Con questa recente pronuncia la Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata ad occuparsi, nell’ambito degli obblighi positivi scaturenti dall’art. 2 della Convenzione, di responsabilità delle autorità pubbliche per la morte di soggetti sottoposti alla loro sfera di controllo, ed in particolare dei criteri di imputazione della responsabilità medica per la morte del paziente psichiatrico.
Nel caso di specie la ricorrente, in seguito al suicidio del figlio avvenuto mentre questi si trovava ricoverato in regime di trattamento sanitario obbligatorio, si rivolge alla Corte di Strasburgo per vedere riconosciuta la violazione sostanziale dell’art. 2 della Convenzione da parte dell’Austria, ritenuta responsabile per la condotta negligente dello staff ospedaliero che avrebbe permesso il verificarsi del tragico evento.
Ancorché abbia per oggetto fatti che, in sede domestica, hanno coinvolto il solo giudizio civile, la sentenza assume una certa rilevanza anche nell’ambito del diritto penale italiano, laddove giurisprudenza e dottrina sono da tempo alla ricerca degli indici fattuali da prendere in considerazione nel vagliare la responsabilità dello psichiatra per il suicidio del paziente.
Questi i fatti. Nell’aprile 2010 un tribunale distrettuale austriaco aveva stabilito che il figlio della ricorrente venisse sottoposto a ricovero coatto in una struttura psichiatrica pubblica: al soggetto, infatti, era stata contestualmente diagnosticata una grave forma di schizofrenia paranoide, che lo rendeva pericoloso per sé e per gli altri.
Dopo una prima fase di rifiuto della malattia e della conseguente cura, il paziente era diventato più collaborativo, iniziando ad assumere spontaneamente i farmaci prescritti e mostrandosi in generale più docile; questo apparente miglioramento determinava i medici nella scelta di concedere al soggetto una maggiore libertà di movimento, come parte del suo percorso terapeutico – e ciò nonostante che si fosse da poco reso protagonista di un tentativo di fuga dall’ospedale. Tuttavia, durante una delle passeggiate intorno alla struttura autorizzate dai medici, il paziente si era allontanato, finendo poi per togliersi la vita gettandosi sui binari della metropolitana.
La madre, quindi, chiamava in giudizio la città di Vienna, quale autorità responsabile dell’ospedale, chiedendo un risarcimento per la morte del figlio, secondo l’attrice dovuta alla negligenza dello staff ospedaliero: alla luce della precaria condizione mentale del figlio, oltre che dei suoi precedenti tentativi di fuga, questi avrebbe dovuto essere ristretto nei movimenti e attentamente supervisionato da medici e infermieri, dal momento che il contratto alla base del suo ricovero prevedeva obblighi di protezione e cura.
Dal canto suo, l’autorità convenuta asseriva che lo staff ospedaliero aveva pienamente adempiuto all’obbligo di diligenza dovuta: il paziente non aveva infatti mai dato segno di intenzioni suicidarie, mostrandosi anzi sempre più incline a sottostare alla terapia; per questo motivo i medici avevano deciso di concedergli una maggiore libertà – in linea con le più recenti direttive psichiatriche, laddove viene indicato che la restrizione dei movimenti debba essere circoscritta ai soli casi “di assoluta necessità ed entro i confini della proporzionalità”.
La Corte di primo grado accoglieva la richiesta di risarcimento, ritenendo la città di Vienna responsabile per il comportamento negligente dello staff medico: il suicidio del paziente sarebbe avvenuto come conseguenza della sovrastimolazione alla quale il soggetto, ritrovatosi in un ambiente esterno all’ospedale, era stato esposto; situazione che i medici avrebbero dovuto impedire, assicurandosi che il paziente rispettasse le restrizioni alla sua libertà di movimento o, comunque, supervisionandone le passeggiate. Inoltre, se anche il soggetto sembrava non rappresentare più un pericolo per se stesso, cionondimeno continuava a costituirlo per gli altri; proprio per questo motivo, per altro, il suo ricovero forzato continuava a risultare legittimo e doveroso.
In secondo grado, tuttavia, la Corte accoglieva l’appello della Città di Vienna, ritenendo che non vi fosse alcun nesso causale tra l’inaspettato suicidio del paziente psichiatrico e la supposta violazione del dovere di supervisione dell’ospedale: il soggetto non aveva dato motivo di essere ritenuto un pericolo per se stesso; il suicidio, quindi, non poteva essere attribuito alla responsabilità dell’ospedale, non essendo stato in alcun modo prevedibile.
Questa decisione veniva, infine, confermata dalla Corte Suprema, che nelle sue motivazioni si sofferma, in particolare, sulla necessità di assicurare al paziente psichiatrico la massima libertà di movimento possibile – sia per garantirne una più rapida guarigione, sia nell’ottica di tutela degli stessi art. 3 e 5 della Convenzione.
Esauriti i rimedi interni, la madre del paziente adiva la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione, da parte dell’Austria, dell’art. 2 della Convenzione, per avere omesso di proteggere la vita di suo figlio, malato mentalmente e sottoposto coattivamente alle cure della sanità pubblica. In particolare, la donna rilevava che la persistenza del regime di ricovero coattivo si giustificava proprio sulla base della permanente situazione di pericolosità per sé e per i terzi del paziente, e della conseguente necessità di “assicurare la protezione della vita e dell’incolumità della persona ricoverata e di terze parti”, protezione in concreto non assicurata nel caso di specie.
Secondo il governo austriaco, invece, l’approccio terapeutico in concreto prescelto doveva considerarsi in linea con le più recenti direttive mediche a livello europeo: il ricovero di tipo “aperto”, comprendente anche passeggiate senza accompagnatore, permetterebbe, infatti, un più rapido recupero del paziente psichiatrico, consentendone, al contempo, un suo graduale reinserimento nella società.
La Corte ribadisce anzitutto la sussistenza di obblighi positivi scaturenti dalla prima parte dell’art. 2: lo Stato non viene chiamato solo a non uccidere, ma anche ad “adottare le misure adeguate per salvaguardare le vite dei soggetti sotto la sua giurisdizione”. E il rispetto di questo principio, sottolinea la Corte, deve essere assicurato anche nella sfera della sanità pubblica: in particolare, lo Stato deve garantire ai pazienti psichiatrici sottoposti a ricovero coatto un’adeguata protezione, soprattutto in considerazione della loro “particolare vulnerabilità”.
Altro principio generale richiamato dalla Corte riguarda eventuali “misure di protezione preventive” che lo Stato è tenuto a prendere, in determinati casi, per proteggere un soggetto da altri o da se stesso. In questa seconda ipotesi, la giurisprudenza di Strasburgo si muove nella direzione di ritenere che questi obblighi sorgano solo laddove sia provato che “le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere che la persona in questione correva un reale ed imminente rischio per la sua vita” e, ciononostante, non hanno assunto le misure da considerarsi ragionevoli per neutralizzare tale rischio.
Nel caso di specie, la Corte rileva che non vi era controversia tra le parti circa la legittimità del ricovero forzato del soggetto e circa il fatto che al momento del suo decesso il provvedimento fosse ancora in vigore. A divergere nelle prospettazioni delle parti sono, piuttosto, la prevedibilità o meno del suicidio del paziente e l’esistenza di un eventuale onere, gravante sull’ospedale, di impedirne la verificazione attraverso una più stringente restrizione della libertà di movimento del soggetto.
A tal proposito, la Corte osserva come, stando alla ricostruzione dei fatti effettuata dalle corti domestiche, tanto lo stato di salute mentale del figlio della ricorrente quanto il suo atteggiamento nei confronti della terapia da qualche tempo sembravano essere considerevolmente migliorati, sì da spingere lo staff medico a ritenere non solo opportuno, ma addirittura necessario estenderne la libertà di movimento – anche per facilitare il graduale reinserimento in società del soggetto. Come accertato in sede giudiziaria nazionale, al momento della fuga fatale, infatti, il paziente non sembrava più rappresentare un pericolo per se stesso. Queste ricostruzioni sono ritenute dalla Corte di Strasburgo “esaurienti, pertinenti e convincenti, oltre che in linea con la propria giurisprudenza in materia”. In particolare, nessun segnale di rischio suicidario era mai stato manifestato dal soggetto durante la sua permanenza nell’ospedale psichiatrico, tanto che una sua ulteriore restrizione nel reparto chiuso sarebbe stata illegittima; i medici, quindi, non avevano alcuna ragione di sospettare che il paziente fosse incline al suicidio. Esclusa la prevedibilità dell’evento, dunque, viene esclusa anche la conseguente responsabilità dell’ospedale e, di conseguenza, dello Stato austriaco.
D’altra parte, la Corte osserva come la scelta dello staff ospedaliero di autorizzare il paziente a qualche passeggiata non supervisionata non possa essere considerata sintomo di negligenza, atteso che il suo stato mentale era migliorato; anche a livello internazionale, l’approccio alla cura delle malattie mentali prevede di concedere la massima libertà possibile ai pazienti, in modo facilitarne il reinserimento nella società. Anche dalla prospettiva della Convenzione, resta auspicabile assicurare un’ampia libertà ai malati, così da preservarne nel miglior modo possibile la dignità ed il diritto di autodeterminazione. In altre parole, è sempre necessario operare un bilanciamento tra i possibili vantaggi derivanti dall’applicazione di una terapia “aperta” e gli eventuali svantaggi di un simile approccio – quali il rischio di fuga del paziente o, peggio, qualche gesto autolesionista.
Per tali ragioni, la Corte nega una qualsivoglia violazione sostanziale dell’art. 2 imputabile all’Austria, ritenendo fondate le argomentazioni dalla Corte Suprema austriaca: una più severa restrizione della libertà di movimento del figlio della ricorrente si sarebbe essa stessa scontrata con le esigenze di tutela degli artt. 3, 5 e 8 della Convenzione.
Parimenti, viene esclusa un’eventuale violazione dell’art. 2 nel suo versante processuale, posto che nessun rimprovero può essere mosso alle corti domestiche riguardo allo svolgimento di adeguate indagini.
La sentenza in commento fornisce preziose indicazioni anche al penalista italiano, in relazione alla spinosa questione della responsabilità dello psichiatra per il suicidio del paziente.
Parte delle complessità in materia sorgono dal fatto che in questo tipo di responsabilità la determinazione dei presupposti della posizione di garanzia coincide con la stessa definizione delle regole cautelari cui il medico avrebbe dovuto attenersi, nel senso che in queste ultime devono ritrovarsi i limiti della prima: come si è perspicuamente osservato in dottrina, “ogni qual volta il medico si sia attenuto al dovere oggettivo di diligenza ricavato dalla regola cautelare – e quindi l’evento avverso non sia a lui rimproverabile – viene a mancare, già a monte, un’omissione penalmente rilevante, non trovandoci al cospetto di una azione doverosa inosservata”.
In questo quadro, carico di incertezze, l’operatore giuridico è chiamato ad operare un bilanciamento tra due valori che talvolta, purtroppo, finiscono per scontrarsi: da una parte, il corretto svolgimento dell’attività psichiatrica, dove – come in generale nella ars medica, e forse non a torto – mancano precise linee guida che dettino puntualmente le doverose cautele; dall’altra, la protezione della vita, e prima ancora dell’incolumità, del paziente sottoposto alle cure mediche. Ma la doverosa tutela (discendente anche dallo stesso art. 2 Cedu) di questi ultimi beni, d’altro canto, deve fare i conti con il rispetto di altri valori costituzionalmente protetti, quali la libertà, l’autonomia e la dignità del paziente. E, dunque, la partita non potrà che giocarsi, caso per caso, sul filo della corretta ricostruzione delle regole cautelari che vincolano il medico: in quest’ottica, dunque, ben potranno venire in soccorso del penalista italiano le considerazioni svolte dalla Corte di Strasburgo circa la necessità di riscontrare, in capo allo psichiatra, una concreta prevedibilità dell’evento suicidario e, al contempo, di riconoscere l’evoluzione della scienza psichiatrica verso un approccio terapeutico di tipo “aperto”, nel quale la restrizione della libertà del paziente – anche se sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio – sia relegata davvero ad extrema ratio.
Fonte: www.penalecontemporaneo.it/DPC | La Corte di Strasburgo in materia di responsabilità del medico per ...
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martedì 17 gennaio 2017
La Corte di Strasburgo in materia di responsabilità del medico per il suicidio del paziente psichiatrico
Lo Studio Legale Mancino si occupa di tutte le fasi dell'assistenza legale in sede penale, sia per la difesa delle persone sottoposte a procedimento, sia per la tutela delle vittime di reato come parti civili. Lo Studio opera anche in tutti gli ambiti del diritto civile, dalla contrattualistica, al diritto di famiglia, separazioni e divorzi, successioni, diritti reali, assicurazioni e responsabilità civile, diritto bancario, nonché nel settore del diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali. L'Avv. Emiliano Mancino è abilitato alla difesa di fronte alla Corte di Cassazione. E' iscritto alle liste per il patrocinio a spese dello Stato. Lo Studio è a disposizione dei Colleghi che hanno necessità di collaborazione e/o di domiciliazione per tutti gli uffici giudiziari compresi nelle circoscrizioni dei Tribunali di Ferrara e Bologna.
Dal 2018 l’Avv. Emiliano Mancino aderisce al progetto Difesa Legittima Sicura, una rete di professionisti sul territorio nazionale che dà tutela legale a chiunque sia vittima di violenza.
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