giovedì 28 novembre 2019

Criterio del tenore di vita escluso anche nell’assegno di separazione

Ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento nella separazione, è priva di rilevanza la richiesta di provare l'alto tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la rilevante consistenza del patrimonio di uno dei coniugi. I criteri utilizzabili sono quello assistenziale e quello compensativo.
La Corte di Cassazione (sez. VI-1) con l’ordinanza del 15 ottobre 2019, n. 26084 – ha chiarito il concetto di irreversibilità della crisi coniugale ai fini della separazione personale dei coniugi. Con riguardo alla quantificazione del mantenimento, la Corte ha escluso l’utilizzo del criterio del tenore di vita in analogia con l’assegno divorzile.

Il caso
Nel giudizio separativo, il marito convenuto non si costituisce in giudizio e il Tribunale accoglie la domanda della moglie senza imporre alcun assegno di mantenimento stante la condizione di autosufficienza economica di entrambe le parti.
La sentenza è impugnata dall’uomo il quale chiede che il giudizio sia dichiarato nullo per non essere stato convocato a presenziare all'udienza presidenziale e per non avere ricevuto la notifica dell'ordinanza di fissazione dell'udienza davanti al giudice istruttore.
Il Tribunale ha inoltre errato nell’omettere l’accertamento sull’irreversibilità della crisi coniugale.
La Corte d’Appello territoriale dichiara nullo il procedimento stante la mancata comparizione del marito all’udienza presidenziale senza rimettere la causa al tribunale. Nel merito, ritiene infondata la richiesta di accertamento sull’intollerabilità della convivenza, presupposto richiesto dall’art. 151 c.c., e dispone che la moglie versi al marito un assegno di mantenimento di 1.500 euro.
Anche contro questo provvedimento, l’uomo ricorre in Cassazione.
La soluzione interpretativa della Cassazione è rilevante quanto a due particolari questioni.
Sulla prova dell’intollerabilità della convivenza
La Corte chiarisce che l’intollerabilità della convivenza deve essere intesa come fatto psicologico squisitamente individuale: non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza. Ovviamente, tale fatto, deve essere verificabile in base a fatti oggettivi e a tal fine rileva, sia la presentazione stessa del ricorso separativo, sia il risultato del tentativo di conciliazione da esperire in sede di comparizione all’udienza presidenziale.
Sull’assegno di mantenimento al coniuge economicamente più debole
Nella coppia era risultato un rilevante squilibrio economico in favore della moglie, e, infatti, il marito aveva chiesto che l’assegno fosse rideterminato in 6.000 euro mensili anziché 1.500.
La Cassazione, ai fini della determinazione della misura dell’assegno, richiama però l’orientamento di legittimità applicabile all’assegno divorzile.
In forza dell’orientamento delle sezioni unite, è irrilevante la richiesta di provare l'alto tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la notevole consistenza del patrimonio della moglie, dovendosi attribuire all'assegno, una funzione assistenziale – ampiamente soddisfatta dalla misura dell'assegno riconosciuto al ricorrente – e una funzione compensativa, i cui presupposti non sono stati provati.
La Corte pertanto ha respinto il ricorso ritenendo che la mancata rimessione al giudice di primo grado dopo la declaratoria di nullità del procedimento, non rientra nelle previsioni di cui all’art. 353 e ss c.p.c., e, in tal caso, il giudice di appello deve decidere la causa nel merito, dopo aver dichiarato la nullità e autorizzare tutte le attività che dovevano essere esperite (conformi Cass. Civ. n. 26361/2011 e Cass. Civ. 8713/2015).

fonte: www.altalex.com

Consumatore di stupefacenti non guidava? No a revisione della patente

Il Consiglio di Stato (sezione II) ha analizzato la fattispecie relativa al sequestro di sostanze stupefacenti a carico di un uomo che non si trovava alla guida di un veicolo (sentenza n. 5868/2019).

La vicenda in primo grado
Il Tar accoglieva il ricorso presentato da un uomo avverso gli atti dell’Ufficio della motorizzazione civile coi quali era stata disposta la revisione della patente di guida di cui era titolare, mediante nuovo esame di idoneità psicofisica. 
Il primo provvedimento era stato adottato dopo che l’UTG aveva comunicato all’Ufficio della Motorizzazione civile che lo stesso uomo era stato segnalato dalla Guardia di Finanza per essere stato trovato in possesso di un modesto quantitativo di hashisc nel mentre camminava a piedi. In conformità a quanto disposto dall'art. 75, comma IV, del d.P.R. n. 309/1990, l’UTG aveva proceduto a un colloquio con l’interessato, che si era impegnato ad astenersi dal ripetere l’atto. 
L’UTG aveva disposto, nei confronti del medesimo soggetto, il provvedimento di invito formale a non utilizzare più la sostanza, al contempo proponendo all’Ufficio della motorizzazione civile di valutare l’opportunità di ordinare la verifica della sussistenza dei requisiti psicofisici di idoneità alla guida, ex art. 128 del Codice della strada. Veniva quindi disposta la revisione della patente di guida. Il successivo atto veniva emanato dallo stesso Ufficio della motorizzazione civile, dopo che il Tar aveva adottato, in via cautelare, l’ordinanza di sospensione degli effetti dell’atto impugnato mediante ricorso principale, avendo identificato un fumus boni iuris nel motivo di ricorso afferente alla violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento.
Il gravame
In sede di appello il MIT (Ministero delle infrastrutture e dei trasporti) impugna la sentenza del TAR nella parte in cui ha ritenuto che il secondo provvedimento violasse l’articolo 128 del Codice della strada. 
La II Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza 26 agosto 2019, n. 5868, ha rigettato l’interposto gravame, così confermando la pronuncia già resa dal TAR, e constatando che gli atti impugnati in primo grado erano stati adottati in carenza del presupposto di legge costituito dall’essere alla guida da parte del ricorrente.
La conferma dell’orientamento ermeneutico
La Sezione ribadisce l’indirizzo, del medesimo Consiglio, che ritiene, in ipotesi di sequestro di stupefacenti a carico di soggetto che non era alla guida di un’auto, né era appena sceso da un veicolo, e neppure stava per accingersi alla sua guida, che tale evento non potesse “costituire circostanza di fatto e di diritto idonea giustificare l’adozione a carico dell’appellante di una determinazione di tipo restrittivo del genere di quella assunta, non potendosi l’episodio farsi ricadere nell’ambito applicativo delle disposizioni che regolano la materia contemplata dal codice della strada” (Cons. Stato, sez. IV 20 gennaio 2015, n. 139).
La mancanza di collegamento tra il sequestro della sostanza stupefacente e la patente di guida
In particolare, nelle suesposte circostanze, non viene ravvisata connessione alcuna tra il sequestro della sostanza stupefacente e la disciplina del possesso della patente di guida e, “anche a voler ritenere che la misura adottata abbia una funzione precauzionale e di prevenzione, non può certo essere sufficiente quel singolo, unico episodio di detenzione di una sostanza stupefacente a giustificare, in assenza di altri elementi di fatto e giudizio, l’adozione di un atto in cui si mette in discussione l’idoneità psico-fisica” di un soggetto ai fini della conduzione di mezzi di trasporto. Episodio siffatto, debitamente accertato e contestato “ha certamente una sua rilevanza, ma ad altri fini di tutela e prevenzione” (Cons. Stato n. 139/2015), in relazione ai quali la Prefettura aveva già provveduto ai sensi dell’art. 75 del d.P.R. n. 309/1990.
Non si configura l’istituto della revisione della patente di guida
Nella fattispecie erano assenti circostanze riconducibili alla guida di veicoli, pertanto non si configura l’istituto della revisione della patente di guida (art. 128, comma I, Codice della strada) come provvedimento amministrativo, funzionale alla garanzia della sicurezza del traffico stradale non avente natura di sanzione amministrativa, sia pure accessoria (Cons. Stato Sez. IV, 3 ottobre 2018, n. 5682).

fonte: www.altalex.com

martedì 19 novembre 2019

Assegno divorzile non spetta alla ex moglie che abbandona il lavoro

Confermata la funzione puramente assistenziale dell’assegno divorzile, che non spetta al richiedente privo di mezzi adeguati per sua libera scelta.
È quando afferma la Corte di Cassazione, sez. VI Civile, sottosezione 1, con l'ordinanza 18 ottobre 2019, n. 26594.

L’ex moglie, ancora in giovane età e pienamente capace di trovarsi un’occupazione, non ha diritto a percepire l’assegno divorzile quando ha volontariamente abbandonato l’impiego che le assicurava l’autosufficienza economica.
Lo ha affermato la Sesta Sezione Civile, Sottosezione 1, della Suprema Corte di Cassazione, che con l’ordinanza n. 26594 in commento ha ribadito l’orientamento giurisprudenziale inaugurato dalle Sezioni Unite nel 2018.
Viene dunque confermata la funzione meramente assistenziale, ed al contempo perequativa e compensativa dell’assegno divorzile, che non spetta al richiedente che versi in stato di bisogno imputabile ad una sua libera scelta.
I fatti di causa
La pronuncia trae origine da un procedimento di divorzio promosso dinanzi al Tribunale di Verbania.
Dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio il Tribunale affidava i due figli della coppia al padre, ponendo a suo carico un assegno divorzile mensile in favore della ex moglie e imponendo a quest’ultima un contributo mensile di pari importo per il mantenimento dei figli.
Accogliendo l’impugnazione proposta dall’ex marito la Corte d’appello di Torino revocava l’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile posto a suo carico; respingeva al contempo l’appello incidentale proposto dalla ex moglie, finalizzato ad ottenere un aumento del predetto assegno e l’affidamento condiviso dei figli, che la madre dichiarava di poter accogliere presso la propria residenza.
La Corte d’appello motivava la decisione ponendo l’accento sul risalente disinteresse della madre nei confronti della prole e sul fatto che la richiedente, pur essendo ancora giovane e pienamente in grado di lavorare, avesse volontariamente abbandonato il proprio impiego di commessa in un supermercato.
A detta della Corte difettava quindi uno “stato di bisogno” dell’istante, tale da giustificare la corresponsione in suo favore di un contributo al mantenimento da parte dell’ex coniuge.
Anche volendo ammettere che esistesse una situazione del genere, la Corte osservava che sarebbe stata comunque frutto di una scelta volontaria e consapevole della richiedente, che avrebbe ben potuto continuare a lavorare, magari cercando nel frattempo un impiego più redditizio o più consono alle proprie esigenze.
Di qui l’accoglimento dell’appello principale, con revoca di corresponsione dell’assegno divorzile
La signora proponeva quindi ricorso per cassazione, lamentando l’erronea valutazione dei presupposti giustificanti la revoca dell’assegno in suo favore.
L’ordinanza della Cassazione conferma la pronuncia resa dalla Corte d’appello.
Muovendo da una precedente pronuncia di legittimità (Cass. n. 11504 del 2017) la Corte territoriale ha infatti correttamente chiarito che l’assegno divorzile ha funzione puramente assistenziale, avendo come solo scopo quello di garantire l’autosufficienza economica al coniuge che non è in grado di provvedervi con la propria capacità lavorativa e non dispone di redditi adeguati.
La Corte osserva che la funzione assistenziale e al contempo perequativa e compensativa dell’assegno trova conferma anche nella pronuncia resa dalle Sezioni Unite (Cass. civ. SS.UU. n. 18287 dell’11.07.2018), ove si legge, tra l’altro, che il riconoscimento dell’assegno in favore dell’ex coniuge richiede che sia accertata l’inadeguatezza dei mezzi dell’istante e la sua impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
All’indomani della predetta sentenza l’assegno divorzile non ha più lo scopo di ripristinare il tenore di vita goduto dai coniugi (ed in particolare dal richiedente) in costanza di matrimonio, ma quella di riconoscere e valorizzare il ruolo e il contributo fornito dall’istante alla formazione del patrimonio familiare e di quello personale degli ex coniugi.
Il giudice cui sia richiesto di stabilire se, ed eventualmente in che misura spetti l’assegno divorzile, dovrà infatti procedere secondo l’iter logico delineato nella citata pronuncia.
In primo luogo dovrà comparare, anche d’ufficio, le condizioni  economico-patrimoniali delle parti:.
Qualora risulti che il richiedente è privo di mezzi adeguati o è oggettivamente impossibilitato a procurarseli, dovrà poi accertare le cause di questa sperequazione alla luce dei parametri indicati all’art. 5, sesto comma della L. n. 898/1970 sul divorzio: in particolare dovrà valutare se ciò dipenda dal contributo che il richiedente ha apportato al nucleo familiare e alla creazione del patrimonio comune, sacrificando le proprie aspettative personali e professionali in relazione alla sua età e alla durata del matrimonio.
All’esito di tali valutazioni il giudice dovrà quindi quantificare l’assegno divorzile, rapportandolo non (più) al pregresso tenore di vita familiare, né all’autosufficienza economica del richiedente, ma avendo come unico scopo quello di garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo precedentemente fornito.
La decisione della Corte
Nel caso di specie - osservano gli Ermellini - la Corte d’appello ha correttamente rilevato che l’eventuale inadeguatezza di mezzi della ricorrente non dipendeva dalla sua incapacità lavorativa o da fattori esterni alla sua volontà, ma al contrario dall’aver liberamente deciso di abbandonare l’occupazione che fino ad allora le aveva garantito un reddito fisso.
Quanto all’indagine sul contributo fornito dall’istante, le deduzioni difensive e probatorie svolte non hanno dato prova che questa abbia concorso, in maniera rilevante, alla formazione del patrimonio comune e alla cura della famiglia, o che le sue aspettative lavorative siano state sacrificate a vantaggio delle esigenze familiari.
Di qui la conclusione che la decisione di revoca dell’assegno divorzile, disposta dalla Corte di merito, è pienamente rispondente ai parametri dell’art. 5 della L. n. 898 del 1970, così come interpretato dalla recente giurisprudenza delle Sezioni Unite.
Conclusioni
Muovendo dalle predette argomentazioni la Corte ha quindi respinto il ricorso, disponendo tuttavia la compensazione delle spese del giudizio di legittimità in ragione dei recenti mutamenti della giurisprudenza in materia di assegno divorzile.

fonte: www.altalex.com

giovedì 14 novembre 2019

Piange durante il rapporto sessuale: implicito il dissenso

Il pianto della donna, durante il rapporto sessuale impostole dal convivente, è un elemento inequivocabile per dedurre il dissenso della vittima.
È quanto emerge dalla sentenza 15 ottobre 2019, n. 42118 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Integra l'elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia la consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona (Cass. pen., Sez. III, 23 giugno 2016, n. 22127).
Parimenti, l'elemento soggettivo del reato è costituito dal dolo generico e, pertanto, dalla coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona non consenziente, restando irrilevante l'eventuale fine ulteriore propostosi dal soggetto agente (Cass. pen., Sez. III, 17 aprile 2013, n. 20754).
La mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l'errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale (Cass. pen., Sez. III, 5 ottobre 2017, n. 2400).
In pratica, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è sufficiente che l'agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico. Infatti, la cassazione ha precisato che non è ravvisabile alcun indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato, un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso all'intromissione di soggetti terzi all'interno della sua sfera sessuale. Al contrario, deve ritenersi che tale dissenso sia da presumersi laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare l'esistenza di un, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco, consenso.
Nella fattispecie, il pianto manifestato dalla donna durante il rapporto, nonché l'attitudine sprezzante del partner, sono elementi sufficienti per ritenere sussistente un dissenso all'atto sessuale da parte della donna e per parlare di violenza sessuale.
Viene, altresì, precisato, che la circostanza attenuante prevista dall'art. 609-bis, comma 3, c.p., per i casi di minore gravità, è applicabile solo quando, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell'azione, si possa ritenere che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera lieve. Nella fattispecie gli ermellini ritengono che l'odiosità della condotta sia stata massima tenuto conto che, giunto alla soddisfazione sessuale, il ricorrente, non pago dell'evidenza di quanto compiuto, ebbe anche a lanciare i fazzoletti alla compagna dicendole “pulisciti”, incurante del pianto della donna e delle suppliche di costei.

fonte: www.altalex.com

giovedì 7 novembre 2019

Infortunio mortale del lavoratore, rendita Inail non va defalcata

L’INAIL non può rivalersi sul danneggiato sulle somme che questi non ha percepito dal responsabile. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. VI-3 Civile, con l'ordinanza 18 ottobre 2109 n. 26647. 
E’ abrogato l’art. 1, comma 1126, della legge 30.12.2018 n. 145; nel caso di infortunio mortale occorso ad un lavoratore, il valore capitale della rendita costituita dall'INAIL in favore dei congiunti non può essere defalcata dal risarcimento del danno non patrimoniale spettante ai medesimi soggetti. 

Si discute se dal risarcimento percepito dal danneggiato dall’assicuratore aquiliano vada detratta l’intera rendita erogata dall’assicuratore sociale.
Per comprendere la decisione, è necessario fare un passo indietro, non spiegato nella sentenza. La Cassazione, con sentenza Sezione Lavoro 21 novembre 2017 n. 27669, aveva affermato che dal danno biologico va detratto non già il capitale dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il capitale della quota di danno biologico stesso, con esclusione della quota rapportata alla capacità lavorativa; cioè dal risarcimento aquiliano va detratto soltanto “quella” parte della rendita sociale che attiene alle stesse poste risarcitorie ottenute, escludendo dalla sottrazione altre voci che non hanno fatto parte del risarcimento aquiliano riconosciuto al danneggiato.
Senonché, la stessa Cassazione aveva successivamente affermato, con sentenza molto discutibile della Sez. Lavoro 27 marzo 2019 n. 8580, che il danno differenziale è il risarcimento aquiliano decurtato dalla capitalizzazione della intera rendita sociale, cioè il credito risarcitorìo della vittima si riduce non più nella misura in cui abbia ricevuto dall'assicuratore sociale indennizzi destinati a ristorare danni che dal punto dì vista civilistico possano dirsi effettivamente patiti e pagati (per poste omogenee), bensì a qualsiasi titolo ed indistintamente (per sommatoria). Decisivo sarebbe stato l’art. 1, comma 1126, della legge n. 145 del 2018.
Si è quindi creato un impasse, un vicolo cieco. 
Tuttavia, con quest’ultima pronuncia (18 ottobre 2109 n. 26647), il Relatore Dott. Marco Rossetti ha colto l’occasione per rimettere la materia in ordine.
La decisione
In primis, è definitivamente privo di diritto di cittadinanza il bislacco art. 1, comma 1126, della legge 30.12.2018 n. 145 in quanto abrogato, quasi in sordina, con efficacia retroattiva, dall'art. 3 sexies d.l. 30.4.2019 n. 34. Non solo: gli artt. 142 e 283 del codice delle assicurazioni sono regula iuris già esistente nell'ordinamento, ed introdotta da un ben noto gruppo di sentenze della Corte costituzionale (Corte cost., 06-06-1989, n. 319; Corte cost., 18-07-1991, n. 356; Corte cost., 27-12-1991, n. 485; Corte cost., 17-02-1994, n. 37), secondo cui l'assicuratore sociale può surrogarsi, nei confronti delle persone civilmente responsabili dell'infortunio occorso al lavoratore, solo sui crediti vantati dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni oggetto di copertura assicurativa da parte dell'assicuratore sociale.
Sbaragliato il campo dal fastidioso art. 1 ormai abrogato, il Relatore Dott. Marco Rossetti rimette ordine, come detto, alla materia offrendo un esempio; nel caso di uccisione di un lavoratore, l'Inail corrisponde ai congiunti che posseggano i requisiti di legge una rendita (artt. 66, n. 4, ed 85 d.P.R. 30.6.1965 n. 1124). Tale rendita è parametrata al reddito del de cuius, non può superare il 100% della retribuzione del defunto, quale che sia il numero degli aventi diritto; cessa se il coniuge superstite contrae nuove nozze; cessa quando il figlio che ne fosse beneficiario raggiunga il ventunesimo anno di età, ovvero il ventiseiesimo se studente universitario (art. 85 d.P.R. cit.). 
Tali caratteristiche palesano che la rendita di cui si discorre ha lo scopo solidaristico di sollevare i congiunti del defunto dallo stato di bisogno in cui la legge presume iuris et de iure che essi verrebbero a trovarsi in conseguenza della perdita del contributo economico che il lavoratore deceduto apportava alla propria famiglia. 
La rendita, quindi, ha lo scopo di indennizzare un pregiudizio patrimoniale, e non certo un danno non patrimoniale. Ne consegue che le somme erogate dall'Inail per il suddetto titolo non possono essere defalcate dal credito risarcitorio spettante ai congiunti del lavoratore deceduto a titolo di ristoro del danno non patrimoniale patito - sotto qualsiasi forma - in conseguenza dell'infortunio. 
La c.d. compensatio lucri cum damno (la quale non costituisce un istituto a sé, ma una regola empirica di corretta aestimatio del danno), infatti, non opera quando il vantaggio conseguito dalla vittima dopo il fatto illecito sia destinato a ristorare pregiudizi ulteriori e diversi da quello di cui ha chiesto il risarcimento, così come stabilito dalle Sezioni Unite (Sez. Unite, sentenza n. 12566 del 22/05/2018).
La Corte (Dott. Marco Rossetti) va quindi a ripristinare il seguente principio: “nel caso di infortunio mortale occorso ad un lavoratore, il valore capitale della rendita costituita dall'INAIL in favore dei congiunti, ai sensi dell'articolo 83 del d.p.r. 30.6.1965 n. 1124, non può essere defalcata dal risarcimento del danno non patrimoniale spettante ai medesimi soggetti”.
Alle medesime conclusioni deve pervenirsi secondo l’istituto della surrogazione, che è una successione a titolo particolare del solvens (il surrogante) nel credito vantato dall'accipiens (il surrogato) nei confronti del terzo debitore (ex multis Sez. U, Sentenza n. 8620 del 29/04/2015; Sez. 3, sentenza n. 5594 del 20/03/2015; Sez. 3, sentenza n. 1336 del 20/01/2009; Sez. 3, sentenza n. 11457 del 17/05/2007). 
Essa realizza una vicenda circolatoria del credito, in virtù della quale quest'ultimo si trasferisce dal surrogato al surrogante, restando però immutato con tutte le sue caratteristiche: il suo contenuto, i suoi accessori, le eccezioni opponibili. Il trasferimento del credito, ovviamente, non può che avvenire nei limiti del solutum: presupposto della surrogazione è infatti il pagamento, non la promessa di pagamento, e ciò fa sì che il surrogante sì surroga nel credito che ha indennizzato, e non in altri crediti eventualmente e contestualmente vantati dal danneggiato nei confronti del terzo responsabile; e nella misura in cui ha pagato, e solo entro questa misura egli acquista il credito di cui fu già titolare il danneggiato. Se il danneggiato ha sofferto un danno patrimoniale ed uno non patrimoniale, e l'assicuratore sociale indennizzi, il primo, il credito che per effetto della surrogazione muterà soggetto attivo sarà solo quello avente ad oggetto il risarcimento del danno patrimoniale, e non l'altro.
Analogamente, se il danneggiato ha sofferto un danno pari a "100", e riceva dall'assicuratore sociale "80", solo entro questa minor somma il credito risarcitorio potrà trasferirsi in capo all'assicuratore sociale (ex Sez. 6- 3, ordinanza n. 1834 del 25/01/2018). 
Da ciò consegue che il contenuto della pretesa surrogatoria dell'assicuratore sociale (sia quando venga invocata ai sensi dell'art. 1916 c.c.; sia quando venga invocata ai sensi dell'art. 142 cod. ass.; sia quando venga invocata ai sensi dell'art. 1203 c.c.) incontra sempre due limiti oggettivi: a) l'assicuratore sociale non può pretendere dal terzo responsabile più di quanto egli abbia pagato al beneficiario, giacché per l'eccedenza rispetto a tale limite, alcun credito è stato a lui trasferito (Sez. 3, sentenza n. 4347 del 23/02/2009); b) l'assicuratore sociale non può pretendere dal terzo responsabile un importo maggiore del danno che quest'ultimo ha effettivamente causato alla vittima, stimato secondo le regole del diritto civile. Perché una surrogazione possa avvenire, è infatti necessario che il surrogato sia creditore del terzo; ma se il terzo alcun danno ha causato al surrogato, ovvero gliene ha causato uno di entità inferiore all'importo versato dall'assicuratore sociale, per questa parte il credito risarcitorio non esiste e, non esistendo, non può nemmeno essere acquisito dall'assicuratore sociale a titolo di surrogazione (Sez. 3, sentenza n. 25182 del 03/12/2007).

fonte: www.altalex.com

mercoledì 6 novembre 2019

Colpo di scena: seggiolini anti abbandono obbligatori da subito

Entra in vigore domani, 7 novembre, l’obbligo per chi trasporta minori di 4 anni di installare dispositivi per prevenire l’abbandono di bambini nei veicoli chiusi. Lo ha reso noto l’Asaps, Associazione sostenitori Polstrada, spiegando che il ministero dell’Interno ha divulgato oggi la Circolare esplicativa per attuare il decreto del Mit relativo al Regolamento sull’art.172 del nuovo Codice della strada.

I dispositivi dovranno attivarsi automaticamente ed essere dotati di un allarme in grado di avvisare il conducente della presenza del bambino nel veicolo attraverso appositi segnali visivi e acustici o visivi e «aptici», percepibili all’interno o all’esterno del veicolo (potranno essere dotati anche di un sistema di comunicazione automatico per l’invio di messaggi o chiamate). Chi non si doterà di questi dispositivi incorrerà nelle violazioni previste dall’articolo 172 del Codice della Strada: sanzione amministrativa da 81 a 326 euro (se pagata entro cinque giorni 56,70 euro) e decurtazione di 5 punti dalla patente. 
«Il ministero dell’Interno sospenda per il momento le sanzioni sui seggiolini anti abbandono, finché i cittadini non saranno stati informati in maniera corretta e diffusa sulla nuova normativa e finché non sarà operativo l’incentivo di 30 euro all’acquisto, previsto da dl Fisco, le cui modalità di attuazione devono ancora essere chiarite dal ministero dei Trasporti», ha affermato il deputato del Pd Ubaldo Pagano, componente della commissione Bilancio della Camera. «I cittadini devono essere informati correttamente, magari anche con una campagna ad hoc sulle televisioni Rai, Mediaset, La7, etc, prima di rischiare di subire sanzioni. Rimane, poi, da definire l’agevolazione all’acquisto dei nuovi dispositivi: il dl Fisco ha stanziato 15,1 milioni, ma la disciplina dell’attuazione dovrà arrivare con un dm Mit, di concerto con il Mef. Prima di iniziare a sanzionare, si completi tutta la procedura», conclude Pagano. 

fonte: www.lastampa.it

Ferrara: Violentò minore in auto. Condanna a dieci anni per il pedofilo seriale

Ieri la sentenza del Tribunale nei confronti uno straniero di 32 anni. Al termine dell’udienza la vittima, ora maggiorenne, ha pianto. É sta...