mercoledì 28 agosto 2013

E’ commercialista solo sul biglietto da visita: condannato un consulente del lavoro

 E’ commercialista solo sul biglietto da visita: condannato un consulente del lavoro

La circostanza che materialmente il contratto di consulenza sia stato conferito alla società a lui riconducibile, non esclude l'esercizio abusivo della professione, posto che, da un canto proprio il titolo professionale era stato alla donna evocato all'atto del conferimento del mandato, né risulta in alcun modo dedotto che di fatto la società si servisse di professionisti abilitati al fine di svolgere le funzioni conferite dalla donna. Con la sentenza 18214/13 la Cassazione ha confermato la responsabilità penale riconosciuta dai giudici di merito.

Il caso
Una donna, rappresentante di una s.r.l., stipula un contratto con cui affida tutti gli adempimenti, fiscali e contabili della società ad un commercialista, o almeno presunto tale sulla base del biglietto da visita. Riceve poi una lettera anonima, in cui il falso commercialista viene smascherato: la donna presenta querela. L’uomo viene condannato per esercizio abusivo della professione, ma ricorre per cassazione contro le decisioni dei due gradi di merito. Sostiene innanzitutto di non essersi mai presentato con tale biglietto da visita, che sarebbe invece stato consegnato insieme alla lettera anonima. Afferma poi che nel contratto non sarebbe stato convenuto «lo svolgimento di attività riservate al commercialista, poiché oggetto dell'accordo era esclusivamente l'incarico di tenuta della contabilità, mentre non (sarebbe) stato dimostrato l'affidamento di ulteriori attività riservate». Pertanto si sarebbero dovuti applicare gli «approdi della giurisprudenza di legittimità in materia, in ragione dei quali si ritiene di escludere la configurabilità del reato nell'ipotesi di svolgimento da parte del consulente del lavoro di attività non riservate in via esclusiva ai commercialisti». La Suprema Corte ritiene correttamente provato che gli incarichi attribuiti dalla denunciante all’uomo «riguardassero tutti gli adempimenti, fiscali e contabili della società gestita dalla donna, attività il cui esercizio è riservato in via esclusiva alla competenza professionale di un commercialista, titolo prospettato in sede di conclusione del contratto», di cui l’imputato non è mai stato in possesso. E' irrilevante che il contratto sia riferito alla società per cui lavora. E’ del tutto irrilevante la circostanza per cui «materialmente il contratto di consulenza sia stato conferito alla società a lui riconducibile», poiché «da un canto proprio il titolo professionale era stato alla donna evocato all'atto del conferimento del mandato, né risulta in alcun modo dedotto che di fatto la società si servisse di professionisti abilitati al fine di svolgere le funzioni conferite dalla donna». Per tali ragioni la Corte conferma la condanna e respinge il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

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