giovedì 19 febbraio 2015

PCT: l'omesso deposito della copia cartacea di cortesia "costa" all'avvocato 5.000 euro

L'omesso deposito della c.d. "copia di cortesia" viene sanzionata con la condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96 c.p.c. E così, per gli studiosi del processo (telematico e non) ma anche per gli studenti universitari freschi dell'esame di procedura civile, il provvedimento emesso dal Tribunale di Milano (II sez.) in data 15/1/2015 rischia di annoverarsi tra i precedenti più sorprendenti della storia giuridica italiana.

La seconda sezione del Tribunale di Milano, chiamata a decidere sull'opposizione allo stato passivo di una procedura fallimentare, vi provvede in data 15/1/2015 con decreto/sentenza assunta, in composizione collegiale, al termine dell'ordinaria e solitamente rapida istruttoria.

Questo il contesto processuale che si svolge con modalità di svolgimento analoghe a quelle del procedimento ordinario (con gli obblighi discendenti dalle disposizioni di cui all'art. 16 bis D.L. 179/2012), seppur preordinato a spiegare i suoi effetti in una procedura concorsuale, regolata - ai fini della obbligatorietà del deposito telematico - dall'art. 16 bis 4.o comma D.L. 179/2012 ed integrata (per quel specificamente attiene alla sede giudiziaria interessata) dal decreto emesso in data 24/6/2011 dal DGSIA, ai sensi dell'art. 35 D.M. 44/2011.

Il giudizio (sul cui merito poco conosce chi scrive) si conclude con il rigetto dell'opposizione a cui viene assicurata esposizione ampia e motivata e si conclude con la comprensibile determinazione sulle spese di giudizio, che vengono poste a carico della parte soccombente seppur in misura non perfettamente aderente alle disposizioni di cui al D.M. 55/2014, che avrebbero forse dovuto condurre ad una liquidazione parametrata all'elevato valore della causa (euro 3.528.304,16).

Alla condanna di cui sopra si associa una ulteriore pronuncia non particolarmente frequente nell'ordinaria casistica processuale anche allorquando espressamente sollecitata da una delle parti costituite: la condanna alla responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96 del c.p.c.

Il Tribunale di Milano provvede su questo punto applicando d'ufficio la tipologia delineata al comma 3 della norma citata e facendo quindi legittimo esercizio della ondivagante “discrezionalità del giudicante” che – dice l'art. 96 - consente “In ogni caso...” la condanna della “...parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.” e che, nel caso che qui ci interessa, viene quantificata nel 2,4 % dell'importo liquidato a titolo di spese giudiziali.

La decisione è abnorme, illegittima e rivela immediatamente un suo effetto devastante anche sul piano extra giuridico, minando alla qualità ed all'autorevolezza del supporto giurisprudenziale di merito tradizionalmente apportato dal Tribunale milanese, soprattutto in un contesto (quello del PCT) che quella sede ha conosciuto sin dalla sua nascita, imponendosi quale punto di riferimento nazionale per la sua pratica applicazione.

Il caustico giudizio che precede viene suggerito ed asseverato dalla lettura della succinta parte motiva che finisce per risolversi nella irrogazione di una vera e propria punizione al comportamento processuale dell'opponente e ravvisato nell'omessa allegazione della copia c.d. “di cortesia” (cartacea) alla comparsa conclusionale (telematicamente depositata), ritenuta produttiva di un aggravio, per il Collegio decidente, nella fase di esame delle difese delle parti.

 L'assunto pare saltare a piè pari quel ponte, delineato all'indomani del 30 dicembre 2014, che ha esteso a gran parte dell'attività processuale, l'obbligo di deposito telematico già in parte vigente fin dal 30 giugno 2014. Esso – come detto - si colloca sorprendentemente in una sede giudiziaria notoriamente avanzata sul piano della pratica attuazione del sistema del P.C.T. e da tempo assurta a “faro” per quelle (non poche) ancora ferme alla fase sperimentale.

Da quella data, come si insegna ormai anche nei corsi universitari di procedura civile, il deposito è obbligatoriamente telematico, senza che vi sia alternativa previsione o deroga differenti da quelle predisposte dalla Legge a parare singole patologie (malfunzionamento dei servizi telematici e/o esigenze processuali individuate dal giudice) e che, in quanto tali, assumono carattere di eccezionalità.

Il sistema di deposito telematico si colloca, d'altra parte, nel più ampio genus della c.d. “dematerializzazione” altrettanto notoriamente preordinata alla graduale eliminazione della componente cartacea nel contesto delle amministrazioni pubbliche (a cui quello della giustizia sicuramente appartiene).

Le premesse che precedono concorrono quindi ad escludere che possa ancora procedersi ad un deposito di atti processuali con forme e modalità differenti da quelle richieste obbligatoriamente nel testo di Legge  ovvero acconsentite dai decreti dirigenziali.

Men che meno ipotizzabile l'eventualità che la deroga a quelle disposizioni possa essere introdotta nelle forme dei pur diffusi “protocolli d'intesa”, localmente concordati tra alcuni (neanche tutti) dei soggetti coinvolti nella fase esecutiva del c.d. PCT.

 Di diverso avviso il Tribunale meneghino che proprio a quel protocollo fa espresso riferimento, rappresentandone una portata generale e vincolante tale da assoggettare la sua inosservanza (comprensiva della previsione sul deposito delle c.d.  “copie di cortesia”) alla grave sanzione prevista dall'art. 96 comma 3 del codice di procedura vigente, irrogata nel caso qui commentato.

La considerazione, trasposta nella decisione qui commentata, apre un pericolosissimo varco nel panorama della giurisprudenza di merito sul PCT, suscettibile di essere condiviso in quel contesto che non ha mai nascosto la palese avversione allo sviluppo del sistema telematico e che si è adagiato acriticamente su precedenti decisioni senza curare di motivarne le ragioni.

 Sul piano processual civilistico la decisione sarebbe, a dire il vero, destinata ad infrangersi con l'irreperibilità di una disposizione che imponga – soprattutto nel contesto informatico – l'obbligo di integrazione del deposito telematico con quello cartaceo affidato alla “copia di cortesia” (nozione essa stessa ignota al codice salvo a forzare l'analogia con quelle prassi del vecchio processo civile che autorizzavano lo scambio diretto delle comparse tra i difensori costituiti).

 Si tratta di una considerazione che contribuisce a ridimensionare (fino ad escluderla completamente) il vincolo ascritto dal Tribunale milanese al “protocollo d'intesa”, equiparabile ad un apprezzabile “gentleman agreement” tra i soggetti coinvolti nell'espletamento delle attività processuali; destinato a spiegare la sua efficacia nell'ambito dei rapporti di reciproca collaborazione tra le varie parti del sistema giudiziario e comunque precluso a spiegare la sua efficacia erga omnes che finirebbe per essere estesa finanche al professionista forestiero che dovesse trovarsi occasionalmente ad operare presso la sede giudiziaria meneghina, disconoscendo la sua regolamentazione locale.

 Chè poi, anche a voler abbandonare per un attimo la preliminare e pregiudiziale censura sulla pretesa che precede, resterebbe tutto da valutare se l'applicazione dell'art. 96 3.o comma del c.p.c. sia consistita di corretta e legittima applicazione delle disposizioni del codice ovvero pronuncia abnorme al pari di quella parte della sentenza ad esso dedicato.

 Il decreto, per intanto, azzera quell'orientamento sostenuto da illuminati magistrati del medesimo Tribunale che, percepito il definitivo superamento della convivenza tra sistema analogico e cartaceo, hanno da tempo privilegiato ai profili formali del deposito dell'atto processuale, la sua idoneità - comunque effettuata - al raggiungimento dello scopo, ipotesi che, nel caso di specie, sembrerebbe essere stato perfettamente realizzato nel momento in cui ha consentito al giudice il completo esame del merito della causa, gravandolo semmai dal disagio derivante da propria e manifesta incapacità ad acquisire autonomamente una stampa della comparsa conclusionale depositata dall'opponente.

Essa trascura di esaminare l'excursus storico dell'art. 96 c.p.c., originariamente associato all'ormai abrogata (art. 46 comma 20 L. 69/2009) disposizione dell'art. 385 c.p.c., preordinata a perseguire l'abuso del processo ed oggi affidata (proprio ai sensi del 3.o comma) a piena, ma inevitabilmente ragionata, valutazione discrezionale del giudice su un comportamento processuale improntato a pregiudicare la durata fisiologica e ragionevole del procedimento (che poi risente invero di altri e ben differenti causali).

Lungi da chi scrive interferire quindi su quella discrezionalità ma inevitabile affidare una lettura pressocchè testuale della disposizione codicistica, nella parte in cui essa mira a rafforzare le ragioni della parte vincitrice, beneficiandola dell'ulteriore guiderdone liquidabile “...anche d'ufficio...” in suo esclusivo favore (...”pagamento a favore della controparte...”).

 A fronte di questi princìpi, a cui non concorrono neanche la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, il Tribunale di Milano oppone una sorta di personale punizione che finisce per colpire il difensore della parte opponente, reo di una lesa maestà attuata nei confronti di un Collegio che, a norma di protocollo, avrebbe dovuto obbligatoriamente disporre di materiale cartaceo idoneo a rendere la disamina delle tesi difensive quanto meno gravosa possibile.

Si tratta di una valutazione poco degna dell'elevata qualità del materiale giurisprudenziale solitamente prodotto dal capoluogo lombardo e che si risolve nella dichiarata rilevanza giuridica di una omissione dichiaratamente riconducibile alla “scortesia” del difensore (dacchè “cortese” viene definita la copia cartacea dell'atto non prodotto) meritevole di pubblica gogna.

In questo paradossale contesto ingenerato dalla sentenza menzionata, non possono mancare brevi considerazioni personali sui suoi pratici effetti, la cui revisione, in sede di gravame, appare ragionevolmente impensabile perchè rimessa alla scelta di un soggetto (la parte soccombente) già gravata dal considerevole impegno di spese processuali e dalla sfavorevole valutazione del merito della causa.

Neanche peregrina, anzi, l'eventualità che la motivazione esposta dal Tribunale legittimi le rimostranze del cliente nei confronti del proprio avvocato, dichiaratamente responsabile di un errore processuale e quindi chiamato a risponderne professionalmente, deontologicamente e, sia pur nei limiti della condanna sancita ai sensi dell'art. 96 c.p.c., anche economicamente.

 Le nefaste conseguenze vengono solo in qualche modo mitigate in extremis dal tempestivo ed opportuno intervento congiunto del Curatore fallimentare e del G.D. della procedura fallimentare di riferimento. Il primo si determina ad acquisire rapidamente il parere del comitato dei creditori sulla possibilità di proporre al G.D. la rinuncia al credito derivante dalla condanna ex art. 96 c.p.c. in luogo di una sollecita corresponsione del solo importo liquidato a titolo di spese di giudizio.

Il Giudice delegato (dott.ssa Irene Lupo), con provvedimento del 7 febbraio 2015 assevera quella determinazione motivando laconicamente (ma significativamente) le sue ragioni con un personale giudizio sull'opinabilità del fondamento della decisione (“...rilevato che detta pronuncia ex art. 96 III com cpc appare fondata su un principio opinabile ritenendo l'obbligo dell'avvocato quello che potrebbe configurarsi come atto di cortesia...”), così chiudendo il cerchio dell'infelice provvedimento giudiziale.

fonte: www.quotidianogiuridico.it//PCT: l'omesso deposito della copia cartacea di cortesia "costa" all'avvocato 5.000 euro - Il Quotidiano Giuridico

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