giovedì 18 febbraio 2021

Truffe romantiche: 5 anni di reclusione senza attenuanti

Particolarmente ingegnosa e subdola la condotta di tre soggetti che, approfittando della vulnerabilità della vittima, arrivano a farsi consegnare a più riprese quasi 400.000,00 euro.
Facile, quindi, per il Tribunale di Catania giungere ad una condanna priva di sconti a ben cinque anni di reclusione con la sentenza 11 gennaio 2021.
I fatti sono ben esposti nella sentenza ed indicati in maniera analitica e ciò serve al giudice per ricostruire la vicenda tra intercettazioni, fotografie e messaggi WhatsApp. Il fatto risulta tra quelli più attenzionati dalla stampa e su cui anche la Polizia Postale ha spesso richiamato l’attenzione. Si adesca una persona “fragile” su internet e dopo averla conquistata la si spinge a farsi consegnare notevoli somme di denaro.
L’attenzione che viene dato al caso affrontato dal Tribunale di Catania riguarda le particolari modalità poste in essere dagli agenti i quali per oltre un anno e mezzo hanno abusato della situazione personale della vittima. Ed infatti inizialmente, fingendosi una donna, l’agente ha adescato su internet la vittima e, dopo averla conquistata ed aver sbandierato il proprio amore a questa, ha inventato la “storia” di trovarsi in Germania, sfruttata e maltrattata e quindi bisognosa di denaro. La vittima si è pure finta malata e ricoverata all’Ospedale. Non sono mancati inoltre intermediari e “finti amici”, sempre conosciuti in rete, che rafforzavano il quadro ingannatorio così permettendo al giudice catanese di giungere ad una sentenza di condanna ai sensi dell’art. 110 c.p. Si aggiungano anche “finte multe” (palesemente finte) e minacce di morte ed il quadro risulta completo e attentamente studiato. La vittima giunge addirittura a vendere un immobile di sua proprietà per “aiutare” l’amata in difficoltà. Sembrerebbe una bellissima storia romantica tra un “principe” moderno ed una “Cenerentola” in difficoltà, a cui probabilmente anche la vittima ha voluto credere, ma purtroppo la brusca realtà è che la truffa era dietro l’angolo.
Dopo l’ampia e attenta ricostruzione in fatto, sorretta anche da alcuni messaggi riportati integralmente in sentenza, il giudice non deve spendere grandi parole per motivare la sussistenza di tutti gli elementi della truffa.
Come noto tale reato è inserito all’interno del Codice penale tra i reati contro il patrimonio commessi mediante frode. Formalmente risulta costruito come un reato a forma vincolata, richiedendo gli artifici o i raggiri come modalità dell’azione anche se la giurisprudenza fornisce un’interpretazione molto ampia di tali elementi. Ed infatti la Cassazione ritiene sussistenti tali requisiti tutte le volte in cui vi sia induzione in errore della vittima. In tal senso è stata da alcuni autori denunciata tale interpretazione della Suprema Corte, in quanto trasforma una fattispecie a forma vincolata in un’altra a forma libera, in contrasto, quindi, con la portata letterale della norma e con il principio di legalità (Fiandaca-Musco invoca l’extrema ratio del diritto penale che impone una lettura restrittiva della norma rischiandosi inoltre altrimenti di presumere l’esistenza di una diffusa minorità psichica delle vittime).
Nonostante tale ampio significato riconosciuto dalla giurisprudenza, il giudice del Tribunale di Catania sente l’esigenza di specificare cosa si intende per raggiri e artifici e come nel caso alla sua attenzione gli stessi fossero sussistenti. Il tutto per dare pieno supporto giuridico alla propria decisione. Si legge così nella sentenza che  “gli artifici - intesi come manipolazione esterna della realtà provocata mediante la simulazione di circostanze inesistenti o, per contro, mediante la dissimulazione di circostanze esistenti - o il raggiro consistente in una attività simulatrice, sostenuta da parole o argomentazioni atte a far scambiare il falso con il vero, sono entrambi mezzi per creare un erroneo convincimento passando il primo attraverso il camuffamento della realtà esterna ed operando il secondo direttamente sulla psiche del soggetto”. E tali elementi vi sono nella condotta degli agenti che creando una falsa identità digitale, inoltrando numerosi messaggi di testo, vocali e fotografie create ad hoc hanno fatto in modo che la vittima si innamorasse di una inesistente donna virtuale e che mossa a pietà per la situazione dell’amata fosse indotta con finte promesse e piagnistei a sborsare ingenti somme di denaro.
Il giudice, quindi, tiene a precisare, richiamando anche precedenti di legittimità (Cassazione n. 25165/2019) che non è il mero sbandierare sentimenti falsi a costituire artifici o raggiri ma lo è il “colorare” tali falsi sentimenti “con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo.”
La vittima “spinta” dal forte sentimento che provava giunge a consegnare agli agenti quasi 400.000,00 euro senza porsi alcuna domanda.
Chiaramente al giudice non è sfuggita l’ingenuità della vittima, ed infatti richiama, a sostegno della sua sentenza, quella nutrita giurisprudenza della Suprema Corte che precisa come sia irrilevante ai fini del reato di truffa e quindi della idoneità degli artifici o raggiri, la mancanza di diligenza della vittima nel verificare quanto gli viene raccontato o esposto. Ed infatti, secondo la giurisprudenza l’artificio o raggiro è tale se è idoneo a trarre in errore, anche se la vittima “vuole” cadere in errore, nel senso che preferisce non “farsi” domande e credere a quella situazione.
Ed infatti, precisa il giudice catanese, non è necessario accertare l’idoneità in astratto degli artifici o raggiri a trarre in errore la vittima se in concreto tale errore vi è stato. Qualunque condotta, quindi, può diventare artificio o raggiro se induce la vittima in errore. Se quindi con accertamento ex post la vittima è caduta in errore siamo sicuramente dinanzi ad un artificio o raggiro; ma se invece la vittima non cade in errore, dovrà nuovamente effettuarsi l’accertamento ex ante per verificare se quella condotta aveva, ai sensi dell’art. 56 c.p., la capacità e l’idoneità di trarre in errore la vittima per poterla punire per delitto tentato. Astrattamente, quindi, una medesima condotta potrebbe avere ex post efficacia induttiva ed ex ante no, in quanto nel primo caso il giudice non deve effettuare alcuna valutazione sulla condotta, ciò che rileva è l’effetto, mentre nel secondo caso dovrebbe quanto meno porsi il problema e risolverlo ai sensi dell’art. 56 c.p.. Ne consegue quindi che in astratto atti inidonei potrebbero costituire delitto consumato se la vittima cede alla condotta, mentre se resiste a questa potrebbero risultare inidonei. La medesima condotta, quindi, potrebbe avere risvolti totalmente differenti (reato si/reato no) esclusivamente in base dell’attenzione e della diligenza della vittima. Non a caso, infatti, parte della dottrina ritiene opportuno un accertamento ex ante dell’idoneità dell’artificio o raggiro ad indurre in errore la vittima, verificando quindi se l’affidamento di questa sia o meno inevitabile in forza di un principio di autoresponsabilità (Fiandaca-Musco).
Questi problemi però non vengono affrontati dalla giurisprudenza (con buona pace di quella dottrina risalente che, come riporta Antolisei, riteneva che “lo Stato non deve farsi paladino degli imbecilli”) che, utilizzando un concetto ampio di artifici o raggiri vi fa rientrare praticamente qualunque condotta, così evitando possibili contrasti interpretativi dovuti al differente angolo visuale (ex ante o ex post a seconda se la vittima cada o meno in errore”). Quanto però questo sia compatibile con il principio di legalità con riferimento ad una fattispecie a forma vincolata è tutto da dimostrare. Né una tale interpretazione può ritenersi giustificata a seguito della riformulazione normativa del reato avvenuta con il codice Rocco; ed infatti il codice Zanardelli esigeva che gli artifici e i raggiri fossero “atti ad ingannare o sorprendere l’altrui buona fede”; l’eliminazione di tale ultima precisazione, infatti, non giustifica un’interpretazione così ampia della norma in questione, stante la necessità che la condotta integri comunque un artificio o raggiro come descritto nella fattispecie penale e si conformi al principio di necessaria offensività.
Può davvero l’artificio o il raggiro grossolano costituire reato? Può il diritto penale farsi carico di tutelare qualunque forma di danno patrimoniale cagionata con inganno anche se la vittima con ordinaria diligenza poteva evitarlo? perché per la truffa non deve valere il principio di autoresponsabilità spesso richiamato sempre in diritto penale con riferimento ad altre fattispecie?
La verità è che forse, come vedremo tra un attimo, la truffa non è la fattispecie immaginata dal legislatore a tutela delle persone “fragili”.
La giurisprudenza spinta dall’esigenza di tutelare la vittima, qualunque vittima, non si pone queste domande e in maniera conforme ribadisce che la particolare condizione di un soggetto, quale determinata da una sua fragilità di fondo o da situazioni contingenti, non esclude la configurabilità in suo danno del reato di truffa, anzi ne rende più agevole l'esecuzione, per cui devono essere maggiormente tutelati dallo Stato i soggetti deboli.
La tutela della vittima prevale sulle esigenze di legalità: non sarebbe la prima volta né l’ultima. E al giudice catanese viene facile schierarsi a favore della vittima avendo tutta la giurisprudenza di legittimità a suo supporto. Del resto il diritto penale punisce i colpevoli, non impone alle vittime standard di diligenza; così come non ci possono essere vittime più o meno furbe: la vittima è vittima!
La giurisprudenza, quindi, per esigenze di giustizia pone rimedio ad una norma che, così come costruita, richiede una determinata condotta che però se inganna la vittima costituisce senza alcun dubbio reato.
Sia permesso però un appunto alla ricostruzione effettuata dal giudice catanese e dalla giurisprudenza di legittimità; non sarebbe forse stato più opportuno spostare l’angolo visuale verso il reato di circonvenzione d’incapace?
Chiaramente diversa doveva essere l’istruttoria e probabilmente non emergevano per il giudice catanese elementi idonei a sostenere lo stato di “deficienza psichica” della vittima anche se secondo la giurisprudenza non è richiesto che il soggetto passivo versi in stato di incapacità di intendere e di volere, essendo sufficiente anche una minorata capacità psichica, con compromissione del potere di critica ed indebolimento di quello volitivo, tale da rendere possibile l'altrui opera di suggestione e pressione. La Corte di Cassazione, del resto, ha precisato che “l'inquadramento delle condotte manipolative, anche grossolane, nel reato di truffa trova il solo limite della incapacità della vittima, condizione patologica che impone il diverso inquadramento della condotta nella fattispecie di circonvenzione di persona incapace” (Cass. 30952/16).
Non emergeva dagli atti tale situazione di inferiorità, non ve ne era prova o forse risultava difficile sostenere che una persona “fragile” o “ingenua” potesse essere considerata un “deficiente psichico”.
La verità è che  l’interpretazione giurisprudenziale risente ancora dei connotati negativi che venivano attribuiti a tale termine, sicuramente poco felice e de iure condendo da modificare.
Forse per assicurarsi un maggior rispetto del principio di tassatività, ed evitare che si allarghino eccessivamente le maglie della truffa, sarebbe più opportuno interpretare diversamente il concetto di inferiorità di cui all’art. 643 c.p. e restringere quelle di artificio o raggiro, ampliando così la fattispecie di circonvenzione di incapaci e rendendone più agevole la configurabilità. Il tutto spogliando di connotati negativi il termine “deficiente psichico” o comunque modificandolo.
È chiaro che la situazione posta all’attenzione del giudice catanese si pone un po' al limite tra le due fattispecie incriminatrici ed è difficile ritenere, leggendo la sentenza, che la vittima non avesse una compromissione del potere di critica ed un indebolimento di quello volitivo; non a caso è venuto abbastanza agevole agli agenti ottenere quasi 400.000,00 euro. Ed anche uno degli agenti (e probabilmente anche gli altri) era consapevole di tale debolezza, tanto che, si legge nel corso di una intercettazione,  “in effetti un po’ di pena la fa (…) però, penso che alla fine, se non ci mangiamo nuautri, ci mangia qualcun autru” ( ossia , capisco che possa far pena, (…) ma alla fine se non ci mangiamo noi, ci mangerebbe, ossia ne approfitterebbe qualcun altro). Difficile, quindi, sostenere che non vi fosse negli agenti la piena consapevolezza della debolezza psichica della vittima.
Probabilmente, però, l’inquadramento da parte del pubblico ministero all’interno dell’art. 640 c.p., la maggiore facilità di fornire la prova degli elementi della truffa, come sopra interpretati, e la necessità di dover altrimenti fornire la prova della “deficienza psichica” della vittima, hanno spinto dapprima la procura e successivamente il giudice catanese a privilegiare il più blando reato di truffa, applicando però una sanzione elevata (aiutata in questo dalla contestazione della tentata estorsione posta in essere dagli agenti quando la vittima aveva smesso di corrispondere denaro).
La contiguità tra le due fattispecie di reato e quindi anche la possibile confusione tra esse in alcuni casi è stata spesso attenzionata dalla giurisprudenza che pur ritenendo che i due reati si distinguano essendo uno caratterizzato dalla frode e l’altro dall’abuso delle condizioni della vittima, non esclude che le due fattispecie si possano sovrapporre, tutte le volte in cui nella condotta di abuso si utilizzino anche artifizi o raggiri per spingere la vittima a compiere l’atto pregiudizievole. Si legga in tal senso Cass. pen. Sez. V, 17/02/1970, n. 299 secondo cui “la norma incriminatrice di cui all'art 643 c.p., non specificando le modalità di condotta dell'agente concretanti l'abuso, non esige artifici o raggiri, ma neppure li esclude, con la conseguenza che, se l'agente pone in atto gli uni o gli altri, il fatto è pur sempre punibile per il delitto in esame e non per quello di truffa”.
Secondo parte della dottrina, quindi, proprio valorizzando l’affidamento della vittima e la sua autoresponsabilità dovrebbe ritenersi sussistente la truffa solo quando gli artifici o i raggiri avrebbero indotto in errore anche una “vittima normale” (Pedrazzi). Altra parte della dottrina ritiene che però ciò determinerebbe l’applicazione della pena più blanda dell’art. 640 c.p. proprio per quelle truffe più ingegnose in quanto idonee ad ingannare chiunque (Siniscalco). In realtà tale ultima obiezione è superabile ricordando la portata letterale dell’art. 640 c.p. e la sua natura di reato a forma vincolata, precisando come la pena più elevata per l’art. 646 c.p. derivi non dalle modalità della condotta ma dal fatto che si sta abusando di una persona più debole e fragile; non a caso l’art. 643 c.p. non richiede una particolare modalità di aggressione della vittima. Del resto lo stretto legame tra le due fattispecie è noto anche alla giurisprudenza che, non a caso, sostiene che “non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza il ritenere la sussistenza del reato di truffa invece dell'ipotesi delittuosa, inizialmente contestata, di circonvenzione di persona incapace” (Cass. pen. Sez. III Sent., 10/01/2018, n. 7705).
La giurisprudenza, dal canto suo, pur dichiarando di rifarsi ad un concetto ampio di deficienza psichica, almeno “sulla carta”, poi ha difficoltà a ritenere integrato il reato in questione in assenza di una malattia psichica accertata o dell’età avanzata della vittima (si registra qualche interpretazione un po' più ampia in alcune rare sentenze di merito, come Tribunale Firenze Sez. II, Sent., 08-09-2014 che ritiene sussistenti i requisiti dell’art. 643 c.p. stante che la vittima si trovava in una situazione patologica di fragilità e di intenso bisogno affettivo).
La giurisprudenza addirittura ritiene sussistente il reato di cui all’art. 643 c.p. anche in presenza di una mera “debolezza psicologica” e qualche sentenza ritiene che la deficienza psichica di cui all’art. 643 c.p. sia integrata anche dalla mera “fragilità” (T. Milano, 20.6.1997).
Poi però, al momento di dover estendere il termine “deficienza psichica” a casi di mera debolezza o fragilità, ha difficoltà, probabilmente per l’evidente connotazione negativa dello stesso.
Una tale difficoltà è stata sicuramente avvertita dal pubblico ministero e dal giudice catanese nel caso de quo.
Probabilmente, in realtà, il legislatore del 1930 in un’ottica di extrema ratio del diritto penale non ha considerato, all’interno dell’art. 640 c.p., la mera fragilità della vittima ed anzi si è voluto assicurare che si venisse puniti per tale reato soltanto se venivano utilizzati strumenti ingegnosi quali gli artifici o i raggiri.
Dall’altro lato, pur avendo ampliato rispetto alla precedente versione, la fattispecie di circonvenzione di incapaci, non limitandola agli interdetti e agli inabilitati, ma estendendola anche ai casi di infermità o deficienza psichica, ha comunque dato una connotazione negativa alla vittima, impedendo così la riconduzione all’interno di tale norma della mera “fragilità emotiva”.
Così si è creato un vuoto di tutela proprio per quei soggetti maggiormente bisognosi di tutela ma che non possono essere considerati “malati”, “infermi” o con “problemi psichici”. Del resto, ormai, anche la scienza medica conosce meglio gli innumerevoli risvolti della mente umana e sa bene quanto fragile possa risultare.
Per tali soggetti “deboli” sia l’art. 640 c.p. che richiede, a dispetto di quanto sostiene la giurisprudenza, un artificio o raggiro idoneo ad ingannare nel rispetto del principio costituzionale di offensività, sia l’art. 643 c.p. che richiede una posizione di inferiorità psichica, rischiano di risultare troppo stretti e quindi inapplicabili.
La giurisprudenza, sempre pronta a tutelare la vittima e a non lasciare impunite situazioni che appaiono riprovevoli allarga la coperta del 640 c.p. che altrimenti risulterebbe troppo stretta, anche per evitare di dover addossare un termine poco dignitoso a soggetti deboli o di lasciare impunite tali situazioni. La tutela di tali soggetti, sempre più avvertita e sentita dovrebbe però rinvenirsi, nel rispetto del principio di legalità, in una legge ad hoc, e non tramite interpretazioni forzate o abrogans da parte della giurisprudenza.
La “palla”, quindi, dovrebbe passare nuovamente al legislatore che in alcuni casi ha mostrato particolare attenzione a tali situazioni, ma ad oggi non avverte tale necessità forse proprio perché non percepisce il vuoto di tutela così tranquillamente colmato dalla giurisprudenza.
fonte:altalex.com

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