È legittimo affidare un minore in via esclusiva al padre quando c’è una consulenza tecnica d’ufficio (Ctu) che riscontra «i segni di una Pas (Parental Alienation Syndrom), materna in danno del padre». Ciò perché non è necessario che si raggiunga la certezza scientifica dell’esistenza di tale sindrome: basta dimostrare l’inadeguatezza della madre a svolgere il proprio ruolo, nel quale è compreso anche il consentire alla prole di avere normali e significativi rapporti col padre. Lo ha stabilito la Prima sezione civile della Cassazione, con la sentenza n. 21215 (relatore Di Marzio), depositata il 13 settembre.
È stata così confermata la pronuncia della Corte d’appello di Napoli sul caso di una bambina contesa, fondata sulle evidenze della Ctu del primo grado e sulla successiva “conforme” relazione di aggiornamento, redatta da una psicologa della Asl.
La Cassazione ricorda che la Ctu svolta nel merito «per valutare le capacità genitoriali delle parti» ha evidenziato in capo alla madre «un tratto passivo aggressivo, alternando dei momenti in cui si percepisce vittima a momenti in cui perseguita lei stessa» l’ex marito. Inoltre, secondo gli specialisti, la donna «percepisce pericoli incombenti da cui difendersi», ha «una spinta sado-masochistica con tendenza al vittimismo», «tende a definire lei il ruolo paterno» e «durante i colloqui mostra un atteggiamento svalutante nei confronti del padre».
Tale analisi veniva poi corroborata dalla relazione di osservazione della bambina che «in presenza della madre, si disperava dicendo di non voler andare con il padre ma, non appena la genitrice si allontanava, subito si rasserenava, confortata dall’affettuosità paterna». La successiva relazione, disposta dalla Corte d’appello e affidata ad una psicologa Asl, non faceva altro che completare il quadro di un fare genitoriale materno inadeguato: «La bambina non esprime mai un proprio reale bisogno, ma solo il piacere di compiacere la madre, nonché una coatta e forzosa ostilità verso il padre». Così nella piccola è stata rilevata «una personalità appiattita e fortemente dipendente dalla madre». Quest’ultima infatti «non le riconosce il diritto di amare il suo papà ed in maniera consapevole od inconsapevole, agisce con il ricatto morale nei confronti della figlia, al fine di realizzare il proprio progetto di vita con il proprio attuale convivente». Tutto ciò portava la psicologa a concludere che non c’erano le condizioni per intraprendere un «favorevole percorso terapeutico al fine di agevolare la ripresa dei contatti della bambina con il padre, senza prima risolvere il nodo negativo, che legava questa alla madre».
Tali conclusioni ritenute dai giudici di appello condivisibili hanno portato all’affidamento temporaneo della piccola ad una “zia” e poi «all’affidamento esclusivo della minore al padre, disponendo che gli incontri con la madre avvengano in modalità protetta». Il tutto per spezzare il vincolo simbiotico della figlia con la madre, consentendo alla bambina di recuperare in un primo momento (con l’affido temporaneo) un proprio spazio di equilibrio e poi di recuperare appieno il contributo della responsabilità paterna con l’affido esclusivo al padre. Senza peraltro interrompere i momenti di incontro con la figura materna, che correttamente sono stati disposti con la formula degli incontri vigilati da un operatore, così da escludere il ri-presentarsi dei comportamenti dannosi ed antigiuridici della madre.
Il ricorso contro la sentenza di appello si basava sul fatto che «risulta indimostrata l’attendibilità scientifica» della Pas. Ma secondo la Cassazione il ricorso non coglie il fatto che i giudici di appello non hanno fatto riferimento a una patologia, ma si sono limitati a osservare «l’adeguatezza di una madre a svolgere il proprio ruolo nei confronti di una figlia minore, che si trova in grave difficoltà ed avrebbe bisogno del sostegno di entrambi i genitori, ma non riceve la collaborazione della madre, in base alle univoche risultanze di causa». E invece la madre «ha cercato di esautorare il padre della piccola e di sostituirlo nello svolgimento del ruolo paterno con la figura del compagno convivente», mostrandosi indisponibile a qualsiasi tentativo di sostegno e di recupero. Così è stato radicalmente violato, si rammenta, il principio di legge - cardine della materia - secondo cui ai figli va assicurato il godimento delle figure di entrambi i genitori.
La Cassazione ha respinto il ricorso anche sotto l’aspetto procedurale, per la mancanza dei «precisi canoni di contestazione» che regolano il processo del merito. In particolare, la Suprema Corte ha ribadito il principio della “intempestività” delle doglianze contro la Ctu, che doveva essere formalizzata nella prima difesa utile dopo il deposito dell’elaborato peritale. Infatti, «le contestazioni ad una Ctu costituiscono “eccezioni” rispetto al suo contenuto, sicché sono soggette al termine di preclusione di cui al secondo comma dell’articolo 157 del Codice di procedura civile, dovendo pertanto dedursi – a pena di decadenza – nella prima istanza utile o difesa successiva al deposito».
fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato
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mercoledì 20 settembre 2017
Minori, affido esclusivo al padre se la madre è inadeguata
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