In sede penale, ai fini della configurabilità del reato, non può farsi ricorso alla presunzione tributaria secondo cui tutti gli accrediti su conto corrente si considerano ricavi dell’azienda (art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/73). Viceversa, spetta al giudice penale la determinazione dell’imposta evasa, procedendo d’ufficio ai vari accertamenti, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di fatto. Lo afferma la Cassazione che, per decidere sulla sentenza di condanna per il reato di dichiarazione infedele, riprende e applica principi già espressi in passato.
Secondo l’orientamento della Corte, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie “non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato”. Esse hanno, semplicemente, il valore di dati di fatto, liberamente valutabili dal giudice unitamente a riscontri che diano certezza della condotta criminosa.
Nel caso di specie, con la sentenza del 9 settembre, n. 37302, la Cassazione annulla la decisione di merito ritenendola non conforme a tali principi: l’Appello, in mancanza di prova contraria, riteneva che i versamenti sul conto non potessero che essere proventi di attività commerciale (al contempo, negava riscontro alla tesi difensiva dei giroconti per far fronte a pagamenti di altre società) e richiamava, a tal proposito, le risultanze del contradditorio svoltosi con l’Agenzia delle Entrate. In tal modo, errando, i giudici di merito non compivano alcun accertamento, ribaltando sul contribuente l’onere della prova liberatoria. Il Giudice del rinvio dovrà ora decidere la controversia.
Fonte: www.fiscopiu.it/La Stampa - Le presunzioni tributarie non valgono come prova in sede penale
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giovedì 11 settembre 2014
Le presunzioni tributarie non valgono come prova in sede penale

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