giovedì 24 novembre 2022

Violenza sessuale: la manifestazione di disprezzo verso la vittima impedisce di attenuare la pena

Il vilipendio verbale è indicativo di una concezione dei rapporti umani improntata alla prevaricazione e alla lesione della dignità della vittima e, come tale, indicativo della gravità delle condotte tenute.
Questo è quanto deciso dalla Cassazione penale con la sentenza n. 40607/2022.
Il fatto
Il ricorrente veniva condannato nel giudizio di merito alla pena di anni 5 e mesi 1 di reclusione per una pluralità di episodi di violenza sessuale in danno della convivente.
La difesa interponeva impugnazione di legittimità avverso la sentenza di conferma della condanna emessa dalla Corte d’appello articolando tre motivi.
Con il primo censurava la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza dal momento che quest’ultima non faceva cenno alle modalità di compressione della libertà decisionale della vittima che erano state contestate.
Con il secondo motivo si doleva del vizio di motivazione in relazione alla confermata responsabilità penale.
Con il terzo, infine, censurava la mancata riqualificazione del reato nell’ipotesi gradata di violenza sessuale.
La sentenza
La Corte di Cassazione ha rigettato tutti i motivi proposti confermando la condanna.
Quanto alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, ha escluso che ricorresse nel caso di specie dal momento che il nucleo centrale degli episodi di violenza sessuale era rimasto invariato, fra quanto descritto nel capo di imputazione e quanto riportato poi in sentenza, e, pertanto, a prescindere dal mezzo con cui era stata ritenuta coartata la volontà della vittima, l’imputato aveva potuto esercitare il diritto di difesa rispetto all’accusa mossagli.
A riguardo mette conto di ricordare come, secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, il principio di correlazione non è violato quando, in esito alla istruttoria dibattimentale o comunque al giudizio, i fatti risultino essersi verificati secondo modalità marginalmente difformi rispetto a come gli stessi erano stati descritti nel capo di imputazione, ma quando, a seguito del diverso accertamento fattuale operato in sede di giudizio, sia impedito all'imputato, cui era stata rappresentata una determinata ipotesi di accusa, di potere adeguatamente esercitare il proprio diritto di difesa, per avere, la decisione assunta, come oggetto un evento della vita sostanzialmente diverso da quello rappresentatagli.
Quanto al vizio di motivazione in ordine alla confermata responsabilità penale, addotto sostanzialmente con riguardo alla contestata attendibilità della vittima, la Corte ha precisato come le accuse mosse dalla persona offesa fossero state suffragate dalla figlia di costei la quale non solo aveva confermato che l'imputato fosse nella disponibilità di armi bianche e fosse in tal guisa nelle condizioni di rendere verosimili le minacce profferite alla persona offesa ma aveva anche confermato che l'imputato fosse avvezzo a vilipendere verbalmente la compagna, alludendo alle particolari modalità con le quale egli riteneva di doversi congiungere carnalmente con costei.
La circostanza che ciò avvenisse fra le mura della camera da letto condivisa con la persona offesa e che non fossero stati reperiti i filmati con cui l’imputato era solito riprendere le violenze con cui dava sfogo alla sua libido, non sarebbero, infatti, secondo la Corte, idonei ad inficiare la motivazione circa l’attendibilità della vittima posto che i giudici di merito avevano argomentato, nell’un caso, che la parte offesa, atterrita dalle minacce subite, faceva sì che per i comportamenti del convivente non vi fosse strepito al di fuori delle mura della stanza in questione, nell’altro caso che il mancato riscontro documentale era giustificabile con il mero mancato reperimento degli strumenti adoperati dall'imputato per eseguire le riprese in questione.
In materia di valenza probatoria della testimonianza della persona offesa, occorre ricordare che le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.
Il Giudice, quindi, può trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che richiedono la presenza di riscontri esterni.
Tale principio è stato ribadito anche di recente, avendo la Corte di cassazione affermato, in tema di testimonianza, che le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e che, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, nè assistere ogni segmento della narrazione (Cass. Pen., Sez.V, n. 21135/2019, Rv.275312).
Nella specie, la Corte di appello, nel confermare l'affermazione di responsabilità dell’imputato, in linea con i suesposti principio di diritto, aveva posto a fondamento della decisione le dichiarazioni rese dalla persona offesa e della figlia di questa, con motivazioni che la Corte di cassazione ha ritenuto congrue e logiche anche con riferimento alla esclusione della sussistenza della circostanza attenuante del fatto di minore gravità di cui all'ultimo comma dell’art. 609 bis c.p., posto che, indipendentemente dai mezzi di costrizione effettivamente utilizzati dall'imputato per coartare la volontà della persona offesa, ciò che rilevava era la gravità delle minacce a questa rivolte.
Appare significativo che la Corte abbia in tal senso ritenuto non solo priva di significato la dedotta circostanza che i due intrattenessero anche rapporti sessuali di tipo consensuale, ma abbia valorizzato in senso contrario la stessa evidenziando come semmai tale fattore fosse da intendersi indicativo della esistenza da parte della persona offesa della volontà di intrattenere per il resto una ordinaria relazione interpersonale con l'imputato, cui questi, invece, corrispondeva con un deplorevole atteggiamento prevaricatore e violento.
Anzi la Corte è andata oltre considerando indicativo di una concezione dei rapporti umani improntata alla prevaricazione e alla lesione della dignità della vittima e, quindi, indicativo della gravità delle condotte il fatto che l’imputato considerasse dichiaratamente la persona offesa, con disprezzo, al pari di una bestia e, pertanto, ritenesse che corretto fosse il congiungersi con essa more bestiarum.
Di qui il rigetto del ricorso e la condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
fonte: altalex.com

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