No alla condanna per spaccio quando manca l’“accertamento tecnico” che permette di identificare la percentuale di principio attivo presente nella sostanza sequestrata, e dunque valutare il superamento della soglia di rilevanza penale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 44420/2013, accogliendo il ricorso di un uomo nella cui abitazione erano stati trovati “0,9 grammi lordi di una sostanza di tipo eroina”, condannato, con rito abbreviato, a otto mesi di reclusione e 2mila euro di multa.
Se è vero, osserva la Suprema corte, che il rito abbreviato “comporta la accettazione delle fonti e del materiale di prova presente nel fascicolo”, tuttavia, tale scelta processuale non può comportare “anche l’accettazione dell’accusa con riferimento a ciò che deve essere provato e alla conseguente decisione giudiziale”.
Secondo gli ermellini, dunque, bisogna distinguere tra quanto le indagini permetteno di ritenere ormai provato (e cioè il sequestro di una sostanza contenente eroina) e quanto invece risulta ancora da provare (la quantità di eroina).
E, infatti, la Corte chiarisce che “solo un accertamento tecnico specifico avrebbe consentito di quantificare la percentuale e la quantità di principio attivo effettivamente presente in ciascuna delle confezioni e nelle tre confezioni complessivamente considerate”. Mentre “la mancanza di detto accertamento rende impossibile affermare con certezza che il quantitativo modestissimo della sostanza sequestrata possieda livelli di principio attivo tali da avere concreti effetti stupefacenti e da comportare quelle possibili alterazioni dell’organismo che costituiscono l’offesa al bene protetto oggetto di sanzione penale”.
Dunque, “l’incertezza sulla offensività concreta della condotta fa venire meno una degli elementi costitutivi del reato contestato e genera un vuoto ricostruttivo non superabile in virtù del richiamo al rito adottato”.
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