La Terza sezione civile della Cassazione, Relatore Danilo Sestini, con una importante decisione (653 depositata il 15 gennaio) ha esteso le condizioni per operare l'aborto terapeutico, quello dunque che viene praticato oltre il 90° giorno.
Accogliendo il ricorso di due genitori contro il medico e l'Università La Sapienza di Roma (in quanto ente di riferimento del Policlinico Umberto I), ha stabilito che non vi è necessità che "l'anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata", essendo al contrario sufficiente che la gestante "sappia di aver contratto una patologia atta a produrre, con apprezzabile grado di probabilità, anomalie o malformazioni del feto".
Perché una simile condizione, della quale il medico è tenuto informare la gestante a pena di risarcimento del danno, è di per sé in grado di produrre quel "grave pericolo per la sua salute fisica o psichica", da accertarsi in concreto e caso per caso, che consente l'interruzione oltre i termini di legge.
A tale assunto la Corte è arrivata, con un principio di diritto, attraverso l'interpretazione letterale dell'art. 6, lett. b) della legge n. 194/78. Nel caso la donna aveva contratto una infezione da citomegalovirus di cui si era accorta soltanto alle 22° settimana. Il medico, per un verso, l'aveva rassicurata sui possibili esti, per l'altro, aveva affermato che era ormai fuori tempo massimo per intervenire con l'aborto terapeutico. Una posizione condivisa dalla Corte di appello di Roma ma ribaltata oggi dalla Suprema corte.
La norma, spiega la decisione, prevede infatti che l'interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata "quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna". L'inciso compreso tra le due virgole ("tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni de feto"), afferma la Corte facendo un salto in avanti, "vale a specificare che tra i processi patologici da considerare sono compresi anche quelli attinenti a rilevanti anomalie o malformazioni del feto". Il legislatore ha dunque "posto l'accento sull'esistenza di un "processo patologico" (che può anche non essere attinente ad anomalie o ma formazioni fetali) e sul fatto che lo stesso possa cagionare un grave pericolo per la salute della donna".
Deve pertanto ritenersi, prosegue, che, laddove si riferisce a processi patologici "relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto, l'art. 6, lett. b) legge n. 194/1978 non richieda che la anomalia o la menomazione si sia già concretizzata in modo da essere strumentalmente o clinicamente accertabile, ma dia rilievo alla circostanza che il processo patologico possa sviluppare una relazione causale con una menomazione fetale".
Così, tornando al caso in esame "deve ritenersi che anche la sola circostanza dell'esistenza di un'infezione materna da citomegalovirus possa rilevare al fine di apprezzare l'idoneità di tale processo patologico a determinare nella donna - compiutamente edotta dei possibili sviluppi - il pericolo di un grave pregiudizio psichico in considerazione dei potenziali esiti menomanti".
Per la Suprema corte dunque: "l'accertamento di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro consente il ricorso all'interruzione volontaria della gravidanza, ai sensi dell'art. 6, lett. b) della legge n. 194/78, laddove determini nella gestante - che sia stata compiutamente informata dei rischi - un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, da accertarsi in concreto e caso per caso, e ciò a prescindere dalla circostanza che l'anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata".
Inoltre, sotto il profilo risarcitorio, la Corte ha stabilito che "il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate a una patologia dalla medesima contratta può essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna dimostri che sarebbe ricorsa a fronte di un grave pregiudizio per la sua salute fisica o psichica".
fonte: ilsole24ore.com
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