martedì 4 settembre 2018

Licenziamenti, valutare anzianità e carichi famiglia anche in piccole imprese

In caso di posizioni fungibili, i criteri previsti per i licenziamenti collettivi si applicano anche alle piccole imprese che vogliano ridurre il personale a causa di una contrazione delle attività. Si avrà, dunque, un licenziamento per giustificato motivo oggettivo soltanto se l'azienda, nella scelta delle persone da mandare a casa, avrà tenuto conto dei carichi di famiglia e dell'anzianità di servizio. Lo ha deciso la Corte di cassazione, sentenza n. 21438 del 30 agosto 2018, respingendo il ricorso di una Srl condannata dalla Corte di appello di Firenze a pagare un'indennità risarcitoria di sei mensilità (mancando il requisito dimensionale per la reintegra) a un dipendente licenziato senza chiarire perché la scelta fosse ricaduta proprio su di lui «e non piuttosto su altri lavoratori che svolgevano le medesime mansioni e che avevano una minore anzianità di servizio». Contrariamente a quanto sostenuto dall'azienda, infatti, la corte territoriale aveva «escluso che in esito alla riorganizzazione dell'attività vi fosse stata la soppressione del reparto falegnameria avendo accertato che vi era stata una mera riduzione dell'attività che la società aveva ritenuto di ridimensionare privilegiando alcuni settori di attività (verniciatura) ma senza del tutto abolirne altri (falegnameria)».
La Suprema corte comincia col ricordare che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dalla Costituzione. In questo senso, i paletti da rispettare, ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, fissati dall'articolo 3 della legge n. 604 del 1966, sono: a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali diretti a incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa; c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse. Un elemento quest'ultimo, precisa la Corte, «inespresso a livello normativo» ma che «trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale». Quando però vi è una «generica necessità di riduzione del personale omogeneo e fungibile», allora la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare non è «totalmente libera». Sicché nella giurisprudenza si è posto il problema di individuare «in concreto i criteri obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme ai dettami di correttezza e buona fede e si è ritenuto che possa farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criteri che la legge n. 223 del 1991, all'art. 5, ha dettato per i licenziamenti collettivi per l'ipotesi in cui l'accordo sindacale non abbia indicato criteri di scelta diversi». Conseguentemente, prosegue, si è ritenuto che «possano essere presi in considerazione, in via analogica, i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità atteso che non assumono rilievo le esigenze tecnico-produttive e organizzative, data la indicata situazione di totale fungibilità tra dipendenti»
Per cui, prosegue la sentenza, la Corte di merito si è mossa in questo solco laddove, dopo aver accertato che lo specifico settore era stato soppresso ma che «era comunque residuata in altri settori la necessità dello svolgimento di mansioni di falegnameria», ha ritenuto il comportamento della società illegittimo per non aver operato alcun raffronto con i profili di altri lavoratori con le medesime mansioni. In definitiva, per la Cassazione: «in presenza di più posizioni fungibili perché occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee, ove non sia utilizzabile il criterio dell'impossibilità di “repechage”, il datore di lavoro deve individuare il soggetto da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede e, in questo contesto l'art. 5 della l. n. 223 del 1991 offre uno “standard” idoneo ad assicurare una scelta conforme a tale canone». Anche se, conclude, «non può escludersi l'utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati».

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

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