mercoledì 4 ottobre 2017

Donne e violenza, ecco perché le vittime scelgono di non denunciare

In Italia ogni anno si denunciano circa 4.000 violenze sessuali. Secondo gli esperti questo numero non riflette la realtà: gli episodi di violenza sono molti di più. Secondo l’Istat nel 92,5% dei casi le donne che hanno subito una violenza sessuale non l’ha denunciata (la percentuale sale al 95,6% se l’aggressore è italiano e scende al 75,3% se è straniero), e da questo conto sono escluse le violenze commesse dai partner e dagli ex partner. Allora può essere utile cambiare domanda: perché le violenze sessuali non vengono denunciate?
Partiamo da un dato di fatto: una donna su tre dice di aver subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita (il 31,5%). Nella stragrande maggioranza dei casi l’aggressore era il partner o l’ex, e in questo caso le denunce sono più frequente, ma si fermano comunque al 12,2% dei casi.
Secondo lo studio dell’Istat (pubblicato nel 2014), la situazione è ancora più drammatica per le donne straniere: il 100% non ha denunciato se l’autore era italiano o straniero, 98,1% se era del proprio Paese d’origine. Il baratro nel quale queste donne sono catapultate chiama in causa l’intero sistema che dovrebbe proteggerle e di cui, evidentemente, non si fidano. È un silenzio solido e dalle dimensioni spaventose: secondo lo studio 652.000 donne tra i 16 e i 70 anni sono state vittime della violenza più brutale, lo stupro, e 746.000 di tentativi falliti ma non per questo senza conseguenze fisiche e psicologiche.
Un capitolo a parte, che spiega forse meglio di altri gli automatismi che non fanno scattare la denuncia, è la molestia sessuale al lavoro. In questo luogo lontano dalle dinamiche di coppia, il 7,5% delle donne dice di aver subito almeno un ricatto sessuale. L’80,9% non ne ha parlato con nessuno, solo lo 0,5% ha denunciato il molestatore. E poi? E poi una donna su tre ha cambiato lavoro o ha rinunciato volontariamente alla carriera (34%), più di una su dieci è stata licenziata lei (11%) e solo nel 6,5% dei casi è andato via lui. In un caso su cinque non è successo assolutamente nulla.
Attraverso l’Occhio dei Lettori , la piattaforma di giornalismo partecipativo lanciata da La Stampa, abbiamo chiesto alle nostre lettrici di raccontarci le loro storie di violenza e mancata denuncia. Per tutelare la loro privacy, le vittime non sono identificabili, ma ognuna di loro si è messa a disposizione per approfondire la loro storia con i nostri giornalisti. Per questo e per il loro coraggio, le ringraziamo. Ecco le loro storie:
Mi ha legata al letto e ha fatto ciò che voleva
Avevo 17 anni, ora ne ho 41. Lui più grande di me di un anno, era un ragazzo che mi piaceva, c’era stata qualche carezza e poco altro. Non si era sempre comportato bene con me, ma sapeva farsi perdonare. Un giorno lo invitai a casa. Al rifiuto di un bacio mi legò al letto con la prolunga della luce del comodino e fece quello che al momento gli passava per la testa. Il giorno dopo andai a parlare con la mia sorellastra più grande cercando conforto. Mi disse: «Eri vergine? Ti sei tolta un peso». I segni sui polsi erano ben visibili. Non dissi niente a miei genitori, ero io ad averlo fatto entrare.
Ho raccontato a pochi questa cosa perché ho notato che le donne davanti a questo argomento si irrigidiscono e cambiano discorso, mentre gli uomini addirittura quasi non credono alla mia storia perché «a volte voi donne quando dite no invece è sì». Leggendo la vicenda della piccola Noemi mi sono ritrovata diciassettenne ingenua e indifesa, alle prese con un ragazzo violento e senza scrupoli quando io cercavo solo un po’ di affetto, per fortuna che a me andata meglio.
Denunciarlo no, significherebbe dover rivedere quel terrificante sorriso
Era un amico di amici, a scuola per un anno di scambio culturale. Era gentile e disponibile, sia con me che con gli altri ragazzi della compagnia. Forse non avrei dovuto mettermi il vestito quel giorno o non sarei dovuta salire in camera sua. Ma non era la prima volta, doveva solo prendere un maglione. Mi diceva che non ero una bambina e che mi sarebbe piaciuto. La prima volta che ho provato a raccontarlo mi hanno detto che avrei dovuto aspettarmelo. Denunciare vorrebbe dire rivederlo, ma a me basta rivedere quel sorriso terrificante nella mia testa. Sono passati tre anni.
Mi ha puntato il fucile in faccia, sono scappata di notte in pigiama 
Una sera d’estate avevamo amici a cena. Mio marito beveva, come al solito. In cucina si mise a darmi dei colpi, mi strappò la catenina lasciandomi dei segni sulla scollatura. Urlai, ma nessuno si mosse. Mesi dopo gli dissi che volevo separarmi, lui mi puntò il fucile al volto. Nella notte sono scappata, in pigiama. Lo volevo denunciare, il carabiniere mi disse: «Signora, sicuramente ha un’amica da cui poter andare a dormire. Si riposi, torni domani». Non sono più tornata, né a casa mia né a denunciarlo. Non ho mai dimenticato il fucile puntato.
A quell’età non capivo, non sapevo come raccontarlo ai miei genitori
«Tornavo la sera non molto tardi da un incontro parrocchiale per la prima comunione. Pioveva, così per far prima sono passata in un vicolo invece che dalla strada principale. Lì incontrai quest’uomo. Ricordo ancora il suo odore e la morfologia del suo viso. Non la sua voce. Ricordo che non riuscivo a urlare. Ricordo le mani e come si muovevano. Ciò che accadde è che alla fine di tutto la mia testa era altrove e pensavo ad altro, fin quando non scivolò per la pioggia sui sampietrini e io scappai correndo. Tornata a casa, mi beccai uno schiaffone da mia mamma per il mio ritardo e sono finita a letto senza cena».
«Avevo 14 anni. Non avevo idea di come raccontare ai miei quello che era successo, così non l’ho fatto. Dopo anni di psicoterapia, sono riuscita in qualche modo a superarlo. Ora ho una figlia della stessa età. Ho sempre cercato di costruire un dialogo profondo con lei, di darle gli strumenti e la tranquillità di raccontarmi qualsiasi cosa. Anche uno stupro».
Avevo 10 anni, lui era un amico di famiglia. Mia madre mi disse solo di scappare 
«Avevo compiuto da poco 10 anni, lui era un amico di famiglia. La sua scusa era portare sua nipote, mia coetanea e compagna di scuola, a casa nostra. Lui diceva che era solo per farci giocare, poi è successo molto altro. Ero piccola, terrorizzata e incapace di reagire».
«Quando sono riuscita a trovare il coraggio l’ho raccontato a mia mamma. La sua risposta mi ha gelato, non ne ho parlato più con nessuno per anni e anni. Lui non l’ho più visto in casa mia, ma lei mi ha detto una cosa sola, nient’altro: «Se ti capita ancora, cerca di scappare».
Lui era un collega di lavoro, non volevo perdere il posto e sono stata zitta 
«Lui era un mio collega. Siamo sempre andati d’accordo, tanto che spesso il nostro capo ci scherzava su dicendo che ci saremmo dovuti fidanzare. Anche se io un fidanzato già l’avevo. Lui ci aveva già provato moltissime volte, anche in modo piuttosto spinto. Ci è anche capitato di restare per qualche giorno fuori città insieme, sempre per lavoro. Purtroppo a volte anche nella stessa stanza, come è successo quella notte. Non volevo rischiare di perdere il lavoro. Proprio perché andavamo d’accordo, sono sicura che non mi avrebbe creduto nessuno».
Mi portò in un bosco. Oggi sono nonna, se tornassi indietro andrei alla polizia 
«Ho 76 anni, è successo 56 anni fa. Ero in Svizzera, a Interlaken, dove lavoravo in un’agenzia di viaggi. Un giovane cantante italiano che vedevo ogni giorno, in piscina e alla sera, mi ha offerto un passaggio al lavoro. Erano le 15. Non si è fermato, ha proseguito fino a un bosco e a quel punto ha abusato di me. Non l’ho denunciato perché gli italiani erano malvisti, sapevo che la polizia svizzera avrebbe fatto ben poco. Alcuni amici, italiani anche loro, mi convinsero a lasciar perdere. Ne ho parlato con mia figlia e con mia nipote. Oggi che sono nonna so di aver sbagliato, avrei dovuto denunciare. Potessi tornare indietro ascolterei solo me stessa».
Mi tirò un pugno lasciandomi per strada. Non ho fatto nulla, mi sono sentita sola 
«Avevo 19 anni quando mi fidanzai, lui 27. Dieci anni fa. Quando la mia famiglia venne a sapere della mia storia tentarono di mettermi in guardia, i miei amici pure. Non li ascoltai. Le discussioni si fecero sempre più frequenti e assurde. Lo facevo infuriare senza alcun motivo. Un giorno mi fece una scenata e mi scaraventò a terra. Mi tirò un pugno in faccia, rimasi tramortita sul ciglio della strada, iniziò a stringermi la gola. Quando tornai a casa con i lividi, la mia famiglia andò su tutte le furie e da quel giorno l’argomento diventò un tabù. Non ho mai pensato di denunciarlo. Ero io ad aver scelto di stare con lui. È stato un grave errore: forse se l’avessi fatto non mi sarei sentita così sola».
Aggredita a scuola, per anni mi sono sentita in colpa e mi vergognavo 
«Avevo 14 anni. Era un sabato mattina, poche classi quasi tutti al piano superiore, io e lui soli per colorare dei cartelloni per la festa di fine anno. Lui mi prende con la forza e mi corica sul banco, inizia a toccarmi sotto i vestiti, non riesco a sollevarmi perché lui è molto forte, grido «La bidella, c’è la bidella». Lui si alza di scatto, poi si abbassa i pantaloni e mi ricarica, si strofina su di me e inizia a toccarmi di nuovo. Mi ha salvato la campanella dell’intervallo».
«Non l’ho raccontato a nessuno per più di vent’anni. Mi sono confidata con mio marito prima, poi con mia madre. Nessun altro. Così ho visto un uomo nudo per la prima volta nella vita. Quell’aggressione ha condizionato il mio rapporto con gli uomini. Avevo paura: mi era capitato a scuola, poteva capitarmi dappertutto. Mi vergognavo da morire. Mi sono sentita in colpa per la mia fisicità prosperosa, colpevole di essermi sviluppata presto e sembrare più grande. Lui era un mio compagno di classe e c’erano ancora quattro giorni di scuola. Quando incrociavo il suo sguardo, abbassavo gli occhi. Poi non l’ho mai più visto».

Fonte:www.lastampa.it/- La Stampa

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