È nullo, perché discriminatorio, il licenziamento determinato dal rifiuto della lavoratrice di sottostare alle molestie sessuali del proprio datore di lavoro, con applicazione del particolare regime probatorio presuntivo previsto dall’art. 40 d.lgs. 198/2006 per le discriminazioni.
È quanto ha stabilito la Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza in esame.
Nello specifico, il datore di lavoro lamentava, in sede di legittimità, la violazione e falsa applicazione degli artt. 26 e 40 d.lgs. 198/2006, per avere la sentenza impugnata ritenuto che alle molestie sessuali di cui all’art. 26, a lui ascritte, si applicasse il regime probatorio dell’art. 40, secondo cui "quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione".
In sostanza, per il ricorrente l’assimilazione delle molestie alle discriminazioni non comprende anche l’applicazione del particolare regime probatorio previsto dall’art. 40, ossia il trattamento differenziale.
La Corte ha confermato che l’equiparazione tra molestie sessuali e discriminazioni “poco si presta, per mancanza del trattamento differenziale, a riflettersi anche sul piano della ripartizione dell’onere della prova”.
Tuttavia, ha osservato che se le discriminazioni (di varia natura) “ben possono emergere dal tertium comparationis costituito dal trattamento positivamente praticato rispetto ad altre categorie di lavoratori”, in caso di molestie sessuali ai danni della lavoratrice “il tertium comparationis non è che non esista del tutto, ma è costituito da un trattamento differenziale negativo (ossia il non avere i lavoratori maschi patito molestie sessuali) che ha una valenza presuntiva logicamente minore”.
Ma tale considerazione non può inficiare la doverosa applicazione della regola probatoria di cui all’art. 40, essenzialmente perché il legislatore non ha ritenuto di dover limitare, ridimensionare, o diversamente puntualizzare all’art. 40 l’equiparazione operata all’art. 26 comma 2 d.lgs. 198/2006 (e in tal senso militano anche l’art. 19 dir. 2006/54/CE, l’art. 10 dir. 2000/78/CE e la sentenza della Corte di Giustizia 17.7.08, C-303/06, Coleman).
In conclusione, "la doverosità di una esegesi conforme alla normativa euro-unitaria, come interpretata dalla Corte di Giustizia, impone di ritenere estesa l’equiparazione delle molestie sessuali alle discriminazioni di genere anche in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio”.
Nella fattispecie, pertanto, correttamente i giudici del merito hanno ravvisato la prova presuntiva delle molestie sessuali nelle plurime deposizioni offerte da giovani lavoratrici (che hanno riferito di molestie a loro danno, di analoga natura, subito dopo l’assunzione), e nell’esasperato turn over tra le giovani dipendenti (che dopo un breve periodo di lavoro si dimettevano senza apparente ragione).
Fonte: www.altalex.com/Molestie sul lavoro: l’onere della prova si inverte se la molestia è presumibile in base ai “fatti” | Altalex
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venerdì 9 dicembre 2016
Molestie sul lavoro: l’onere della prova si inverte se la molestia è presumibile in base ai “fatti”
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