Responsabile della diffazione il gestore della rete televisiva che manda in onda trasmissioni senza esercitare un controllo, responsabilità è aggravata per via del mezzo ad ampia diffusione. E' questo il principio espresso dalla terza sezione della Cassazione con la sentenza 11 ottobre 2013 n. 23144.
La vicenda
Il caso rigurada lo "scontro giudiziario" tra Vittorio Sgarbie e il magistrato Agostino Cordova, a seguito di un presunta diffamazione all'interno del programma televisivo "Sgarbi quotidiani". Con sentenza in data 26 febbraio 2004 il tribunale di Roma condannò la Rti Spa, Reti Televisive Italiane, quale produttrice e della trasmissione televisiva “Sgarbi Quotidiani”, al pagamento a favore di Agostino Cordova di. 800.000,00 euro a titolo di risarcimento dei danni conseguenti alla ritenuta campagna diffamatoria condotta dal titolare del programma tra la fine del 1992 e il giugno 1995.
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza in data 14 giugno—16 luglio 2007 rigettò gli appelli proposti da Rti e da Vittorio Sgarbi, intervenuto volontariamente ad adiuvandum nel giudizio di primo grado. La Corte d'appello osservò per quanto interessa:
1) "l’azione del Cordova era stata proposta esclusivamente nei confronti dell’emittente televisiva prefigurandone la responsabilità diretta ex articolo 30 legge 223/1990, ovvero ex articolo 30 della legge 223/1990, ovvero ex articolo 2049 del codice civile, per cui non operava nella specie l’articolo 3 della legge 140/2003 mancando il necessario coinvolgimento di un membro del Parlamento, titolare delle prerogative di cui all’articolo 68 della Costituzione, atteso che nessuna domanda era stata spiegata nei confronti dello Sgarbi, neppure dopo il suo intervento volontario in giudizio; l’esimente di cui sopra aveva natura soggettiva e, quindi, non toccava l’oggettiva illiceità dell’atto e la conseguente responsabilità civile del terzo; l’assenta imprevedibilità delle esternazioni dello Sgarbi non poteva accettarsi per fatti verificatisi nell’arco di quasi tre anni per un totale di 167 trasmissioni;
2) la analitica disamina dei 16 episodi evidenziava il superamento di qualsiasi giustificazione connessa all’esercizio del diritto di cronaca e anche di satira, il quale non si sottrae al limite della continenza".
Vi erano stati, dunque, "attacchi a tutto campo che andavano dal dileggio dell’aspetto fisico, all’assoluta incapacità di gestire la delicata funzione pubblica svolta, all’attribuzione di bassezza morale, in modo di dare agli ascoltatori il quadro di una persona bieca, squallida e degna del massimo disprezzo; il danno era stato determinato in misura adeguata". Contro la sentenza della Corte d'appello la Rti Spa aveva proposto ricorso in cassazione, mentre Cordova aveva resistito con un controricorso e Sgarbi non aveva espletato attività difensiva.
Le motivazioni
In relazione al primo motivo di ricorso i giudici della Cassazione fanno presente che "la lesione dell’onore e della reputazione altrui commessa col mezzo della televisione costituisce sempre un fatto illecito e antigiuridico, in quanto lesivo dei diritti fondamentali dell’individuo riconosciuti dall’art. 2 Cost. e dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea, anche quando venga commessa da persona che non possa essere chiamata a risponderne, come nel caso del parlamentare che invochi la guarentigia di cui all’art. 68 Cost. Ne consegue che, ricorrendo tale ipotesi, incorre in responsabilità civile il gestore di una rete televisiva che abbia concorso nel produrre il danno ingiusto da diffamazione, responsabilità da ritenersi aggravata dalla natura espansiva del mezzo di diffusione peraltro senza esercitare alcun controllo utile, anche successivo alla diffusione della trasmissione".
La Cassazione evidenzia, inoltre, che la Corte di appello ha "evidenziato che la stessa Giunta delle autorizzazioni a procedere, sollecitata dallo Sgarbi ad esprimersi sull’incidenza sul giudizio dell’istituto previsto dall’art. 68 Cost. decise, all’unanimità, che non sussistevano i presupposti per una deliberazione della Camera dei Deputati in materia di insindacabilità. Pertanto, non essendo ravvisabile alcuna ipotesi di sospensione necessaria del processo, correttamente i giudici di merito hanno rigettato la relativa istanza. Sotto diverso profilo, occorre rilevare che la sentenza impugnata è stata depositata il 16 luglio 2007, nella vigenza del’art. 366-bis c.p.c. che, dunque, è applicabile al ricorso.
Per quanto riguarda, in particolare, il quesito di diritto prescritto da tale norma, è ormai jus receptum (Cass. n.
19892 del 2007) che è inammissibile, per violazione dell’art. 366-bis c.p.c.., il ricorso per cassazione nel quale esso si risolva in una generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo. Infatti la novella del 2006 ha lo scopo di innestare un circolo selettivo e “virtuoso” nella preparazione delle impugnazioni in sede di legittimità, imponendo al patrocinante in cassazione l’obbligo di sottoporre alla Corte la propria finale, conclusiva, valutazione della avvenuta violazione della legge processuale o sostanziale, riconducendo ad una sintesi logico—giuridica le precedenti affermazioni della lamentata violazione".
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