martedì 21 luglio 2015

Percosse e richiami offensivi al figlio: è violenza, non educazione vecchio stampo

Figura – e comportamenti – da ‘padre padrone’ d’altri (lontani, per fortuna) tempi. A doverne subire le conseguenze, sulla propria pelle – letteralmente –, il figlio, un ragazzo costretto a subire non solo botte ma anche rimproveri e offese umilianti. Quadro davvero triste, che legittima, però, la condanna dell’uomo per il reato di maltrattamenti in famiglia. Impensabile il richiamo – fatto dal difensore – all’ipotesi di un semplice abuso dei mezzi di correzione (Cassazione, sentenza 30436/15).

Linea di pensiero comune per i giudici di merito: sia in Tribunale che in Corte d’appello, difatti, è ritenuta non discutibile la responsabilità di un «padre» per i «maltrattamenti» e le «lesioni» nei confronti del «figlio minore». Logica la condanna, anche se, in secondo grado, la «pena» viene ridotta a «un anno e otto mesi di reclusione». Questa vittoria, seppur minima, non è ritenuta soddisfacente dall’uomo, il quale decide addirittura di presentare ricorso in Cassazione, sostenendo, in sostanza, che le sue condotte siano valutabili come semplice «abuso dei mezzi di correzione».

Secondo il padre, difatti, son sempre mancate, nei confronti del figlio, «una condotta di sopraffazione sistematica, tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa» e «un programma diretto a ledere la integrità morale» del ragazzo. Ciò perché, a suo dire, «le condotte poste in essere» erano «volte unicamente all’esercizio, pur se in ipotesi eccessivo, dello ius corrigendi». Tale visione difensiva viene, però, ritenuta risibile dai giudici del ‘Palazzaccio’. Questi ultimi, dando per acclarata la ricostruzione della triste vicenda – con riferimento ai «comportamenti violenti posti in essere» dall’uomo e alle «abituali espressioni offensive e degradanti proferite» all’indirizzo «del figlio» – considerando evidente la «violenza» nelle condotte tenute dal padre all’interno delle mura domestiche.

Significativo, in questa ottica, anche il fatto che egli non abbia mai modificato il proprio modus agendi, nonostante i consigli di un «assistente sociale» e nonostante la consapevolezza della «sofferenza psichica» del ragazzo. Crolla così facilmente l’ipotesi di un «abuso dei mezzi di correzione». Su questo fronte, in particolare, i giudici tengono a sottolineare che «il termine ‘correzione’ va assunto come sinonimo di ‘educazione’, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo», e non può certo «ritenersi» formativo «l’uso abituale della violenza», neppure «ove sostenuto» in effetti da un «animus corrigendi». Tutto ciò conduce alla conferma definitiva della condanna dell’uomo a «venti mesi di reclusione».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Percosse e richiami offensivi al figlio: è violenza, non educazione vecchio stampo - La Stampa

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