È lecito inserire le impronte digitali nel passaporto. Anche se il rilevamento e la conservazione dei dati biometrici lede i diritti al rispetto della vita privata e alla tutela dei dati personali, tali misure sono giustificate dal fine di impedire qualsiasi uso fraudolento del documento. Lo ha stabilito la Cgue con la sentenza 17 ottobre 2013 nella Causa C-291/12.
Il regolamento
Il regolamento n. 2252/2004 (CE) prevede che i passaporti presentino un supporto di memorizzazione altamente protetto che contiene, accanto all’immagine del volto, due impronte digitali. Queste possono essere utilizzate al solo scopo di verificare l’autenticità del passaporto e l’identità del suo titolare.
Il caso
Un cittadino tedesco ha chiesto all’amministrazione della sua città il rilascio di un passaporto, rifiutandosi però di farsi rilevare le impronte digitali. Poiché l’autorità ha respinto la sua richiesta, egli ha proposto ricorso dinanzi al tribunale amministrativo, affinché ingiungesse all’amministrazione di rilasciargli il documento senza prelevargli le impronte digitali. A questo punto il tribunale amministrativo si è rivolto alla Cgue.
La motivazione
Con la sentenza di la Corte di giustizia chiarisce che il regolamento nella parte in cui obbliga chi richiede il passaporto a far rilevare le proprie impronte digitali e prevedendone la conservazione nel passaporto, è compatibile con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Dunque, per i giudici, la misura pur lesiva della privacy risponde all’obiettivo d’interesse generale di impedire l’ingresso illegale di persone nell’Unione europea. Inoltre, le misure contestate sono idonee a conseguire lo scopo di preservare i passaporti da un uso fraudolento, senza eccedere rispetto allo scopo.
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