Ai fini della configurazione della responsabilità civile conseguente ad un illegittimo trattamento di dati personali l’individualità della persona offesa o di cui sono stati resi pubblici dati sensibili non ne postula l’esplicita indicazione del nominativo, essendo sufficiente che essa possa venire individuata anche per esclusione in via deduttiva, tra una categoria di persone, a nulla rilevando che in concreto tale individuazione avvenga nell’ambito di un ristretto numero di persone.
La sentenza della Suprema Corte, III sez. civile, n. 1608/2014 affronta il delicato argomento del risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto alla riservatezza, danno che non è da intendere meramente patrimoniale, ma morale ed esistenziale.
Come è noto, difatti, l’art. 15 del Codice per la protezione dei dati personali disciplina il tema della responsabilità civile per i danni procurati dal trattamento di dati personali e nello specifico già la Direttiva 95/46/CE dedica all’argomento della responsabilità l’art. 23 il quale sancisce che “Gli Stati membri dispongono che chiunque subisca un danno cagionato da un trattamento illecito o da qualsiasi altro atto incompatibile con le disposizioni nazionali di attuazione della presente direttiva abbia il diritto di ottenere il risarcimento del pregiudizio subito dal responsabile del trattamento”. Inoltre specifica al 2° comma che “il responsabile del trattamento può essere esonerato in tutto o in parte da tale responsabilità se prova che l’evento dannoso non gli è imputabile”.
Quindi in base a quanto prescritto dall'art. 15 chi ritiene di essere stato leso a seguito dell'attività di trattamento dei dati personali che lo riguardano può ottenere, in sede giudiziaria, il risarcimento dei danni senza dover provare la "colpa" del titolare che ha trattato i suoi dati. Resta ovviamente a carico dell'interessato l'onere di provare eventuali danni derivanti dal trattamento dei dati.
Tanto in sede comunitaria quanto in quella nazionale, è stato ben chiaro che i rischi maggiori sono connessi all’uso “tecnologico” dei dati, ma, valutato che l’angolo visuale è, in ultima analisi, il valore della riservatezza e dei diritti della personalità, è prevalsa la posizione che la tutela della privacy debba estendersi a tutte le specie di dati personali. Certo, non può negarsi che la prevalente portata dell’art. 15 è da ricondurre al trattamento automatizzato dei dati.
Il 2° comma della disposizione in esame riprende l’annosa questione relativa alla categoria del danno non patrimoniale. È noto, difatti, come frequenti dispute dottrinali e giurisprudenziali abbiano riguardato la nozione in sè di “danno non patrimoniale”. Secondo taluni essa viene a coincidere con la sofferenza psico-fisica del soggetto e meglio vi si attaglia la definizione di danno morale (SCOGNAMIGLIO), ma non manca chi tende a circoscrivere nell’area del danno morale i pregiudizi non suscettibili di valutazione economica mediante criteri obiettivi (BUSNELLI). Non bisogna dimenticare, inoltre, un altro indirizzo dottrinale che determina, in negativo, la figura del danno non patrimoniale, facendola coincidere con una serie di fenomeni eterogenei accomunati dalla non patrimonialità dell’interesse leso o dalla non valutabilità in denaro della lesione (DE CUPIS).
Da un punto di vista giurisprudenziale si ricorda che più volte la Suprema Corte ha chiarito che il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile "esistenziale", e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili; nè tale conclusione contrasta col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, giacché quel principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti (v. Cass. n. 20292/2012).
Ad ogni modo è plausibile, comunque, affermare che l’art. 15 del Codice finisce per contenere una sorta di principio di “indemnisation integrale del danno non patrimoniale da trattamento dei dati personali”. Invero, è difficile scorgere una fattispecie che resti fuori dalla previsione dell’art. 11 e, dunque, non rilevi, ai fini riparatori, come violazione di detto articolo.
Nel caso di specie, in particolare, una mamma ed un figlio lamentano la straordinaria e devastante esplosione mediatica di un articolo giornalistico, che pur non riportando i loro nomi evidenziava una serie di particolari che avevano permesso ad un nutrito pubblico la concreta individuazione. In considerazione, quindi, del grave disagio arrecato ai soggetti offesi, la Corte di Cassazione ha condannato il direttore e l’editore del giornale al risarcimento dei danni morali ed esistenziali a favore sia della mamma che del figlio minore.
Nella motivazione della sentenza la Suprema Corte sottolinea che l’individualità della persona offesa o di cui sono stati resi pubblici dati sensibili non ne postula l’esplicita indicazione del nominativo, essendo sufficiente che essa possa venire individuata anche per esclusione in via deduttiva, tra una categoria di persone, a nulla rilevando che in concreto tale individuazione avvenga nell’ambito di un ristretto numero di persone. D’altro canto, sostiene l’organo giudicante, che negare l’applicazione della normativa citata alle ipotesi di persona immediatamente riconoscibile pur in assenza delle indicazioni delle generalità, equivale a negare concreta efficacia alla normativa stessa e a renderla agevolmente aggirabile.
fonte: Altalex.com/Privacy violata: casi in cui sono configurabili danno morale ed esistenziale
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lunedì 24 febbraio 2014
Privacy violata: casi in cui sono configurabili danno morale ed esistenziale
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