giovedì 16 gennaio 2020

Uso del cellulare: riconosciuto il nesso con alcuni tipi di tumore

Il giudice territoriale di Torino ha confermato la pronuncia del Tribunale di Ivrea, del 2017, che aveva sentenziato sul rapporto tra l’uso del cellulare e l’insorgenza dei tumori.
La vicenda riguarda un dipendente Telecom affetto da neurinoma del nervo acustico.

La vicenda
Un dipendente di Telecom Italia ha passato 15 anni della sua vita professionale utilizzando il telefonino, per oltre tre ore al giorno e senza protezioni. Gli veniva diagnosticato un neurinoma al nervo acustico, neoplasia di indole benigna, tuttavia invalidante. Portata la vicenda sui banchi della giustizia, il consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice del Lavoro di Ivrea aveva riconosciuto un danno biologico permanente pari al 23%, così comportando alla condanna dell’INAIL al pagamento di un’indennità vitalizia, da malattia professionale, di circa 500 euro mensili.
Il nesso causale
Il tempo trascorso, in misura considerevole al cellulare e l’insorgenza del tumore al cervello sono collegati causalmente, secondo la Corte d'Appello di Torino. Per gli stessi togati “esiste una legge scientifica di copertura che supporta l’affermazione del nesso causale secondo i criteri probabilistici ‘più probabile che non'”. I giudici territoriali hanno infatti confermato il dictum, già emesso in prima battuta dal Tribunale di Ivrea e con cui, nell'aprile 2017, l'Inail era stata condannata a corrispondere al lavoratore in questione una rendita vitalizia da malattia professionale.
Il rischio
Secondo uno studio occorrono solamente 30 minuti al giorno per otto anni, trascorsi col telefonino all'orecchio per essere a rischio di tumore.
Lo studio dell’ISS
La sentenza, che ha condiviso la lettura assegnata dalla consulenza tecnica, riconosce il nesso eziologico tra impiego massiccio del cellulare ed insorgenza di tumori al cervello, ma l'Istituto superiore di Sanità, che ha condotto una metanalisi degli studi pubblicati dal 1999 al 2017, qualche mese fa, pubblicandone gli esiti, ha concluso che, sulla base delle evidenze epidemiologiche attualmente a disposizione, l'utilizzo del telefono cellulare non risulta associato all'incidenza di neoplasie nelle aree più esposte alle radiofrequenza nel corso delle chiamate vocali.
Più in dettaglio, il Rapporto Istisan “Esposizione a radiofrequenze e tumori” curato da Istituto superiore di sanità, Arpa Piemonte, Enea e Cnr-Irea, pur affermando che i dati attuali "non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell'uso del cellulare iniziato durante l'infanzia", rileva che, dalla metanalisi dei molteplici studi pubblicati in quasi due decenni, non si evidenziano incrementi dei rischi di tumori maligni o benigni in relazione all'impiego prolungato (dato fissato a 10 anni) dei telefoni mobili.
Gli esperti dell’ISS hanno inoltre rilevato, nello stesso Rapporto, che "i notevoli eccessi di rischio osservati in alcuni studi non sono coerenti con l'andamento temporale dei tassi d'incidenza dei tumori cerebrali che, a quasi 30 anni dall'introduzione dei cellulari, non hanno risentito del rapido e notevole aumento della prevalenza di esposizione".
Guardando al domani, e in particolare alle reti 5G, per stesso studio le emittenti aumenteranno, tuttavia avranno potenze medie inferiori a quelle degli impianti correnti, e la rapida variazione temporale dei segnali dovuta all'irradiazione indirizzabile verso l'utente (beam-forming) comporterà un'ulteriore diminuzione dei livelli medi di campo negli spazi circostanti.

fonte: www.altalex.it

Cartella esattoriale del credito contributivo si prescrive in 5 anni

L’Agenzia delle Entrate-riscossione deve riscuotere i contributi non pagati dai lavoratori autonomi, entro cinque anni, altrimenti il credito si prescrive.
E’ quanto chiarito dalla Cassazione Civile, Sez. VI - Lavoro, nell’ordinanza 9.12.2019, n. 32077 

Il fatto
Nella vicenda in esame, la Corte territoriale aveva confermato la decisione del giudice di primo grado che aveva accolto l'opposizione all’intimazione di pagamento avente ad oggetto crediti previdenziali dovuti da un lavoratore autonomo, rilevando l’avvenuta prescrizione dei crediti suddetti, dopo la notifica delle cartelle sottese all'intimazione.
Avverso tale sentenza, l’Agenzia delle entrate-riscossione, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2946 c.c., del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 49 e del D. Lgs. n. 46 del 1999, art. 17, in quanto la Corte territoriale aveva considerato applicabile, per il calcolo della prescrizione del credito esattoriale, il termine breve quinquennale, di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10, senza valutare, secondo la ricorrente, l'effetto novativo conseguente alla notifica delle cartelle di pagamento, che, invece, comporterebbe l'applicabilità del termine lungo decennale.
La decisione
La Cassazione ha rigettato la suddetta, unica censura, ritenendola inammissibile, in quanto, il giudice di merito aveva risolto le questioni contestate in modo conforme alla giurisprudenza consolidata della Corte di legittimità. A tal riguardo, assume rilievo il principio di diritto, già richiamato dalla Corte territoriale ed enunciato a Sezioni Unite nella sentenza n. 23397 del 17/11/2016, in virtù del quale, la scadenza del termine per impugnare la cartella di pagamento di cui al D. Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, determina l’irretrattabilità del credito contributivo senza che il termine prescrizionale breve, quinquennale, venga convertito in quello ordinario, decennale, ai sensi dell'art. 2953 c.c. Sulla scorta di tale dictum, la Suprema Corte ha precisato che, Inoltre, quest’ultima disposizione, si applica solo nei casi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, ma, nella controversia in esame, la cartella esattoriale avendo natura di atto amministrativo, non può acquistare efficacia di giudicato. Oltre a ciò, la circostanza che l'Agenzia delle Entrate sia subentrata come nuovo concessionario, non comporta il cambiamento della natura del credito, che resta assoggettato alle norme dettate per il regime prescrizionale, per cui, in mancanza di un titolo giudiziale definitivo, si applica nei confronti del creditore, la disciplina relativa alla prescrizione breve, prevista dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, invece che la regola generale sussidiaria di cui all'art. 2946 c.c., che prevede l’applicazione del termine decennale.
Alla luce delle predette argomentazioni, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, condannando la ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità.

fonte: www.altalex.it

Omicidio colposo per mancato rispetto dei limiti di velocità: il conducente deve prevedere le imprudenze altrui

Con la sentenza del 7 gennaio 2020, n. 121, la Corte di Cassazione ha confermato quanto deciso dalla Corte d'Appello relativamente alla condanna di un uomo per il reato di cui all’art. 589 c.p. In particolare, la Suprema Corte si è espressa affermando il principio secondo cui l'obbligo di moderare adeguatamente la velocità in relazione alle caratteristiche del veicolo e alle condizioni ambientali deve essere inteso nel senso che il conducente deve essere non solo sempre in grado di padroneggiare assolutamente il veicolo in ogni evenienza, ma deve anche prevedere le eventuali imprudenze altrui (nel caso di specie la vittima non aveva rispettato la precedenza) e tale obbligo trova il suo limite naturale unicamente nella ragionevole prevedibilità degli eventi, oltre il quale non è consentito parlare di colpa. Inoltre, ha, altresì, più volte affermato, che il conducente di un veicolo deve prefigurarsi anche l'eccessiva velocità o la guida anomala e scorretta da parte degli altri veicoli che possono sopraggiungere, onde porsi nelle condizioni di porvi rimedio, atteso che tale accadimento rientra nella normale prevedibilità

Svolgimento del processo
1. La Corte di Appello di Roma, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente C. L., con sentenza del 9/1/2018, confermava la sentenza emessa in data 27/10/2010 dal GIP del Tribunale di Velletri.
Il GIP del Tribunale di Velletri, all'esito di giudizio abbreviato, aveva condannato l'imputato, con la concessione delle attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante contestata, applicata la diminuzione per il rito, alla pena condizionaimente sospesa di otto mesi di reclusione con sospensione della patente di guida per mesi sei, per il reato di cui all'art. 589 c.p. perché per imprudenza, imperizia, negligenza e violazione di legge, cagionava il decesso di A. E..
Infatti, alla guida del veicolo targato (omissis) percorreva la S.P. 811A in direzione Artena, quando giunto alla progressiva km 4+000, alla velocità di ca. 90 km/h (sebbene sul tratto vigesse il limite di 60 km/h) urtava la vettura targata (omissis), condotta dall'A. che percorreva la medesima strada in senso opposto e che, senza rispettare la precedenza, eseguiva una manovra di svolta verso sinistra, tagliando la strada alla vettura del C.; per effetto dell'urto l'A. decedeva. In Artena, il 30 gennaio 2008.
Va evidenziato che il limite di velocità vigente, peraltro, era anche più basso (50 km/h) di quello indicato, per un evidente errore materiale, in imputazione (60 km/h).
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, C. L., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., c.p.p.
Con un primo motivo deduce vizio motivazionale e violazione di legge in relazione all'art. 63 comma 2 c.p.p.
Il ricorrente, rilevato che la dichiarazione di responsabilità dell'imputato sarebbe fondata sulle dichiarazioni rese dall'imputato alla polizia giudiziaria, in occasione dell'incidente e nel giorno successivo, ritenute spontanee dai giudici di merito, riporta testualmente quanto dichiarato, al fine di evidenziare che le stesse dichiarazioni in realtà venivano rilasciate durante un vero e proprio interrogatorio e sarebbero, pertanto, inutilizzabili.
La corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi sullo specifico motivo di censura.
Con un secondo motivo si deduce vizio motivazionale assumendo che il limite di velocità di 50 km/h sarebbe stato ritenuto erroneamente vigente sulla corsia percorsa dall'imputato.
Il C., premettendo che in relazione all'incidente i giudici di merito attribuivano rilevanza causale prevalente al comportamento della vittima conducente della Fiat Panda, rileva che il riconoscimento della concorrente responsabilità dell'imputato sarebbe fondato sull'erroneo presupposto della vigenza del limite di velocità di 50 km/h.
L'esistenza di detto limite non sarebbe riscontrabile, però, né nel verbale di accertamento redatto dalla Polizia di Stato né nella comunicazione ex art. 347 c.p.p., ma unicamente nella relazione del consulente tecnico del pubblico ministero che riporta la presenza di un segnale di limite di velocità di 50 km/h al km 2+900, ossia 1.100 metri prima del luogo dell'incidente, prima del quale si incrociano due strade di accesso a proprietà privata.
L'accertamento tecnico in questione, tuttavia - si rileva in ricorso - veniva compiuto a distanza di tempo dai fatti, per cui le disposizioni sulla circolazione stradale nella zona erano evidentemente cambiate anche a seguito dell'incidente mortale per cui è processo.
Evidente sarebbe, a detta del ricorrente, l'illogicità della motivazione che fonda il proprio convincimento su rilievi avvenuti in un momento molto successivo al sinistro, piuttosto che su quelli realizzati nell'immediatezza di contenuto esattamente opposto.
Con un terzo motivo si deduce violazione di legge per inosservanza degli artt. 142 comma 1 CDS e 104 comma 2 del Regolamento di esecuzione e attuazione del nuovo CdS (D.P.R. n. 495/1992).
Si rileva che, se anche il segnale, al momento dell'incidente, fosse stato presente, così come indicato nella relazione del consulente, lo stesso non avrebbe avuto efficacia prescrittiva in relazione al posto dove si è realizzato lo scontro perché ubicato prima di ben due interruzioni della continuità della via, rappresentate da due intersezioni con strade di accesso a proprietà private.
L'art. 104, comma 2° del Regolamento di esecuzione attuazione del CdS prevede che i segnali di obbligo e prescrizione debbano ripetersi dopo ogni intersezione.
Pertanto, il limite esistente sul luogo dell'incidente doveva considerarsi quello previso per le strade extraurbane di 90 km/h.
Del resto, aggiunge il ricorrente, vi sarebbe divergenza anche tra la motivazione della sentenza impugnata, che ritiene violato il limite di 50 km/h, e l'imputazione che fa riferimento al limite di 60 km/h, limite quest'ultimo imposto al veicolo della vittima e non a quello dell'imputato.
Con un quarto motivo si deduce vizio motivazionale assumendo che il giudice di merito avrebbe attribuito rilevanza alle conclusioni del consulente del PM ove lo stesso ha affermato che l'incidente non si sarebbe verificato laddove l'imputato avesse tenuto la velocità di 50 km/h, mentre il limite di velocità sulla strada era di 90 km/h.
Sarebbe mancato, quindi, il giudizio controffattuale rispetto alle effettive circostanze.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata, non ritenendo raggiunta la prova della responsabilità dell'imputato, pronunciando assoluzione o con rinvio per nuovo esame.
3. Con memoria del 21/11/2019, il ricorrente integra il primo motivo di ricorso sottolineando la rilevanza dell'eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato alla P.G. in data 31/1/2019.
Infatti, la dichiarazione di responsabilità penale sarebbe fondata unicamente sul presupposto che la velocità tenuta dal C. era di circa 95 Km/h mentre ove fosse stato rispettato il limite di 50 km/h, lo stesso C. avrebbe avuto la possibilità di evitare l'incidente.
Viene evidenziato che sebbene esista un orientamento dominante di questa Corte sulla piena utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee nel giudizio celebrato con rito abbreviato, vi è altro orientamento (sez. 3 n. 36596 del 7/6/2012 e sez. 5 n.24944 del 5/5/2015) che limita la portata dell'art. 350, comma 7, c.p.p. alle sole dichiarazioni rilasciate sul luogo e nell'immediatezza del fatto.
Pertanto, alla luce di tale interpretazione, nel caso che ci occupa, non possono essere ritenute utilizzabili le dichiarazioni rese in data 31/1/2008, presso la stazione di polizia ad oltre ventiquattro ore dal fatto e senza l'assistenza del difensore.
Si rileva, inoltre, che l'impugnata sentenza, dopo aver dichiarato l'utilizzabilità delle stesse dichiarazioni ai sensi dell'art. 350 comma 7 c.p.p., non avrebbe proceduto ad alcuna verifica sull'effettiva spontaneità delle stesse, nonostante la specifica censura sul punto, limitandosi a recepire il percorso argomentativo della sentenza di primo grado.
Del resto, si evidenzia che il contenuto tecnico di quanto dichiarato mal si concilierebbe con una connotazione di spontaneità del narrato, ciò al fine di sottolineare l'omissione di qualsiasi indagine sull'effettiva natura delle dichiarazioni rese dal C..
Si insiste nella richiesta di annullamento della sentenza impugnata, con ogni conseguente statuizione.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è manifestamente inammissibile, in quanto il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello, e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata, senza in alcun modo sottoporle ad autonoma e argomentata confutazione. Ed è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.
La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c) c.p.p., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, Burzotta, Rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693). E, ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608).
2. L'atto di impugnazione, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità.
Il giudice del gravame del merito aveva già chiaramente confutato, nel provvedimento impugnato, tutte le tesi oggi riproposte, ivi compresa - e da qui la manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso - la questione sull'utilizzabilità delle spontanee dichiarazioni rese dall'imputato, che, come correttamente evidenziato già nella sentenza di primo grado (a pagina 9), si presentava spontaneamente per integrare le precedenti dichiarazioni il giorno seguente presso la Stazione di Polizia.
La Corte territoriale opera sul punto un buon governo del condivisibile e preponderante dictum di questa Corte di legittimità secondo cui -diversamente dalle isolate pronunce richiamate dal ricorrente in memoria- nel giudizio abbreviato sono utilizzabili, anche contro chi le rende, le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria da soggetto che non ha ancora assunto la qualità di indagato (così sez. 4, n. 5619 del 4/12/2013 dep. il 2014, Mastino, Rv. 258216 in una fattispecie relativa a dichiarazioni rese da soggetto immediatamente dopo il verificarsi di un incendio, successivamente utilizzate nel giudizio abbreviato per affermarne la responsabilità per il delitto di incendio colposo; conf. sez. 5, n. 6346 del 16/1/2014, Pagone, Rv. 258960).
Pienamente valide e utilizzabili, alla luce di tali principi, sono anche le dichiarazioni rese dall'imputato il giorno successivo ai fatti alla polizia giudiziaria che non paiono in alcun modo sollecitate dagli operanti e, diversamente da quanto si opina in ricorso, non contengono chissà quali riferimenti tecnici se non la dichiarazione di quella che era la propria velocità di marcia, da parte di un autista esperto qual è un camionista.
Ancora di recente, sul punto, si è precisato che nel giudizio abbreviato sono utilizzabili a fini di prova dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria, perché l'art. 350, comma settimo, c.p.p. ne limita l'inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento (sez. 5, n. 13917 del 16/2/2017, Pernicola, Rv. 269598; sez. 5, n. 32015 del 15/03/2018, Carlucci, Rv. 273642).
3. Va peraltro evidenziato che, come ricordano entrambi i giudici di merito nella loro doppia conforme affermazione di responsabilità -caso in cui, va ricordato, le motivazioni si integrano, a formare un tutt'uno, il fatto che l'odierno ricorrente procedesse ad una velocità di gran lunga superiore al limite, è emerso anche dalla consulenza tecnica operata dal pubblico ministero. E, a ben guardare, anche la consulenza tecnica della difesa, si è, per lo più spesa nel tentare di dimostrare che, anche se avesse proceduto ad una velocità conforme ai limiti, il camionista odierno ricorrente non avrebbe potuto evitare l'impatto con la Fiat Panda che gli si era parata all'improvviso davanti. E lo stesso atto di appello del 25/2/2011, al di là della contestazione relativa all'utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee rese dal C. e dell'articolata motivazione del giudice di prime cure, poco si è speso sul punto.
Il GIP di Velletri, nel dare atto della sussistenza del nesso di causalità materiale tra la condotta dell'imputato e la morte dell'A., riconducibile al comportamento colposo dell'imputato medesimo, difforme dalle regole comportamentali relative alla circolazione stradale oltre che dagli ordinari canoni di diligenza e perizia, rilevato come le conseguenze pregiudizievoli potevano essere sicuramente evitate, adottando un comportamento alternativo lecito conforme allo standard di diligenza esigibile, ha precisato che ciò che s'imponeva al C. era il rispetto del limite di velocità e, in ogni caso, che mantenesse un'andatura più moderata.
Tali cautele erano legittimamente esigibili - aveva già spiegato il giudice di primo grado - anche in ragione delle condizioni di tempo e di luogo: scarsa visibilità, strada con una doppia curva ed un'intersezione opportunamente segnalati, presenza di un'auto che, intendendo svoltare a sinistra, era necessariamente accostata alla linea di mezzeria.
I giudici di merito danno atto che, nell'attendibile ricostruzione dell'incidente operata dal consulente del P.M., quando la vittima aveva iniziato la manovra di attraversamento della carreggiata, il furgone condotto dall'imputato si trovava a circa 31 metri dalla zona d'urto; l'auto dell'A., quindi, era visibile dall'opposta corsia sulla quale stava sopraggiungendo il C..
La situazione, dunque, esigeva una condotta che potesse assicurargli la possibilità di arrestare prontamente la marcia del veicolo.
L'avvistamento della Fiat Panda - il cui conducente evidentemente, nell'accingersi a svoltare a sinistra, in prossimità dell'area di intersezione, ha calcolato male i tempi per l'attraversamento, confidando nella velocità moderata del furgone, oppure non si è avveduto del sopraggiungere del furgone stesso implicava la percezione di una situazione in presenza della quale ogni guidatore è tenuto a porre in essere una serie di accorgimenti (in particolare, moderare la velocità e, all'occorrenza, arrestare la marcia del veicolo) al fine di venire il rischio di un incidente.
Va ricordato, poi, che l'utente della strada deve regolare la propria condotta in modo che essa non costituisca pericolo per la sicurezza di persone e cose, tenendo anche conto di comportamenti irregolari altrui, sempre che questi non risultino assolutamente imprevedibili.
Tale non può considerarsi la manovra di svolta a sinistra effettuata dall'A., essendo appunto prevedibile che egli, giunto all'altezza dell'incrociò con la strada laterale, avvicinatosi alla linea di mezzeria dove si era quasi arrestato per compiere detta manovra (come si desume anche dalla velocità, valutata dal consulente del P.M., determinata approssimativamente in 15 km/h e dalle stesse dichiarazioni dell'imputato, rese nell'immediatezza), potesse attraversare la corsia di marcia del C., dovendo svoltare a sinistra.
4. La sentenza impugnata appare, dunque, collocarsi correttamente nell'alveo della consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità in relazione al cosiddetto principio di affidamento -complessa questione teorica, ricca di implicazioni applicative- evocato in ricorso a favore dell'imputato assumendosi la non prevedibilità del comportamento tenuto dalla persona offesa, che gli si sarebbe parata dinanzi con la propria autovettura all'improvviso.
Ebbene, va ricordato che il principio di affidamento, in tema di circolazione stradale, trova un temperamento, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, nell'opposto principio secondo il quale l'utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità (cfr. ex multis la recente sez. 4 n. 10062 del 14/2/2019, Nostrani, non mass. e le conformi sez. 4, n. 27513 del 10/05/2017, Mulas, Rv. 269997, alla cui articolata e condivisibile motivazione si rimanda, in un caso in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza con la quale era stata ritenuta la responsabilità per lesioni del conducente di un ciclomotore che aveva investito un pedone mentre attraversava al di fuori delle strisce pedonali, in un tratto rettilineo ed in condizioni di piena visibilità, per la condotta di guida non idonea a prevenire la situazione di pericolo derivante dal comportamento scorretto del pedone, rischio tipico e ragionevolmente prevedibile della circolazione stradale; sez. 4, n. 5691 del 2/2/2016, Tettamanti, Rv. 265981).
Nell'affermare il medesimo principio, con altra condivisibile pronuncia (sez. 4, n. 12260 del 9/1/2015, Moccia ed altro, Rv. 263010), questa Corte di legittimità aveva annullato la sentenza con la quale era esclusa la responsabilità del guidatore per omicidio colposo di un pedone, il quale, sceso dalla portiera anteriore dell'autobus in sosta lungo il lato destro della carreggiata, era passato davanti all'automezzo ed era stato investito dall'imputato, che aveva rispettato il limite di velocità ma non aveva provveduto a moderarla in ragione delle condizioni spazio-temporali di guida e, segnatamente, della presenza in sosta del pullman).
5. Il Collegio ritiene pienamente condivisibile il percorso motivazionale di cui alla citata sentenza 5691/2016, che ritiene pertanto opportuno ripercorrere.
Il principio di affidamento -come si ricordava in quella pronuncia- costituisce applicazione del principio del rischio consentito: dover continuamente tener conto delle altrui possibili violazioni della diligenza imposta avrebbe come risultato di paralizzare ogni azione, i cui effetti dipendano anche dal comportamento altrui. Al contrario, l'affidamento è in linea con la diffusa divisione e specializzazione dei compiti ed assicura il migliore adempimento delle prestazioni a ciascuno richieste.
Nell'ambito della circolazione stradale tale principio è sotteso ad assicurare la regolarità della circolazione, evitando l'effetto paralizzante di dover agire prospettandosi tutte le altrui possibili trascuratezze.
Il principio di affidamento, d'altra parte, sarebbe da connettere pure al carattere personale e rimproverabile della responsabilità colposa, circoscrivendo entro limiti plausibili ed umanamente esigibili l'obbligo di rapportarsi alle altrui condotte.
Pertanto -come ricorda ancora la sentenza 5691/2016- esso è stato efficacemente definito come una vera e propria pietra angolare della tipicità colposa.
Pacificamente, la possibilità di fare affidamento sull'altrui diligenza viene meno quando l'agente è gravato da un obbligo di controllo o sorveglianza nei confronti di terzi; o, quando, in relazione a particolari contingenze concrete, sia possibile prevedere - ed è il caso che ci occupa - che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività.
Un'analisi della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità in materia consente di individuarvi una tendenza, in ambito stradale, a escludere o limitare al massimo la possibilità di fare affidamento sull'altrui correttezza.
In tal senso vanno lette, ad esempio, le pronunce in cui si è affermato che, poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza, proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente. Coerentemente con tale assunto, è stata perciò, ad esempio, confermata l'affermazione di responsabilità in un caso in cui la ricorrente aveva dedotto che, giunta con l'auto in prossimità dell'incrocio a velocità moderata e, comunque, nei limiti della norma e della segnaletica, aveva confidato che l'autista del mezzo che sopraggiungeva arrestasse la sua corsa in ossequio all'obbligo di concedere la precedenza (cfr. sez. 4, n. 4257 del 28/3/1996, Lado, Rv. 204451). E, ancora, sulle medesime basi si è affermato, che anche nelle ipotesi in cui il semaforo verde consente la marcia, l'automobilista deve accertarsi della eventuale presenza, anche colpevole, di pedoni che si attardino nell'attraversamento in quanto il conducente favorito dal diritto di precedenza deve comunque non abusarne, non trattandosi di un diritto assoluto e tale da consentire una condotta di guida negligente e pericolosa per gli altri utenti della strada, anche se eventualmente in colpa (sez. 4, n. 12879 del 18/10/2000, Cerato, Rv. 218473); e che l'obbligo di calcolare le altrui condotte inappropriate deve giungere sino a prevedere che il veicolo che procede in senso contrario possa improvvisamente abbagliare, e che quindi occorre procedere alla strettissima destra in modo da essere in grado, se necessario, di fermarsi immediatamente (sez. 4, n. 8359 del 19/6/1987, Chini, Rv. 176415).
6. Come rileva, ancora, la richiamata e condivisibile sentenza 5691/2016 di questa Corte, si tratta, allora, di comprendere se l'atteggiamento rigorista abbia una giustificazione o debba essere invece temperato con l'introduzione, entro limiti ben definiti, del principio di affidamento.
Senza dubbio quello della circolazione stradale è un contesto meno definito di quello del lavoro in equipe (con riferimento alla colpa professionale dei medici), ove il principio in parola trova pacifica applicazione.
Si configura, infatti, un'impersonale, intensa interazione che mostra frequenti violazioni delle regole di prudenza.
D'altra parte, il Codice della strada presenta norme che sembrano estendere al massimo l'obbligo di attenzione e prudenza, sino a comprendere il dovere di prospettarsi le altrui condotte irregolari.
Tra questi vanno ricordati: 1. l'art. 141, che impone di regolare la velocità in relazione a tutte le condizioni rilevanti, in modo che sia evitato ogni pericolo per la sicurezza; e di mantenere condizioni di controllo del veicolo idonee a fronteggiare ogni "ostacolo prevedibile"; 2. l'art. 145, che pone la regola della "massima prudenza" nell'impegnare un incrocio; 3. l'art. 191, che prescrive la massima prudenza nei confronti dei pedoni, sia che si trovino sugli appositi attraversamenti, sia che abbiano comunque già iniziato l'attraversamento della carreggiata.
Tali norme - è stato condivisibilmente rilevato nel recente arresto giurisprudenziale di questa Corte di legittimità più volte citato, alla cui articolata motivazione si rimanda - tratteggiano obblighi di vasta portata, che riguardano anche la gestione del rischio connesso alle altrui condotte imprudenti. D'altra parte, le condotte imprudenti nell'ambito della circolazione stradale sono tanto frequenti che esse costituiscono un rischio tipico, prevedibile, da governare nei limiti del possibile.
Costituisce, tuttavia, ius receptum di questa Corte, sin dalla giurisprudenza più risalente nel tempo, il principio che nell'ambito della circolazione stradale che qui interessa, si debba tenere conto degli elementi di spazio e di tempo, e di valutare se l'agente abbia avuto qualche possibilità di evitare il sinistro: la prevedibilità ed evitabilità vanno cioè valutate in concreto (sez. 4, n. 14188 del 18/9/1990, Petrassi, Rv. 185559; sez. 4, n. 6173 del 9/5/1983, Togliardi, Rv. 159688; sez. 5, n. 6783 del 2/2/1978, Piscopo, Rv. 139204).
Successivamente questa Corte ha ripetutamente chiarito (sez. 4, n. 37606 del 6/7/2007, Rinaldi, Rv. 237050; sez. 4, n. 12361 del 7/2/2008; Biondo, Rv. 239258) che l'esigenza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento si pone in primo luogo e senza incertezze nella colpa generica, poiché in tale ambito la prevedibilità dell'evento ha un rilievo decisivo nella stessa individuazione della norma cautelare violata; ma anche nell'ambito della colpa specifica la prevedibilità vale non solo a definire in astratto la conformazione del rischio cautelato dalla norma, ma rileva pure in relazione al profilo squisitamente soggettivo, al rimprovero personale, imponendo un'indagine rapportata alle diverse classi di agenti modello ed a tutte le specifiche contingenze del caso concreto.
Certamente tale spazio valutativo è pressoché nullo nell'ambito delle norme rigide la cui inosservanza da luogo quasi automaticamente alla colpa; ma nell'ambito di norme elastiche che indicano un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, vi è spazio per il cauto apprezzamento in ordine alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dell'agente modello. Non può essere escluso del tutto che contingenze particolari possano rendere la condotta inosservante non soggettivamente rimproverabile a causa, ad esempio, della imprevedibilità della condotta di guida dell'altro soggetto coinvolto nel sinistro. Tuttavia, tale ponderazione non può essere meramente ipotetica, congetturale, ma deve di necessità fondarsi su emergenze concrete e risolutive, onde evitare che l'apprezzamento in ordine alla colpa sia tutto affidato all'imponderabile soggettivismo del giudice.
L'esigenza di una indagine concreta, si è pure affermato dalla giurisprudenza da ultimo indicata, non viene meno neppure quando, come nella circolazione stradale, la condotta inosservante di altri soggetti non costituisce in sé una contingenza imprevedibile, si è chiarito che lo spazio per l'apprezzamento che giunga a ritenere imprevedibile la condotta di guida inosservante dell'altro conducente è ristretto e va percorso con particolare cautela. Ciò nonostante, l'esigenza di preservare la già evocata dimensione soggettiva della colpa (id est la concreta rimproverabilità della condotta) ha condotto questa Corte ad enunciare che, come si è prima esposto, le particolarità del caso concreto possono dar corpo ad una condotta realmente imprevedibile.
Alla prima ampia configurazione della responsabilità la giurisprudenza più recente ha dunque costantemente apposto il limite della imprevedibilità (cfr. sez. 4, n. 41029 del 24/9/2008, Moschiano, Rv. 241476 che ha ritenuto integrare il reato di lesioni colpose la condotta del conducente di un veicolo che investa un pedone in autostrada quando quest'ultimo già si trovi sulla carreggiata nel momento in cui l'agente abbia percepito la sua presenza, atteso che in tale situazione appare prevedibile la pur imprudente intenzione dello stesso pedone di attraversare la carreggiata ed è dunque dovere del conducente porre comunque in atto le manovre necessarie ad evitare il suo investimento; in motivazione la Corte ha precisato che diversamente, qualora il pedone fosse stato fermo sulla piazzola di sosta, la particolare conformazione dell'autostrada quale sede destinata al traffico veloce avrebbe consentito legittimamente al conducente di escludere l'intenzione del pedone di attraversare la carreggiata, trattandosi di comportamento in tali condizioni non prevedibile) che talvolta si è richiesto essere assoluta (così sez. 4, n. 26131 del 3/6/2008, Garzotto, Rv. 241004 che ha escluso la colpa generica del conducente dell'autovettura coinvolta in un sinistro stradale cui era seguita la morte della persona trasportata, poiché si è ritenuto che il conducente dell'altra autovettura aveva provocato imprevedibilmente l'incidente, ponendosi alla guida in stato d'etilismo acuto che non gli consentiva di controllare adeguatamente la marcia del proprio veicolo). In altra più recente pronuncia, in senso maggiormente condivisibile, si è ritenuto che le imprudenze altrui fossero ragionevolmente prevedibili (così sez. 4, n. 46818 del 25/6/2014, Nuzzolese, Rv. 261369 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto circostanza prevedibile l'ingombro della carreggiata da parte di un altro veicolo in un incrocio cittadino).
Va dunque, ad avviso del Collegio, riaffermato il principio che l'obbligo di moderare adeguatamente la velocità in relazione alle caratteristiche del veicolo e alle condizioni ambientali deve essere inteso nel senso che il conducente deve essere non solo sempre in grado di padroneggiare assolutamente il veicolo in ogni evenienza, ma deve anche prevedere le eventuali imprudenze altrui e tale obbligo trova il suo limite naturale unicamente nella ragionevole prevedibilità degli eventi, oltre il quale non è consentito parlare di colpa.
Se questi sono i principi giuridici di riferimento, va perciò osservato come, nel caso che ci occupa, nella situazione di fatto di una strada curvilinea destrorsa e di ampio raggio con visione semilibera in leggera salita, alle prime luci dell'alba, in pieno autunno, con la sola visibilità garantita dai fari, con ai lati della propria direttrice di marcia diverse intersezioni con accessi a proprietà private, appaia adeguatamente supportato il giudizio di "ragionevole prevedibilità" della condotta della vittima ed è, proprio in riferimento al contesto in cui è avvenuto il fatto che si rileva una plausibilità della motivazione della sentenza impugnata.
Questa Corte di legittimità ha in più occasioni affermato che il conducente di un veicolo deve prefigurarsi anche l'eccessiva velocità o la guida anomala e scorretta da parte degli altri veicoli che possono sopraggiungere, onde porsi nelle condizioni di porvi rimedio, atteso che tale accadimento rientra nella normale prevedibilità (vedasi anche, oltre la già citata sez. 4, n. 12361 del 7/2/2008, Biondo Rv. 239258 relativa al caso, ben meno grave di quello che ci occupa, del mero ingombro di un crocevia; ed anche sez. 4, n. 8090 del 15/11/2013 dep. il 2014, Saporito, Rv. 259277).
Il tema, dunque, non è se il C. procedesse a 80, 90 o 100 chilometri orari.
Egli, infatti, per la velocità cui procedeva, non era comunque in grado -come già ricordato dal giudice di primo grado- di compiere tutte le manovre necessarie in sicurezza, come prescritto, dalla regolare cautelare generale di cui all'art. 141, comma 1 e 2 D.Lgs. 285/92 che impone al soggetto alla guida una valutazione complessiva - della situazione concreta del traffico, del veicolo, dello stato della - circolazione e di ogni altra circostanza, stabilendo di adeguare a tale valutazione la velocità da tenere, così da poter assicurare l'arresto tempestivo del veicolo entro i limiti del suo campo di visibilità e dinanzi a qualsiasi ostacolo prevedibile (così anche la richiamata sez. 4 n. 24823/2007).
La disciplina della circolazione stradale, infatti, contiene norme che estendono l'obbligo di attenzione e di prudenza, sino a comprendere il dovere di prospettarsi le altrui condotte irregolari, come nel caso degli artt. 141, 145 e 191 che tratteggiano obblighi di vasta portata anche perché le condotte imprudenti in tale ambito sono così frequenti da rappresentare un rischio tipico, prevedibile, da governare, nei limiti del possibile.
Principio fondamentale della circolazione veicolare che pure risulta violata nel caso che ci occupa, è anche quello, codificato all'art. 140 D. Lgs. 285/92, relativo all'obbligo di adeguare la condotta di guida alle contingenti circostanze in cui essa trova estrinsecazione.
7. Alla luce dei principi sin qui ricordati, il terzo e il quarto motivo di ricorso, oltre che manifestamente infondati, sarebbero ininfluenti ai fini dell'odierno decidere. Gli stessi sono volti, più che a confrontarsi criticamente con la motivazione del provvedimento impugnato, ad ottenere un nuovo accertamento di merito sulla sussistenza del limite di velocità, che nemmeno era stata contestata con l'atto di appello (cfr. atto di appello del 25.2.2011 a firma dell'avv. F., in atti) e la cui esistenza è stata comunque verificata dal consulente del PM, non essendovi alcun elemento che possa far ipotizzare che la stessa fosse variata tra il momento dell'incidente e quello dell'accertamento tecnico.
Peraltro, va ribadito, si tratta di una questione che non aveva costituito oggetto del gravame di merito. Ed è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità che non possano essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione (sez. 5, n. 25814 del 23/4/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255577; conf. sez. 2, n. 22362 del 19/4/2013, Di Domenica, Rv. 255940; sez. 1, n. 2176 del 20/12/1993 dep. il 1994, Etzi e altro, Rv. 196414).
In altra successiva pronuncia, condivisibilmente, è stato ritenuto inammissibile il motivo di impugnazione con cui venga dedotta una violazione di legge che non sia stata eccepita nemmeno con l'atto di appello, non avendo l'intervenuta trattazione della questione da parte del giudice di secondo grado efficacia sanante "ex post" (sez. 3, n. 21920 del 16/5/2012, Hajmohamed, Rv. 252773).
Diversamente opinando, del resto, diverrebbe estremamente difficile se non impossibile, per la Corte di Cassazione, mancando un motivo di appello sul punto e, dunque, una doglianza ritualmente sollevata, procedere a verificare anzitutto i termini esatti della doglianza stessa e, conseguentemente, la congruenza della relativa risposta della Corte.
Sul punto va anche ricordato che è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 606, comma terzo, c.p.p., per contrasto con gli artt. 24 e 111, comma settimo, Cost., nella parte in cui dispone che il ricorso per cassazione proposto per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello è inammissibile, perché la disposizione appena richiamata detta una disciplina ragionevole di regolazione del diritto di ricorrere per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, limitandolo, per ragioni di funzionalità complessiva del sistema, soltanto per il caso in cui la parte abbia inteso adire tutti i tre gradi di giudizio (sez. 2, n. 40240 del 22/11/2006, Roccetti, Rv. 235504)
8. In ultimo, parimenti inammissibile appare il quarto motivo di ricorso, pure costituito da mere doglianze in punto di fatto già adeguatamente vagliate e disattese con corretti argomenti giuridici dai giudici di merito.
Questi ultimi, peraltro, hanno evidenziato come il consulente della difesa non abbia contrapposto una diversa ricostruzione delle diverse fasi dell'incidente, sostenendo soltanto - senza, però, il supporto di argomentazioni tecniche (la Corte territoriale richiama sul punto la relazione scritta dell'ing. V., nella quale non sono state determinate la velocità dei mezzi, il punto d'urto e non vengono posti in evidenza dati a conforto delle diverse conclusioni ivi riportate) - che l'incidente non sarebbe stato evitabile dal C. anche se avesse mantenuto una velocità nei limiti consentiti.
Tuttavia -rilevano ancora i giudici del gravame del merito- che nemmeno risulta come l'ing. V. abbia calcolato che il C. aveva avuto la disponibilità di uno spazio di 15 metri al momento dell'avvistamento del veicolo dell'A., insufficiente per porre in essere una qualunque manovra d'emergenza idonea a evitare lo 'scontro.
Va in proposito ricordato che, per assunto pacifico, la ricostruzione di un incidente stradale nella sua dinamica e nella sua eziologia - valutazione delle condotte dei singoli utenti della strada coinvolti, accertamento delle relative responsabilità, determinazione dell'efficienza causale di ciascuna colpa concorrente - è rimessa al giudice di merito ed integra una serie di apprezzamenti di fatto che sono sottratti al sindacato di legittimità se, come nel caso che ci occupa, sorretti da adeguata motivazione (ex pluribus, sez. 4, 10 febbraio 2009, Pulcini).

Cassazione: “I racconti dei richiedenti asilo sono stereotipati e troppo simili tra loro”

Gli stranieri arrivati in Italia con mezzi di fortuna richiedono lo status di rifugiati «sovente attraverso narrazioni stereotipate e tessute intorno a canovacci fin troppo ricorrenti» e quindi palesemente false, da smascherare attraverso «un controllo di logicità, che appare ormai la principale, se non l’unica, difesa dell’ordinamento». Così scrive la prima sezione civile della Cassazione, in una sentenza in materia di protezione internazionale.

La vicenda riguarda A.S., togolese cui sia la commissione della prefettura sia il tribunale hanno rifiutato lo status di protezione internazionale e umanitaria. A.S., musulmano, aveva raccontato di essere stato costretto a fuggire dal suo Paese per evitare le ritorsioni causate dalla distruzione di un idolo in una zona in cui si pratica la religione animista.
Ma secondo esperti della commissione amministrativa e tribunale il suo racconto non era credibile, in quanto sfornito sia di riscontri oggettivi, sia di quella intrinseca ed elementare coerenza logica, che consentirebbe di ritenere provate «circostanze che non lo sono affatto». E’ infatti «del tutto implausibile che A.S., appartenente alla minoranza musulmana, avesse distrutto l’idolo da solo e lo avesse fatto repentinamente pur nella consapevolezza delle reazioni alle quali sarebbe andato incontro, così da pregiudicare, per un gesto tanto insensato, non solo la buona posizione lavorativa raggiunta, ma anche la relazione familiare con la moglie e una figlia appena nata».
La Cassazione difende «il controllo di logicità», senza il quale «al giudice non resterebbe che prendere supinamente atto della domanda proposta, accogliendola in ogni caso, per quanto strampalata possa apparire».
Il giudice, spiega la Cassazione, ha la possibilità di «stabilire quale sia la situazione complessiva in cui versa il Paese di provenienza (esistenza di culti animisti e di minoranze di religione musulmana)», ma non «di accertare in concreto se la narrazione dei fatti riferita dal richiedente sia vera o inventata di sana pianta». Come appare quella del musulmano A.S, «della cui fede pare nessuno si fosse mai interessato fino alla discreta età di circa 25 anni», fino a che, «improvvisamente sollecitato dal capo villaggio a partecipare a una cerimonia animista, preso da incontenibile furia iconoclasta nei riguardi di un idolo, e dimentico della famiglia e del suo avviato mestiere di sarto, lo abbia distrutto a colpi di bastone e di machete e, già con i soldi in tasca per darsi alla premeditata fuga, sia poi scappato immediatamente dopo perché una donna lo aveva visto e riconosciuto».
La Cassazione non solo boccia il ricorso del togolese A.S., ma trae da esso ulteriore conferma di una generalizzata tendenza che «emerge dall’esperienza dal collegio», al punto da poterne ricavare una casistica di «narrazioni stereotipate», che il relatore impietosamente elenca: «quella del giovane musulmano che ha messo incinta una ragazza cristiana, o del giovane cristiano che ha fatto lo stesso con una musulmana (le religioni possono peraltro variare), e scappa dalle furie dei genitori di lei; quella dell’uomo che il capo-villaggio ha destinato a sacrifici umani (il caso in esame appare una variante di questa trama) o ad altra non commendevole sorte; quella del sedicente omosessuale che, se lo fosse, sarebbe perseguitato al suo Paese; quello della lite degenerata in fatti di sangue in cui il richiedente ha, si intende senza volerlo, ferito o ucciso il proprio contendente, in un contesto in cui, quale che sia il Paese di provenienza, le forze di polizia del luogo sono sempre e irrimediabilmente corrotte ed astrette da oscuri vincoli alla potente famiglia della vittima, e così via».
La sentenza, risalente all’agosto 2019, è stata pubblicata ora da Questione Giustizia, rivista online di Magistratura Democratica, e accompagnata da un commento critico di Alessandro Simoni, professore di sistemi giuridici comparati dell’Università di Firenze. Il quale, pur dubitando del criterio logico seguito dai giudici («in astratto non sembra regola universale che ogni fervore religioso o iconoclasta si spenga una volta che si è messa su famiglia e gli affari procedono»), rispetta la decisione giudiziaria, poiché «è ben possibile che le carte non lasciassero grandi spazi di manovra anche all’ermellino più benevolo».
Tuttavia Simoni vede nell’argomentazione generalizzata, «inutile» ai fini del caso concreto, «un interessante indicatore della permeabilità dei corpi giudiziari a un modo sempre più diffuso di leggere il mondo». I giudici della Cassazione, anziché limitarsi a un’asettica valutazione probatoria sul caso di A.S., non hanno resistito «alla tentazione di fare dell’ironia» sul suo racconto e su quelli di gran parte dei richiedenti asilo, «in particolare quelli dell’Africa subsahariana (quindi di un gruppo umano accomunato da una precisa immagine razziale o etnica»), tacciandoli di ricorrere a «narrazioni di fantasia, unicamente finalizzate a vincere i ricorsi».
«La rappresentazione caricaturale - conclude Simoni - produce una sensazione sgradevole», evocando «stereotipi sui migranti che hanno radici solidissime nella cultura italiana meanstream».

fonte: www.lastampa.it

martedì 7 gennaio 2020

Monopattini elettrici, dal 1° gennaio possono circolare

Via libera ai monopattini elettrici, ma anche agli 'howerbord', segway e monowheels. Lo stabilisce la manovra. Dal primo gennaio questi mezzi sono equiparati alle biciclette e quindi possono circolare liberamente nelle città, rispettando il Codice della Strada. 
L’uso in Italia di questi mezzi, arriva dopo una lunga scia di multe, anche salate, seimila euro da Bari a Modena, passando per Brescia e Torino. E proprio il superamento del problema delle multe è stato l’obiettivo primario che sta dietro l’approvazione dell’emendamento di Italia Viva.
I monopattini elettrici sono già una realtà in molte città europee: Berlino, Parigi, Vienna, Lisbona, Copenaghen, Bruxelles, Praga, Helsinki, Atene, e Varsavia. Ma non solo nel mondo sono diffusi negli Usa, Argentina e  Brasile.
A regolare la micromobilità con i monopattini elettrici era stato un decreto entrato in vigore il 27 luglio scorso che però stabiliva che a mettere in regola i monopattini elettrici all’interno del proprio territorio dovevano essere i singoli comuni.
A Milano la sperimentazione era appena partita, con il posizionamento di 130 segnali stradali nella cintura esterna più altri 80 in aree di particolare pericolosità. Ma in molte città, invece, la sperimentazione non era mai partita, a causa della mancanza di risorse per la cartellonistica, o per la pericolosità intrinseca al mezzo.
Rimini è stata la prima città italiana ad offrire un servizio di noleggio di monopattini elettrici. Lime, società che offre soluzioni di sharing mobility sostenibili con monopattini elettrici, ha vinto infatti il bando del comune di Rimini ed è operativa da agosto scorso. Sono seguite poi Torino e Verona.

fonte: www.lastampa.it

Ferrara: Violentò minore in auto. Condanna a dieci anni per il pedofilo seriale

Ieri la sentenza del Tribunale nei confronti uno straniero di 32 anni. Al termine dell’udienza la vittima, ora maggiorenne, ha pianto. É sta...