sabato 4 marzo 2017

Violenza domestica: la CEDU condanna l’Italia

La Corte europea dei diritti umani ha - per la prima volta - condannato l'Italia per l’eccessiva lentezza con cui la giustizia italiana si è mossa, in relazione ad un reato di violenza domestica.
Si tratta di atti di violenza domestica perpetrati dal marito sulla moglie e sul figlio; il figlio è stato ucciso e la moglie ha subito lesioni e il reato di tentato omicidio.
La Corte ha stabilito che "non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che in fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio".
In particolare la condanna si deve alla violazione dei seguenti articoli:
dell'articolo 2 cost. (diritto alla vita),
articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti),
articolo 14 (divieto di discriminazione) della convenzione europea dei diritti umani.
I giudici hanno riconosciuto alla ricorrente 30mila euro per danni morali e 10 mila per le spese legali.
Il caso è avvenuto a Remanzacco (Ud), il 26/11/ 2013 quando il marito uccise il figlio diciannovenne e tentò di uccidere anche la madre (Elisaveta Talpis).
La signora aveva denunciato il marito e ripetute richieste di intervento rivolte alle autorità anche da parte dei vicini ma nessuno aveva mai ritenuto di dover fare nulla
Cosa dice la legge italiana
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è previsto dall’articolo 572 codice penale, che punisce con la reclusione da 2 a 6 anni chi maltratta un familiare o convivente. La pena è aumentata fino a 15 anni se ne consegue una lesione gravissima o fino a 24 anni in caso di morte.
Il problema di fondo della questione però non è tanto quello della pena da irrogare dopo che il fatto è successo, ma dei poteri dell’autorità prima che il fatto si verifichi. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, quando vengono denunciate alle autorità comportamenti violenti in famiglia, carabinieri e polizia non intervengono mai perché non esiste, nella nostra legislazione, un istituto che permetta di prevenire certi fatti.
Accade quindi quasi sempre che i carabinieri e la polizia chiamati sul posto o che ricevono la denuncia rimangano inattivi, limitandosi a stendere un verbale che dia conto del fatto, per intervenire solo quando la vicenda assume connotati di irreparabilità, come nel caso in esame.
In alcuni casi, poi, anche quando non ci sono i presupposti per l’applicazione del reato di maltrattamenti in famiglia, possono ricorrere gli estremi di altri reati, come l’ingiuria o le lesioni.
Il problema è che, una volta effettuata la denuncia, passano mesi prima che possa incardinarsi il processo penale, e questo consente al familiare violento di innescare una spirale di atti di violenza in successione crescente, esponendo gli altri familiari a conseguenze molto gravi.
Sarebbe opportuna una legge che consenta a polizia e carabinieri, su ordine dell’AG, di emanare provvedimenti preventivi e cautelativi, rapidi ed efficaci, per poter prevenire questi fatti, anziché intervenire solo a seguito della morte o della lesione delle vittime.

Fonte: www.altalex.com/Violenza domestica: la CEDU condanna l’Italia | Altalex

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