giovedì 14 aprile 2016

Il rapporto tra sentenza penale di condanna e licenziamento per giusta causa

A seguito delle diverse riforme che hanno investito, e parzialmente, travolto la tutela reale del posto di lavoro e – dunque – tutta la disciplina sui licenziamenti individuali, assumono un'importanza sempre maggiore le pronunce di merito (e di legittimità) che riconducono nell'alveo della tutela reintegratoria alcune fattispecie di recesso dal rapporto di lavoro; non mancano, in questo senso, ordinanze ex l. 92/2012 o sentenze di primo grado, con riferimento al licenziamento ritorsivo e discriminatorio, comunque fondato su motivo illecito unico e determinate, il cui accertamento comporta la declaratoria di illegittimità dello stesso ed il diritto per il lavoratore di rientrare in azienda.
Si è creata un'area "grigia" del diritto del lavoro, all'interno della quale si cerca di elaborare figure ed istituti necessari a ripristinare una possibile tutela forte al rapporto di lavoro, messa in crisi dal Riforma Fornero prima e dal Jobs Act poi.
In questo contesto, risultano interessanti le considerazioni attorno al rapporto tra la sentenza penale di condanna del lavoratore ed il possibile licenziamento disciplinare: che tipo di rapporto vi è? Esiste una conseguenza logica? Può riconoscerci un automatismo tra la condanna penale ed il licenziamento per giusta causa.
Il giudicato penale: sussistenza del fatto e giusta causa di licenziamento del lavoratore condannato
L'art. 653 cod. proc. pen., comma 1-bis, stabilisce che "…la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche amministrazioni quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso".
In realtà, la sussistenza del fatto e la sua illiceità (da cui ne deriva la condanna penale) non potrebbero neppure essere contestate in sede di processo del lavoro, trattandosi di sentenza emessa (per l'appunto) in sede penale.
I fatti oggetti di valutazione in sede di giudizio penale, devono necessariamente essere valutati in modo autonomo da parte del Giudice del lavoro in quanto il presupposto giuridico del licenziamento disciplinare è la giusta causa ex art. 2119 cod. civ.; il Giudice del lavoro non è neppure tenuto a considerare le risultanze probatorie e l'accertamento svolto in sede penale, dovendo svolgere un nuovo giudizio e valutare dunque:
i) la sussistenza giuridica dei fatti e la rilevanza disciplinare degli stessi nell'ambito del rapporto di lavoro richiamato;
ii) la condotta del lavoratore, le controdeduzioni dallo stesso rese e la presenza di precedenti disciplinari;
iii) il venire meno del vincolo fiduciario;
iv) il danno al datore di lavoro o, in ogni caso, l'interesse dello stesso ad interrompere il rapporto con il lavoratore.
Ciò posto e considerato, è opportuno un chiarimento sul concetto di manifesta insussistenza che è stato elaborato dopo la c.d. Riforma Fornero.
Come noto, la legge 92/2012 ha profondamente modificato la disciplina sostanziale dei licenziamenti fissata all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, il quarto comma prevede una tutela reale "depotenziata" che si applica solo nei casi di "insussistenza del fatto contestato" oppure – quando questo accertamento ha avuto esito positivo – se la contrattazione collettiva o il codice disciplinare applicati sanzionino la condotta in via conservativa anziché espulsiva.
Sennonché, dopo l'entrata in vigore della norma, dottrina e giurisprudenza si sono confrontate sul concetto di "manifesta insussistenza del fatto" ovvero se tale dovesse ritenersi il fatto "materiale" ovvero il "fatto giuridico"; il motivo di tale divisione è legata soprattutto alla valutazione del fatto materiale che, qualora effettivamente verificatosi, comporterebbe l'attribuzione al lavoratore della responsabilità dello stesso a prescindere dalla rilevanza disciplinare/giuridica: un giudizio sulle intenzioni che non tiene conto del peso nel rapporto di lavoro di tali fatti, o dell'atteggiamento soggettivo del lavoratore.
E' poi intervenuta l'ordinanza del tribunale di Bologna 15 ottobre 2012 con la quale ha affermato: "Il fatto contestato, la cui insussistenza comporta l'applicazione dell'art. 18, comma 4, della l. n. 300/1970, va inteso con riferimento non solo alla sua componente oggettiva (fatto materiale) ma anche a quella soggettiva (fatto giuridico) comprensiva della valutazione in ordine al dolo o alla colpa del lavoratore ed alla proporzionalità della sanzione rispetto all'infrazione".
Tale posizione ha trovato l'appoggio della dottrina maggioritaria (cfr. Perulli, "Fatto e valutazione giuridica nella nuova disciplina dell'art. 18 St. lav. Ratio ed aporie dei concetti normativi", in ADL, 2012, IV-V, pagg. 793-794) secondo la quale il fatto "nella sua essenza fenomenologica" non è giuridicamente apprezzabile se non attraverso la sua valutazione alla luce dei parametri normativi, ossia nella sua riconduzione al concetto normativo espresso dalla formulazione di cui all'art. 3, l. 604 del 1966, che – non a caso – indica le ragioni su cui il licenziamento trova fondamento. "Altrimenti" prosegue il Perulli "…il fatto (la sua esistenza) è per definizione irrilevante per il diritto, e non può assurgere a criterio di selezione dell'effetto": dunque il fatto non ha alcuna rilevanza se non in rapporto alle norme, alla violazione del codice disciplinare, alla compromissione del vincolo fiduciario, quindi come postulato della giusta causa ex art. 2119 cod. civ.
A questo punto, è intervenuta la Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540 nella cui massima si legge che "la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art. 18, c. 4, Stat. Lav.". La Suprema Corte ha propeso per la completa irrilevanza giuridica dei fatti contestati in quanto "…non è plausibile che il Legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo di carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione […] la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art. 18, quarto comma cit.".
L'irrilevanza giuridica dei fatti e la condotta assunta dal datore di lavoro
Evidentemente, anche la condotta del datore di lavoro assume una particolare importanza quanto alla rilevanza giuridica dei fatti contestati ed all'interesse dello stesso all'interruzione del rapporto di lavoro. Si tenga sempre a mente che la giusta causa di licenziamento non consente la prosecuzione "nemmeno provvisoria" del rapporto di lavoro, in quanto è il vincolo fiduciario ad essere venuto meno.
Molto spesso, invece, tra la data di pubblicazione della sentenza penale di condanna e quella di intimazione del licenziamento (o meglio, di avvio del procedimento disciplinare) trascorrono molti anni, durante i quali i lavoratore continua a svolgere le proprie ordinarie mansioni; evidentemente, in tutti questi casi è venuto meno l'interesse specifico del datore di lavoro al recesso dal rapporto di lavoro in quanto, per fatti concludenti, il vincolo fiduciario non è stato compromesso.
In questo senso è utile la lettura di Cass. 9.8.2004, n. 15383 nella cui massima si legge:
"Non è ravvisabile una giusta causa di licenziamento ove la contestazione degli addebiti avvenga a distanza di anni dall'accertamento, in seguito ad indagine ispettiva interna all'impresa, dei fatti denunciati poi all'autorità giudiziaria, non essendo necessario attendere la conclusione del procedimento penale di primo grado, soprattutto quando il datore di lavoro, come nella specie, si sia astenuto dall'adottare misure cautelari".
La contestazione dell'addebito disciplinare deve essere tempestiva "e ciò, anzitutto, a garanzia del contraddittorio onde consentire al dipendente di ricordare più agevolmente i fatti e le circostanze da addurre a discolpa, di reperire prontamente le prove"; ma la tempestività è indice anche dell'interesse o disinteresse del datore di lavoro "ad applicare sanzioni disciplinari e comunque della circostanza che l'illecito disciplinare non sia tale da meritare, secondo la presumibile valutazione del datore di lavoro, una sanzione".
Si legge ancora nella citata sentenza che "la procrastinazione nel tempo della reazione del datore di lavoro, pienamente consapevole dell'illecito, sarebbe, logicamente e giuridicamente, incompatibile con la giusta causa di licenziamento" ma non solo, tale condotta del datore di lavoro sarebbe apprezzabile anche sotto il profilo della correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 cod. civ. in quanto non è consentito "tenere il prestatore di lavoro nell'incertezza dell'incombere di una sanzione disciplinare o addirittura sotto osservazione al fine di rinvenire eventualmente nella sua condotta futura ulteriori elementi di accusa".
Un caso particolare: il licenziamento nel pubblico impiego
La P.A. vive di una disciplina propria, spesso molto distante da quella dell'impiego privato, ed è utile un rapido confronto in quanto sono frequenti i casi di condanna penale nei confronti di dipendenti pubblici poi licenzianti "in tronco" anche a distanza di anni.
In questo senso è utile richiamare quanto già stabilito dalla stessa Corte Costituzionale con sentenza 14.10.1988, n. 971 e poi nuovamente con la sentenza 27.4.1993, n. 197, la quale ha più volte evidenziato che nessuna sanzione disciplinare può essere irrogata al di fuori di un procedimento che costituisce cumulativamente il luogo ed il modo dell'esercizio dei poteri disciplinari da parte della Pubblica Amministrazione: la sentenza penale di condanna, dunque, non può mai condurre all'automatica attivazione di misure espulsive al di fuori di una procedura disciplinare regolarmente incardinata.
Una sentenza penale di condanna non può determinare l'adozione di alcun automatismo espulsivo, anche perché il Legislatore quando ha inteso prevedere tale consequenzialità lo ha fatto espressamente così come con l'art. 5, l. 27.3.2001, n. 97, che prevede la misura espulsiva automatica nel caso in cui sopraggiunga la condanna penale definitiva a sanzione detentiva non inferiore a tre anni per taluno dei delitti indicati dal suo art. 3, comma 1, ossia per i reati di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319 ter e 320 cod. pen.

Fonte: www.ilsole24ore.com//Il rapporto tra sentenza penale di condanna e licenziamento per giusta causa

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