Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 29 marzo 2021 n. 2631, ha deciso una vicenda che vede come protagonista Facebook (per l’esattezza, Facebook Inc e Facebook Ireland Ltd) pesantemente sanzionato, nel 2018, dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato per pratiche commerciali scorrette. I giudici amministrativi confermano il provvedimento sanzionatorio solo in relazione alla pratica commerciale ingannevole. Infatti, il social, al momento dell’attivazione dell’account, informa l’utente solo della gratuità dell’iscrizione, ma non che i dati personali ceduti vengano usati a fini commerciali, per la cosiddetta profilazione. Secondo, l’AGCM, la cessione dei dati integra una controprestazione, atteso che il 98% del fatturato della società deriva dalla pubblicità on line basata proprio sulla profilazione degli utenti.
La decisione è lunga e articolata, per brevità espositiva, si commentano solo i passaggi più rilevanti.
La vicenda
L’AGCM (Autorità garante della concorrenza e del mercato), nel 2018, condannava Facebook Inc e Facebook Ireland Ltd (di seguito, per brevità, solo Facebook) per pratica ingannevole e per pratica aggressiva, irrogando due sanzioni amministrative pecuniarie di 5 milioni di euro ciascuna. Inoltre, ingiungeva a Facebook di pubblicare una dichiarazione rettificativa. Avverso tale provvedimento, Facebook proponeva ricorso al TAR Lazio, il quale accoglieva parzialmente le doglianze della società e annullava uno dei due provvedimenti sanzionatori. Infatti, non veniva riconosciuta la sussistenza della pratica aggressiva, mentre era confermata quella ingannevole. La sentenza viene impugnata sia da Facebook che dall’AGCM e si giunge, così, al Consiglio di Stato.
Premessa: cosa sono le pratiche commerciali scorrette
Le pratiche commerciali sono i comportamenti posti in essere dai professionisti in ordine alla promozione, vendita o fornitura di beni o servizi ai consumatori.
L’art. 20 Codice del Consumo considera scorretta una pratica se:
- è contraria alla diligenza professionale,
- è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio.
Quanto sopra, si riferisce alla nozione generale di pratica scorretta, che si declina in due ulteriori categorie:
- le pratiche ingannevoli (art. 21 e 22 Codice del Consumo),
- le pratiche aggressive (art. 24 e 25 Codice del Consumo).
Esistono, poi, le liste nere, ossia una serie di pratiche commerciali considerate ingannevoli e aggressive, in ogni caso (art. 23 e 26, art. 21 c. 3 e 4, 22 bis).
Le pratiche scorrette contestate a Facebook
L’AGCM contesta a Facebook due distinte pratiche commerciali scorrette:
pratica ingannevole in violazione degli artt. 20, 21, 22 del Codice del Consumo
pratica aggressiva in violazione degli artt. 20, 24, 25 del Codice del Consumo
Viene, quindi, applicata la disciplina consumeristica (d.lgs. 206/2005), a mente della quale Facebook riveste il ruolo di professionista, mentre l’utente del sito è il consumatore.
La pratica ingannevole, secondo l’Autorità, consiste nel fatto che il professionista (Facebook) non informi subito l’utente che i suoi dati sono raccolti e utilizzati per finalità informative e/o commerciali. In buona sostanza, in fase di attivazione dell’account, l’utente viene reso consapevole solo della gratuità del servizio (ossia che registrarsi a Facebook è gratis), in tal modo viene indotto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
La pratica aggressiva, contestata dall’AGCM, consiste nel fatto che l’utente ceda i propri dati tramite un sistema di preselezione operato da Facebook, in tal modo, secondo l’Autorità, i consumatori, in cambio dell'utilizzo del sito, verrebbero costretti a consentire alla piattaforma social e a terzi la raccolta e l'utilizzo, per finalità informative e/o commerciali, dei dati che li riguardano.
La pratica commerciale ingannevole: Facebook non è gratis
Secondo l’AGCM, lo slogan della società – poi modificato – secondo cui “iscriviti è gratis e lo sarà per sempre” rappresenta un’informazione ingannevole, in quanto lascia intendere che non vi sia alcuna controprestazione richiesta al consumatore. Invece, l’utente cede i suoi dati, i quali vengono impiegati a fini remunerativi dal professionista (ossia Facebook), che persegue finalità commerciali. L’utente non è consapevole della profilazione ad uso commerciale. Inoltre, nessun pregio ha l’argomentazione secondo cui l’iscritto potrebbe deselezionare la propria scelta. Infatti, in tal modo, egli perderebbe il servizio offerto come gratuito ma che, invece, ha come corrispettivo la messa a disposizione dei dati. Quindi, Facebook ha condizionato la consapevolezza dell’utente che, per ottenere i benefici promessi come gratuiti, deve cedere i propri dati personali, i quali vengono usati come strumento di profilazione a fini commerciali, senza un’adeguata informazione del consumatore. Le informazioni fornite da Facebook, nella pagina di accesso, sono incomplete e tale incompletezza non è stata mitigata dall’inserimento del “banner cookie”. Al contrario, qualora il consumatore intenda deselezionare alcuni dati, viene avvisato di tutti gli svantaggi che una tale scelta comporterebbe. Pertanto, una condotta siffatta integra una pratica commerciale ingannevole.
L’obbligo di chiarezza informativa a tutela del consumatore
Secondo il Codice del Consumo, il consumatore ha diritto ad un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità (art. 2 c. 2 lett. c), c-bis) e), inoltre, le informazioni al consumatore devono essere fornite in modo chiaro e comprensibile (art. 5 c. 3). La giurisprudenza costante ritiene che “l'obbligo di estrema chiarezza gravante sul professionista deve essere da costui assolto sin dal primo contatto, attraverso il quale debbono essere messi a disposizione del consumatore gli elementi essenziali per un'immediata percezione della offerta pubblicizzata” (Cons. Stato, Sez. VI, 6984/2019, sent. 4976/2019 e sent. 3347/2019). L’obbligo di chiarezza, nel caso di specie, non è stato rispettato. L’utente non è stato informato, dal primo contatto, che a fronte della gratuità del servizio consegue una profilazione dei suoi dati, messi a disposizione per fini commerciali. Inoltre, la gratuità del servizio è condizionata dal fatto che i dati siano resi disponibili a soggetti commerciali non definibili anticipatamente ed operanti in settori anch’essi non preindicati.
La pratica aggressiva: opt-in (consenso) e opt-out (rinuncia)
L’AGCM lamenta che il TAR Lazio non abbia riconosciuto la sussistenza di una pratica commerciale aggressiva e che abbia annullato il relativo provvedimento sanzionatorio. Secondo la ricostruzione dell’Autorità, Facebook adopera un sistema di preselezione, che costringe l’utente all’opt-out. Con questa espressione inglese, si fa riferimento alla possibilità, per l’utente, di rinunciare ad una determinata opzione, già preselezionata. Quindi, l’utente non è messo in condizione di operare un consenso consapevole (opt-in) alla condivisione dei dati, ma solo di rinunciare alla loro cessione (opt-out), opzione che è preselezionata da Facebook.
La pratica commerciale è aggressiva quando “tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” (art. 24 d.lgs. 206/2005). Secondo il Consiglio di Stato, la pratica adottata da Facebook, non può considerarsi aggressiva perché difetta di un quid pluris che conduca all’effettiva manipolazione dell’utente. Infatti, “la “pre-attivazione” della piattaforma Facebook (vale a dire la “preselezione” delle opzioni a disposizioni) non solo non comporta alcuna trasmissione di dati in modo diretto ed immediato dalla piattaforma di FB a quella di soggetti terzi, ma è seguita da una ulteriore serie di passaggi necessitati, in cui l’utente è chiamato a decidere se e quali dei suoi dati intende condividere al fine di consentire l’integrazione tra le piattaforme”.
Conclusioni
In conclusione, il Consiglio di Stato respinge sia il ricorso di Facebook che dell’AGCM e conferma la sentenza del TAR Lazio. Inoltre, afferma l’applicabilità della disciplina consumeristica nel caso di sfruttamento dei dati personali ad uso commerciale.
Pertanto:
- viene ravvisata una pratica commerciale ingannevole nell’asserita gratuità del servizio, a cui, invece, segue la cessione dei dati personali,
- è confermata la sanzione pecuniaria di 5 milioni di euro per pratica ingannevole, così come l’obbligo di una dichiarazione rettificativa,
- è annullata la sanzione di 5 milioni di euro per pratica aggressiva, in quanto ritenuta insussistente
fonte:altalex.coc