giovedì 7 novembre 2019

Infortunio mortale del lavoratore, rendita Inail non va defalcata

L’INAIL non può rivalersi sul danneggiato sulle somme che questi non ha percepito dal responsabile. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. VI-3 Civile, con l'ordinanza 18 ottobre 2109 n. 26647. 
E’ abrogato l’art. 1, comma 1126, della legge 30.12.2018 n. 145; nel caso di infortunio mortale occorso ad un lavoratore, il valore capitale della rendita costituita dall'INAIL in favore dei congiunti non può essere defalcata dal risarcimento del danno non patrimoniale spettante ai medesimi soggetti. 

Si discute se dal risarcimento percepito dal danneggiato dall’assicuratore aquiliano vada detratta l’intera rendita erogata dall’assicuratore sociale.
Per comprendere la decisione, è necessario fare un passo indietro, non spiegato nella sentenza. La Cassazione, con sentenza Sezione Lavoro 21 novembre 2017 n. 27669, aveva affermato che dal danno biologico va detratto non già il capitale dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il capitale della quota di danno biologico stesso, con esclusione della quota rapportata alla capacità lavorativa; cioè dal risarcimento aquiliano va detratto soltanto “quella” parte della rendita sociale che attiene alle stesse poste risarcitorie ottenute, escludendo dalla sottrazione altre voci che non hanno fatto parte del risarcimento aquiliano riconosciuto al danneggiato.
Senonché, la stessa Cassazione aveva successivamente affermato, con sentenza molto discutibile della Sez. Lavoro 27 marzo 2019 n. 8580, che il danno differenziale è il risarcimento aquiliano decurtato dalla capitalizzazione della intera rendita sociale, cioè il credito risarcitorìo della vittima si riduce non più nella misura in cui abbia ricevuto dall'assicuratore sociale indennizzi destinati a ristorare danni che dal punto dì vista civilistico possano dirsi effettivamente patiti e pagati (per poste omogenee), bensì a qualsiasi titolo ed indistintamente (per sommatoria). Decisivo sarebbe stato l’art. 1, comma 1126, della legge n. 145 del 2018.
Si è quindi creato un impasse, un vicolo cieco. 
Tuttavia, con quest’ultima pronuncia (18 ottobre 2109 n. 26647), il Relatore Dott. Marco Rossetti ha colto l’occasione per rimettere la materia in ordine.
La decisione
In primis, è definitivamente privo di diritto di cittadinanza il bislacco art. 1, comma 1126, della legge 30.12.2018 n. 145 in quanto abrogato, quasi in sordina, con efficacia retroattiva, dall'art. 3 sexies d.l. 30.4.2019 n. 34. Non solo: gli artt. 142 e 283 del codice delle assicurazioni sono regula iuris già esistente nell'ordinamento, ed introdotta da un ben noto gruppo di sentenze della Corte costituzionale (Corte cost., 06-06-1989, n. 319; Corte cost., 18-07-1991, n. 356; Corte cost., 27-12-1991, n. 485; Corte cost., 17-02-1994, n. 37), secondo cui l'assicuratore sociale può surrogarsi, nei confronti delle persone civilmente responsabili dell'infortunio occorso al lavoratore, solo sui crediti vantati dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni oggetto di copertura assicurativa da parte dell'assicuratore sociale.
Sbaragliato il campo dal fastidioso art. 1 ormai abrogato, il Relatore Dott. Marco Rossetti rimette ordine, come detto, alla materia offrendo un esempio; nel caso di uccisione di un lavoratore, l'Inail corrisponde ai congiunti che posseggano i requisiti di legge una rendita (artt. 66, n. 4, ed 85 d.P.R. 30.6.1965 n. 1124). Tale rendita è parametrata al reddito del de cuius, non può superare il 100% della retribuzione del defunto, quale che sia il numero degli aventi diritto; cessa se il coniuge superstite contrae nuove nozze; cessa quando il figlio che ne fosse beneficiario raggiunga il ventunesimo anno di età, ovvero il ventiseiesimo se studente universitario (art. 85 d.P.R. cit.). 
Tali caratteristiche palesano che la rendita di cui si discorre ha lo scopo solidaristico di sollevare i congiunti del defunto dallo stato di bisogno in cui la legge presume iuris et de iure che essi verrebbero a trovarsi in conseguenza della perdita del contributo economico che il lavoratore deceduto apportava alla propria famiglia. 
La rendita, quindi, ha lo scopo di indennizzare un pregiudizio patrimoniale, e non certo un danno non patrimoniale. Ne consegue che le somme erogate dall'Inail per il suddetto titolo non possono essere defalcate dal credito risarcitorio spettante ai congiunti del lavoratore deceduto a titolo di ristoro del danno non patrimoniale patito - sotto qualsiasi forma - in conseguenza dell'infortunio. 
La c.d. compensatio lucri cum damno (la quale non costituisce un istituto a sé, ma una regola empirica di corretta aestimatio del danno), infatti, non opera quando il vantaggio conseguito dalla vittima dopo il fatto illecito sia destinato a ristorare pregiudizi ulteriori e diversi da quello di cui ha chiesto il risarcimento, così come stabilito dalle Sezioni Unite (Sez. Unite, sentenza n. 12566 del 22/05/2018).
La Corte (Dott. Marco Rossetti) va quindi a ripristinare il seguente principio: “nel caso di infortunio mortale occorso ad un lavoratore, il valore capitale della rendita costituita dall'INAIL in favore dei congiunti, ai sensi dell'articolo 83 del d.p.r. 30.6.1965 n. 1124, non può essere defalcata dal risarcimento del danno non patrimoniale spettante ai medesimi soggetti”.
Alle medesime conclusioni deve pervenirsi secondo l’istituto della surrogazione, che è una successione a titolo particolare del solvens (il surrogante) nel credito vantato dall'accipiens (il surrogato) nei confronti del terzo debitore (ex multis Sez. U, Sentenza n. 8620 del 29/04/2015; Sez. 3, sentenza n. 5594 del 20/03/2015; Sez. 3, sentenza n. 1336 del 20/01/2009; Sez. 3, sentenza n. 11457 del 17/05/2007). 
Essa realizza una vicenda circolatoria del credito, in virtù della quale quest'ultimo si trasferisce dal surrogato al surrogante, restando però immutato con tutte le sue caratteristiche: il suo contenuto, i suoi accessori, le eccezioni opponibili. Il trasferimento del credito, ovviamente, non può che avvenire nei limiti del solutum: presupposto della surrogazione è infatti il pagamento, non la promessa di pagamento, e ciò fa sì che il surrogante sì surroga nel credito che ha indennizzato, e non in altri crediti eventualmente e contestualmente vantati dal danneggiato nei confronti del terzo responsabile; e nella misura in cui ha pagato, e solo entro questa misura egli acquista il credito di cui fu già titolare il danneggiato. Se il danneggiato ha sofferto un danno patrimoniale ed uno non patrimoniale, e l'assicuratore sociale indennizzi, il primo, il credito che per effetto della surrogazione muterà soggetto attivo sarà solo quello avente ad oggetto il risarcimento del danno patrimoniale, e non l'altro.
Analogamente, se il danneggiato ha sofferto un danno pari a "100", e riceva dall'assicuratore sociale "80", solo entro questa minor somma il credito risarcitorio potrà trasferirsi in capo all'assicuratore sociale (ex Sez. 6- 3, ordinanza n. 1834 del 25/01/2018). 
Da ciò consegue che il contenuto della pretesa surrogatoria dell'assicuratore sociale (sia quando venga invocata ai sensi dell'art. 1916 c.c.; sia quando venga invocata ai sensi dell'art. 142 cod. ass.; sia quando venga invocata ai sensi dell'art. 1203 c.c.) incontra sempre due limiti oggettivi: a) l'assicuratore sociale non può pretendere dal terzo responsabile più di quanto egli abbia pagato al beneficiario, giacché per l'eccedenza rispetto a tale limite, alcun credito è stato a lui trasferito (Sez. 3, sentenza n. 4347 del 23/02/2009); b) l'assicuratore sociale non può pretendere dal terzo responsabile un importo maggiore del danno che quest'ultimo ha effettivamente causato alla vittima, stimato secondo le regole del diritto civile. Perché una surrogazione possa avvenire, è infatti necessario che il surrogato sia creditore del terzo; ma se il terzo alcun danno ha causato al surrogato, ovvero gliene ha causato uno di entità inferiore all'importo versato dall'assicuratore sociale, per questa parte il credito risarcitorio non esiste e, non esistendo, non può nemmeno essere acquisito dall'assicuratore sociale a titolo di surrogazione (Sez. 3, sentenza n. 25182 del 03/12/2007).

fonte: www.altalex.com

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