73 (reclusione da sei a venti anni e multa da 26.000 ad 260.000 euro).
La natura di autonoma ipotesi di reato, per effetto delle modifiche introdotte dal d.l. 146/2013, comporta invece, in caso di riconoscimento di attenuanti e/o di aggravanti, l’applicazione dei criteri di cui agli artt. 63 e segg. c.p. con la conseguenza che, operando il giudizio di comparazione, la pena base sarà, in caso di equivalenza delle circostanze, quella prevista dalla nuova fattispecie (reclusione da uno a cinque anni e multa da euro 3.000 ad euro 26.000).
Tra le altre conseguenze maggiormente rilevanti per effetto della nuova natura di fattispecie autonoma, vi sono quelle derivanti dai rapporti con le norme codicistiche in materia di prescrizione del reato[7], i cui termini risulteranno fortemente ridotti. Essendo infatti determinati – ai sensi dell’art. 157, commi 2 e 3, c.p. – sul massimo della pena edittale, senza tenere conto delle attenuanti (anche se ad effetto speciale) [8], il termine di prescrizione si determinerà in 6 anni e non, come avveniva in precedenza, in 20 anni (pari al massimo edittale previsto dal primo comma dell’art. 73). Anche tenendo conto degli aumenti previsti dall’art. 161 c.p. in caso di interruzione del corso della prescrizione, da un punto di vista pratico è dunque prevedibile che in molti dei processi ancora pendenti venga dichiarata l’estinzione del reato, trattandosi di modifiche che, ai sensi dell’art. 2 c.p., trovano applicazione anche con riferimento a fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. 146/2013.
Il legislatore non è intervenuto, invece, per tipizzare l’elastica formula del fatto di “lieve entità”, sebbene essa abbia formato in passato oggetto di contrastanti pronunce. Il quinto comma dell’art. 73 si riferisce, invero, ai fatti previsti nello stesso art. 73 che siano di “lieve entità” e ciò per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze. Il tema in questione è stato intensamente analizzato dalla giurisprudenza di legittimità, da cui si può tuttora continuare a trarre spunto, sebbene non sia agevole ricondurre i numerosi arresti in materia a chiare e costanti scelte ermeneutiche.
Con riguardo ai mezzi e alle modalità[9], si osserva che si tratta di indici della portata oggettiva dell’attività svolta dall’agente, nel senso che questa deve connotarsi per la sua modestia e per il ristretto ambito del mercato di riferimento.
La qualità, invece, è il parametro concernente il basso tasso di principio attivo presente nella sostanza oggetto dell’attività incriminata, in quanto tale direttamente destinata a far fronte al diretto consumo degli aventi causa e, comunque, non suscettibile di ulteriori significativi tagli. Peraltro, per la Corte di Cassazione è possibile attribuire rilievo non soltanto alla maggiore o minore purezza della sostanza, ma anche alla natura della stessa[10].
In ordine alla quantità della sostanza, infine, va rilevato come la disposizione in esame, benché sia rimasta formalmente invariata anche con a seguito del recente intervento legislativo, risente tuttavia, sul piano applicativo, della introduzione, nel comma 1-bis lett. a) dello stesso art. 73, del criterio di valutazione del quantitativo di sostanza stupefacente correlato ai limiti massimi di principio attivo individuati nel decreto ministeriale 11 aprile 2006.
La giurisprudenza[11] ha evidenziato che la valutazione della lieve entità del fatto – frutto di un giudizio complessivo dei diversi profili indicati nella norma e non già del solo aspetto quantitativo dello stupefacente detenuto[12] – attiene all’offensività dello stesso, sicché ricorre l’ipotesi lieve allorquando il fatto presenti un’offensività minima e non quando i mezzi, le modalità e le circostanze dell’azione siano tali da conferire al fatto nel suo complesso una rilevanza e un’offensività considerevoli.
Secondo un orientamento della dottrina[13] e della giurisprudenza[14], tali parametri devono costituire oggetto di una valutazione globale (c.d. principio di globalità) con la possibilità che il valore negativo di un elemento sia compensato e neutralizzato dal valore positivo di altri elementi; secondo un altro indirizzo[15], che fa leva sul dato letterale rappresentato dalla congiunzione distintiva “ovvero”, i parametri possono essere considerati alternativamente, nel senso che così come un solo elemento può portare all’affermazione della lieve entità del fatto, allo stesso modo anche un solo elemento può escluderla. Tale secondo indirizzo è stato fatto proprio dalle Sezioni Unite, secondo cui il giudizio di lieve entità del fatto deve scaturire dal positivo apprezzamento di ciascuno degli elementi indicati dalla norma[16].
Come vada attuata questa valutazione globale è tuttora oggetto di controversie. Peraltro, pur volendo seguire l’orientamento più garantista, va osservato come in giurisprudenza si attribuisca prevalentemente grande importanza al dato quantitativo o ponderale, il quale si ritiene resti l’elemento più significativo per stabilire la sussistenza dell’offesa all’interesse protetto e, dunque, la gravità del fatto[17].
Si deve altresì osservare che la valutazione del dato ponderale, se non può certamente essere ancorata ad alcuni multipli della dose media giornaliera, essendo quest’ultima scomparsa dall’ordinamento[18], risentirà tuttavia dei dati quantitativi di cui alla tabella ministeriale del d.m. 11 aprile 2006, che indica i limiti massimi per ciascuna sostanza stupefacente e rilevanti per la configurabilità stessa del delitto.
Si rileva che altre disposizioni fanno rinvio al comma 5 dell’art. 73, DPR 309/90. In tali casi si dovrà fare riferimento alla nuova fattispecie, così come modificata dal d.l. 146/2013: si pensi, ad esempio, all’art. 74, comma 6, DPR 309/90 (che prevede l’applicazione di una pena meno grave per il caso in cui l’associazione sia dedita alla commissione di fatti di “lieve entità” di cui al comma 5 dell’art. 73), oppure all’art. 12 sexies d.l. n. 306/92, conv. l. n. 356/92, riguardante ipotesi particolari di confisca (c.d. allargata), laddove, con riferimento ai delitti in materia di stupefacenti, viene esclusa l’applicabilità per la fattispecie di cui al comma 5 dell’art. 73.
Ancora altre disposizioni fanno rinvio al comma 5 in esame. Già prima del d.l. 146/2013, peraltro, il legislatore era intervenuto, sul versante della legislazione concernente i reati in materia di stupefacenti, sostanzialmente per ridurre gli ingressi nel circuito carcerario ai condannati tossicodipendenti o assuntori di sostanze stupefacenti. In proposito si segnala il d.l. 272/2005 conv. con mod. nella l. 49/2006, che ha introdotto il comma 5-bis, prevedendo uno specifico regime sanzionatorio applicabile “nell’ipotesi di cui al comma 5”, limitatamente ai reati di cui all’art. 73, «commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope», qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena[19]. In tali casi il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p., su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (giudice di pace), secondo le modalità ivi previste[20].
Più recentemente, il d.l. 78/2013 conv. con mod. nella l. 94/2013 ha disposto (con l’art. 3, comma 1) l’introduzione del comma 5-ter all’art. 73. Si è trattato di un intervento finalizzato a consentire una più ampia fruizione del lavoro di pubblica utilità per il condannato tossicodipendente o assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, sulla scorta della considerazione che, per questi soggetti, la richiesta prestazione lavorativa favorisca il processo risocializzativo senza vanificare le esigenze retributive. La novella tende dunque a dilatare l’ambito di operatività dell’art. 73, comma 5-bis, D.P.R. 309/90. Il d.l. aveva esteso l’applicazione dell’istituto a tutti i reati commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, con esclusione, in ragione della loro più intensa gravità, di quelli elencati nell’art. 407, comma 2, lettera a) c.p.p. In sede di conversione in legge, la disposizione è stata limitata nella sua operatività: il lavoro di pubblica utilità potrà essere disposto «anche nell’ipotesi di reato diverso da quelli di cui al comma 5, commesso, per una sola volta». In secondo luogo, il diverso reato deve essere stato commesso dalla persona tossicodipendente o dall’assuntore abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope in relazione alla propria condizione di dipendenza o di assuntore abituale. Infine, il giudice deve avere inflitto una pena non superiore ad un anno di detenzione per reati diversi da quelli previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p., ai quali il Senato ha aggiunto quelli contro la persona.
Oltre alla determinazione in concreto della pena irrogabile ed alla forte riduzione dei termini di prescrizione, come già visto sopra, la modifica introdotta dal d.l. 146/2013 al quinto comma dell’art. 73 DPR 309/90 ha comportato anche la riduzione (da un anno a tre mesi) dei termini di durata massima della custodia cautelare, rientrando la nuova fattispecie nella disciplina dell’art. 303, comma 1, lett. a), n. 1.
Non sembrano individuabili ulteriori effetti particolarmente significativi.
Tenendo conto, infatti, che il d.l. 146/2013 ha come finalità dichiarata la riduzione del sovraffollamento carcerario, si osserva come il riformulato comma 5 dell’art. 73 consenta, ancora oggi, di adottare la misura della custodia cautelare in carcere alla luce della pena detentiva massima prevista (cinque anni di reclusione), anche ai sensi della recente modifica (mediante il d.l. 78/2013 conv. con mod. nella l. 94/2013) dell’art. 280 c.p.p., secondo cui “la custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per i delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni”. Sotto tale profilo, dunque, la modifica non produrrà alcun effetto concreto.
Analogamente, la modifica non produrrà conseguenze concrete nemmeno con riguardo alla disciplina dell’arresto ad opera della polizia giudiziaria, tuttora facoltativo.
Quanto alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione, rimane tutto immutato, nel senso che sarà ancora possibile procedervi, atteso che l’art. 266, comma 1, lett. c), c.p.p. lo consente per i “delitti concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope”, senza distinzione alcuna.
La nuova fattispecie continua ad essere attribuita alla cognizione del tribunale in composizione monocratica, previa celebrazione dell’udienza preliminare.
Quadro di confronto:
Testo previgente;
Testo attuale (come modif. dal d.l. 146/2013)
Art. 73, comma 5, DPR 309/90
“5. Quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei a anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000”.
“5. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000”;
fonte: Altalex.com/articolo di Placido Panarello/ Droghe, uso e spaccio di lieve entità: prime riflessioni sulle nuove norme
Blog di attualità e informazione giuridica - Lo Studio Legale Mancino ha sede in Ferrara, Via J. F. Kennedy, 15 - L'Avv. Emiliano Mancino è abilitato alla difesa di fronte alla Corte di Cassazione
venerdì 24 gennaio 2014
Droghe, uso e spaccio di lieve entità: prime riflessioni sulle nuove norme
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Dal 2018 l’Avv. Emiliano Mancino aderisce al progetto Difesa Legittima Sicura, una rete di professionisti sul territorio nazionale che dà tutela legale a chiunque sia vittima di violenza.
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