Il comportamento della madre che minaccia il figlio al fine di costringerlo a rimettere la querela presentata nei suoi confronti dal padre - poi defunto -del ragazzo, è configurabile come tentata violenza privata continuata. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza 37324/13.
Il caso
Una madre è stata condannata per il reato di tentata violenza privata continuata. Secondo l’accusa, al fine di costringere il figlio a rimettere la querela presentata nei suoi confronti dal padre del ragazzo – poi defunto -, aveva minacciato di separarlo dalla nonna paterna, con cui il ragazzo conviveva da tempo e con cui aveva stabilito un significativo rapporto affettivo, ritrovando, così, uno spazio di vita funzionale alla sua serenità. Contro la decisione di condanna, la donna ha presentato ricorso, deducendo che non può essere considerata minaccia la prospettazione della madre di allontanare il figlio dalla nonna al fine di ricondurlo a vivere con lei, come consentito dall’esercizio della potestà genitoriale. Con una seconda censura, invece, la ricorrente ha affermato la inidoneità della condotta al raggiungimento dello scopo, e quindi al perfezionamento del reato, giacché la volontà del minore avrebbe comunque dovuto essere integrata da quella di un tutore. Per la Suprema Corte il ricorso è infondato. La potestà genitoriale non è di natura padronale. Infatti, gli Ermellini hanno affermato che è vero che la potestà genitoriale comprende la facoltà di stabilire in quale ambito debba vivere il figlio, ma tale facoltà non può essere esercitata in contrasto con le aspirazioni del figlio, tantomeno per costringerlo a comportamenti funzionali alla soddisfazione di interessi – morali ed economici – del genitore e allo stesso tempo contrastanti con quelli, della stessa natura, del figlio. Nella specie, per Piazza Cavour, il minore ha subito forti pressioni dall’imputata, non per migliorare la condizione del minore o per recuperare il rapporto con lui, ma per ottenere comportamenti che soddisfacevano il suo esclusivo interesse personale (contrastante con quello del figlio). Relativamente al secondo motivo di ricorso, per il S.C., il fatto che la rimessione della querela, operata dal minore, fosse soggetta ad «approvazione» del rappresentante (art. 153 c.p.) non elide la capacità offensiva della condotta, giacché nessun «rappresentante» avrebbe potuto fare a meno di tener conto del volere del ragazzo, «con la conseguenza che, seppur la volontà di quest’ultimo non è, da sola, sufficiente a produrre l’effetto remissorio, è tuttavia sufficiente a innescare il meccanismo funzionale alla remissione». Pertanto, per i giudici di legittimità, «è di tutta evidenza che l’evento dannoso o pericoloso, di cui all’art. 49 c.p., non era affatto impossibile» in conseguenza dell’azione della madre.
Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Minaccia il figlio di non fargli vedere la nonna: madre punibile
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martedì 1 ottobre 2013
Minaccia il figlio di non fargli vedere la nonna: madre punibile
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