L'uomo, infatti, era stato accusato di aver registrato brani di conversazione di numerosi suoi colleghi senza che questi ne fossero a conoscenza, violando dunque il loro diritto alla riservatezza, per poi utilizzarli in sede giudiziaria, a supporto di una denuncia per mobbing che egli stesso aveva presentato nei confronti del primario.
I giudici del merito, il Tribunale e la Corte d'Appello di Torino, avevano confermato il licenziamento, rilevando che la condotta tenuta dall'uomo integrasse «gli estremi della giusta causa di recesso in conseguenza della irrimediabile lesione del vincolo fiduciario con la parte datoriale».
Il dipendente, quindi, aveva presentato ricorso in Cassazione, che però ha confermato le motivazioni dei giudici di merito. Le risultanze processuali hanno dato conto, si legge nella sentenza depositata oggi, di un «comportamento tale da integrare una evidente violazione del diritto alla riservatezza dei suoi colleghi, avendo registrato e diffuso le loro conversazioni intrattenute in ambito strettamente lavorativo alla presenza del primario ed anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o nei locali di comune frequentazione, utilizzandole strumentalmente per una denunzia di mobbing rivelatasi, tra l'altro, infondata». Da ciò é conseguito «un clima di mancanza di fiducia - conclude la Corte - indispensabile per il miglior livello di assistenza e, quindi, funzionale alla qualità del servizio, il tutto con grave ed irreparabile compromissione anche del rapporto fiduciario» tra il dipendente e l'azienda.
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