Con la recente sentenza n. 9945, pubblicata in data 8 maggio 2014, la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla responsabilità del datore di lavoro per il danno alla salute arrecato al dipendente oberato da un eccessivo carico di lavoro.
Nel caso di specie, il lavoratore - deceduto per infarto del miocardio – aveva operato, negli ultimi mesi del suo rapporto di lavoro, in condizioni insostenibili di straordinario aggravio fisico e ritmi di lavoro; in particolare, il dipendente – con qualifica di quadro – aveva lavorato continuativamente per circa undici ore al giorno e spesso continuava a lavorare a casa sino a tarda sera. Inoltre, nel corso dell'istruttoria era emerso che al lavoratore erano stati affidati svariati e complessi progetti, con gestione diretta e senza l'affiancamento di collaboratori.
La difesa del datore di lavoro ha sostenuto che i ritmi di lavoro "serratissimi" erano imputabili ad una personale attitudine del dipendente a lavorare con grande impegno, coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi; inoltre, è stato dedotto che il datore di lavoro non era a conoscenza delle modalità con le quali il dipendente esplicava la sua attività lavorativa, fermo restando che quest'ultimo non aveva mai espresso alcuna doglianza o manifestato disagi fisici.
Inoltre, il datore di lavoro non aveva imposto l'osservanza di ritmi di lavoro usuranti, né – tantomeno - stabilito termini di consegna dei progetti o, comunque, sollecitato la definizione dei lavori in corso.
La Suprema Corte ha condiviso le argomentazioni della Corte di merito, secondo cui la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro è riconducibile al datore, il quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi sull'integrità fisica e morale dei lavoratori - che possano derivare dall'inadeguatezza del modello organizzativo – adducendo l'assenza di doglianze da parte del dipendente o, comunque, sostenendo di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate vengono in concreto svolte. Nel caso di specie, pur in assenza di sollecitazioni dirette, il lavoratore aveva dovuto conformare i propri ritmi di lavoro all'esigenza di realizzare lo smaltimento nei tempi richiesti dalla natura e molteplicità degli incarichi affidatigli. In particolare, dall'istruttoria era emerso che l'oggettiva gravosità del lavoro non era in alcun modo riconducibile ad iniziative volontarie del lavoratore di addossarsi compiti non richiesti e/o di svolgere gli incarichi con modalità non coerenti con la natura e l'oggetto degli stessi.
La Suprema Corte ha precisato, altresì, che l'affermazione del datore di lavoro - secondo cui il ritmo di lavoro elevato sarebbe dipeso dall'attitudine del dipendente a lavorare con grande impegno – deve ritenersi priva di fondamento logico e giuridico, in quanto gli effetti della conformazione della condotta lavorativa del dipendente agli obblighi di diligenza di cui all'art. 2104 cod. civ., coerentemente al livello di responsabilità proprio delle funzioni ricoperte ed in ragione del soddisfacimento delle ragioni dell'impresa, non può mai integrare una colpa del lavoratore.
Peraltro, la Suprema Corte aveva già affermato che i beni dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore tutelati dall'art. 2087 cod. civ. sono indisponibili, con la conseguenza che non esclude la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro il consenso dato dal dipendente alla prestazione di lavoro straordinario in misura usurante, ove la predetta prestazione abbia poi determinato l'insorgere di un danno alla salute (Cass. 8 marzo 2011, n. 5437).
Nella sentenza in esame la Suprema Corte ha ribadito l'orientamento secondo cui, sebbene l'art. 2087 non configuri un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ove il lavoratore abbia fornito la prova del danno e del nesso di causalità con l'ambiente e/o le condizioni di lavoro, spetta al datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Cass. 29 gennaio 2013, n. 2038).
Con particolare riferimento al nesso di causalità, si ricorda che la Suprema Corte ha recentemente rigettato la domanda risarcitoria svolta dagli eredi di un lavoratore deceduto a causa di infarto, rilevando che non poteva addebitarsi il decesso alla condotta tenuta dall'azienda, in quanto l'attività stressante era stata svolta per circa sei mesi ed era collocata temporalmente a distanza di circa due anni e mezzo dal momento in cui il lavoratore era stato colpito da infarto (Cass. 23 aprile 2014, n. 9200).
fonte: ilsole24ore.com//Dipendente 'stacanovista': risarcibile il danno alla salute
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sabato 24 maggio 2014
Dipendente 'stacanovista': risarcibile il danno alla salute
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