venerdì 14 agosto 2015

L’assegnazione della casa coniugale prescinde dalla tutela del coniuge economicamente più debole

In tema di assegnazione dell’abitazione coniugale, l’interesse tutelato dall’ordinamento è quello dei figli a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti. L’assegnazione della casa coniugale, pur avendo anche importanti riflessi economici, non può essere disposta per sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole. Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza 15367/15.

Il caso

Il Tribunale di Roma, pronunciando la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da una coppia, confermava l’assegnazione della casa coniugale, di proprietà dell’ex marito, alla donna. Successivamente, l’uomo alienava il suddetto immobile ad un terzo, rendendolo edotto del diritto di godimento del bene in capo all’ex coniuge, in quanto affidataria della figlia minorenne. In sede di revisione delle condizioni di divorzio, poi, il Tribunale di Roma revocava l’assegno di mantenimento disposto in favore della figlia, divenuta ormai maggiorenne ed economicamente autosufficiente, senza tuttavia pronunciarsi sul provvedimento di assegnazione della casa coniugale.

Il terzo acquirente, pertanto, dopo aver infruttuosamente richiesto in via stragiudiziale il rilascio dell’immobile de qua, adiva il Tribunale di Roma per vedere accertata l’insussistenza del diritto della donna e della figlia a continuare ad occupare l’ex casa coniugale e, per l’effetto, vederle condannate al rilascio del bene ed alla corresponsione di un’indennità per l’illegittima occupazione dello stesso. La domanda, tuttavia, veniva rigettata. La Corte d’appello territoriale, pronunciandosi sull’appello proposto dal terzo acquirente, dichiarava l’insussistenza del diritto delle due donne a continuare ad abitare nell’ex casa coniugale. Contro la pronuncia madre e figlia ricorrevano per cassazione.

Le ricorrenti evidenziavano che la decisione del giudice di seconde cure si fondava sull’erroneo presupposto che il riconoscimento in sede di divorzio di un assegno di mantenimento in favore della figlia della coppia costituisse la condicio iuris per la permanenza degli effetti dell’assegnazione della casa coniugale alla madre, cosicché, revocato l’assegno, anche il provvedimento di assegnazione era stato considerato da revocarsi. Secondo le due donne, invece, il diritto della madre assegnataria e della figlia ad abitare nell’immobile non verrebbe automaticamente meno in conseguenza della revoca dell’assegno di mantenimento, essendo invece necessarie una specifica richiesta da parte del proprietario del bene e una pronuncia che rivaluti le condizioni su cui si era fondato il provvedimento di divorzio.

La decisione della Corte d’appello territoriale, inoltre, sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione, poiché aveva disposto il rilascio della ex casa coniugale in assenza di una specifica richiesta di revoca del provvedimento di assegnazione. Quand’anche tale ultima richiesta fosse stata considerata implicita nella domanda di accertamento dell’insussistenza del diritto delle due donne ad abitare l’immobile, poi, le ricorrenti evidenziavano il mancato esperimento dell’azione di rilascio nelle forme e con la procedura prevista dall’art. 9 l. n. 898/1970, che disciplina i casi di scioglimento del matrimonio.

Il Supremo Collegio ha ritenuto infondate le doglianze sovra esposte. Gli Ermellini, infatti, hanno ribadito che l’assegnazione dell’abitazione al coniuge non titolare di un diritto di godimento – reale o personale – sull’immobile, è vincolata all’affidamento al coniuge stesso dei figli minori o alla sua convivenza con figli maggiorenni non autosufficienti. L’interesse tutelato dall’ordinamento, invero, è quello dei figli a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti – interesse non ravvisabile in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi -, e non quello del coniuge economicamente più debole a veder garantite le proprie esigenze economiche, cui provvede l’assegno di divorzio.

Venuta meno l’efficacia della pronuncia giudiziale in forza della quale il coniuge occupa l’immobile, pertanto, viene meno anche l’opponibilità del provvedimento al terzo acquirente del bene: diversamente, infatti, il diritto di quest’ultimo di godere e disporre del bene sarebbe irragionevolmente pregiudicato. Quanto all’asserito vizio di ultrapetizione della sentenza d’appello, i Giudici di Piazza Cavour hanno chiarito che il procedimento di revisione ai sensi dell’art. 9 l. n. 898/1970 può essere esperito solamente dai coniugi.

Il terzo acquirente, invece, non può che proporre una domanda di accertamento dell’insussistenza delle condizioni per il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge assegnatario. Madre e figlia, inoltre, nel ricorso sottoposto all’esame del Supremo Collegio lamentavano di essere state erroneamente qualificate dalla Corte d’appello come occupanti abusive dell’immobile a far tempo dal termine concesso dal terzo acquirente per il rilascio dell’immobile, quando, invece, al momento sussisteva un titolo giudiziale di assegnazione dell’immobile, che rendeva l’occupazione legittima fino all’emissione di un successivo provvedimento di revoca.

La Corte ha ritenuto fondata questa doglianza, non potendo dubitarsi che, finché perdura il titolo in forza del quale il coniuge assegnatario occupa l’immobile, è escluso qualsiasi obbligo di pagamento da parte del beneficiario per tale godimento, che sarebbe incompatibile con le finalità stesse dell’istituto. Per i motivi sovraesposti, quindi, il Supremo Collegio ha cassato la sentenza impugnata in relazione all’ultima doglianza esposta, rigettando gli altri motivi di ricorso proposti.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /L’assegnazione della casa coniugale prescinde dalla tutela del coniuge economicamente più debole - La Stampa

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