Nella difesa il figlio aveva sostenuto di essere soltanto nominalmente il proprietario dell’azienda per via del fatto che il padre già dichiarato fallito non poteva esserne l’intestatario pur essendo l’unico a lavoravi. Inoltre, egli era venuto a conoscenza per caso, e soltanto pochi mesi prima, che in una delle cinque serre si coltivavano piante di canapa indiana, e a quel punto sarebbe entrato in contrasto col padre.
Tutte ragioni in qualche modo date acquisite dall’ordinanza impugnata che tuttavia ha ritenuto comunque sussistenti i gravi indizi di colpevolezza perché «non è sufficiente, per escludere il concorso nel reato, affermare solo a parole che non si condividono le scelte illecite del genitore e litigare con lui”. Dal momento che in qualità di titolare dell’azienda agricola egli rivestiva “un ruolo di indubbia, oggettiva responsabilità, che implica … una evidente forma di agevolazione della stessa sotto il profilo dell’apporto non solo morale, ma anche logistico-fattuale».
Secondo la Suprema corte però siamo di fronte ad “una motivazione erronea” che “sembra avere inammissibilmente attribuito all’attuale ricorrente una sorta di responsabilità oggettiva”, oltre che un obbligo giuridico di denuncia del padre, “inesistenti nel nostro ordinamento”.
Non è poi spiegato in alcun modo, osservano ancora i giudici, in cosa sarebbe consistita l’agevolazione «logistica-fattuale» o il concorso anche soltanto morale, non essendo state “indicate concrete condotte addebitabili al ricorrente”.
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