Con la sentenza n. 30465 del 15 luglio 2015 la terza sezione della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in merito all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 600-ter c.p. c. 3 (pornografia minorile) ai sensi del quale “chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui al primo e al secondo comma, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza il materiale pornografico di cui al primo comma, ovvero distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645“.
Come già evidenziato da una serie di pronunce, affinché sussista il dolo del reato di cui all’art. 600-ter c.p., comma 3, occorre provare che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing (v. tra le varie pronunce conformi, Sez. 3, Sentenza n. 47820/2013).
L’art. 600 ter c.p., comma 3 – continua la Corte – punisce, tra l’altro, chiunque “con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza” il materiale pedopornografico.
Si tratta, nei singoli casi concreti, di questione interpretativa abbastanza delicata, perchè il sistema dovrebbe essere razionalmente ricostruito giungendo a soluzioni che tengano conto delle effettive caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo di programmi del genere da parte della massa degli utenti e che, nello stesso tempo, soddisfino l’esigenza di contrastare efficacemente una assai grave e pericolosa attività illecita, quale la diffusione di materiale pornografico minorile, cercando però di evitare di coinvolgere soggetti che possono essere in piena buona fede o che comunque possono non avere avuto nessuna volontà o addirittura consapevolezza di diffondere materiale illecito soltanto perchè stanno utilizzando questi (e non altri) programmi di condivisione, e cercando altresì di evitare che si determini di fatto la scomparsa di programmi del genere.
Del resto, le due suddette esigenze ben possono essere entrambe soddisfatte perchè, con indagini adeguate, è possibile accertare chi stia davvero agendo col dolo di diffondere e non solo con quello di acquisire e con la consapevolezza del vero contenuto dei file detenuti.
Una diversa interpretazione – concludono i giudici – secondo cui la semplice volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma tipo Emule o simili, implicherebbe, di per se stessa e senza altri elementi di riscontro, sempre e necessariamente anche la volontà di diffonderlo (solo in considerazione delle modalità di funzionamento del programma e del fatto che questo permette l’upload anche senza alcun intervento di un soggetto che concretamente metta il file in condivisione), porterebbe a configurare una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto sta usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diversi (cfr. Sez. 3, 12 gennaio 2010, n. 11082; Sez. 3, 7 novembre 2008, n. 11169).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto provata la sussistenza del reato di diffusione di materiale pedopornografico esclusivamente in considerazione del tipo di software utilizzato, ma un tale percorso argomentativo, che appare fondato esclusivamente sul dato quantitativo dei file scaricati e sull’utilizzo dello specifico programma di file sharing denominato Emule non appare corretto nè esauriente, perchè avrebbe dovuto essere completato dandosi conto dei necessari accertamenti tesi a verificare se la condotta e volontà dell’imputato fossero di semplice approvvigionamento o piuttosto quelle di diffondere o divulgare a terzi il materiale pedopornografico che in precedenza il soggetto, con autonomo comportamento, si era procurato o aveva creato (ad esempio, non limitandosi a lasciarli nella cartella iniziale di arrivo (“incoming”), ma selezionando i file scaricati e copiandoli in apposita cartella di condivisione personalizzata: cfr. Sez. F, Sentenza n. 46305 del 07/08/2014 Ud. dep. 10/11/2014 Rv. 261045).
Questo, in conclusione, il principio di diritto affermato:
L’elemento soggettivo del reato di divulgazione o diffusione di materiale pedopornografico presuppone che sia provato che il soggetto abbia avuto non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici ed ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing.
Fonte: www.giurisprudenzapenale.com//Divulgazione di materiale pedopornografico (art. 600-ter c.p.): non basta la volontà di procurarsi il file illecito : Giurisprudenza penale
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venerdì 31 luglio 2015
Divulgazione di materiale pedopornografico (art. 600-ter c.p.): non basta la volontà di procurarsi il file illecito
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