Lo straniero imputato di delitto contro la persona non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano in cui l'agente ha scelto di vivere.
In questi termini si è espressa, con la sentenza 5 marzo 2020, n. 8986, la Terza Sezione Penale della Corte di cassazione rispetto all'invocazione, da parte del ricorrente, delle differenze culturali e religiose a giustificazione delle condotte contestategli in danno della convivente more uxorio; differenze, queste, di cui ha escluso la compatibilità con l'esigenza, propria del nostro ordinamento giuridico, di valorizzare la centralità della persona umana.
Il caso
Il ricorrente era stato condannato in giudizio abbreviato, con sentenza confermata in appello, per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate in danno della convivente.
Con ricorso per cassazione aveva censurato la sentenza di condanna sotto un triplice profilo: per vizio di motivazione, per non aver valorizzato, ai fini del mancato riscontro alle dichiarazioni della persona offesa, l'assenza di documentazione sanitaria attestante la presenza di lesioni vaginali, oltre che per non aver riconosciuto la lieve entità del fatto, avuto riguardo alla occasioniltà delle condotte e all'incidenza della superiore età della vittima sul grado di coartazione della stessa; sempre per vizio di motivazione, per aver ritenuto relative ad elementi di dettaglio le discrasie rilevate nelle dichiarazioni testimoniali de relato; infine, per violazione di legge e, precipuamente, dell'art. 51 c.p., per non aver riconosciuto rilevanza scriminante, o comunque diminuente, alle particolari connotazioni culturali e religiose dell'imputato.
La sentenza
La pronuncia della Corte merita attenzione per le argomentazioni rese nel respingere tutti i motivi di legittimità proposti.
In particolare, nel ribadire, con riguardo al primo motivo, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono ex se essere poste a fondamento del decisum in assenza di riscontri, sempre che ne sia attentamente vagliata la credibilità soggettiva e oggettiva, la Corte ha escluso la necessità di trovare riscontro alle dichiarazioni della persona offesa in certificati medici attestanti lesioni vaginali; ciò, in quanto, rispetto ad un episodio, in cui la violanza sessuale era consistita nell'indurre la vittima a praticare un rapporto orale, una lesione vaginale non avrebbe potuto neppure essere astrattamente ipotizzata; rispetto ad un altro episodio, invece, in cui il certificato attestava, non lesioni vaginali, ma lesioni al volto, ecchimosi e contusioni agli arti inferiori e superiori, la Corte ha ritenuto immune da censure la motivazione dei giudici di merito circa la riconosciuta compatibilità della stessa con la coartazione della volontà a scopo sessuale subita dalla vittima.
Altra chiosa di interesse nella sentenza in esame è quella resa sull'invocazione della diminuente del fatto di lieve entità: sul punto la Corte ha sottolineato come il riconoscimento della suddetta diminuente implichi una valutazione globale del fatto da cui emerga che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compromessa in maniera non grave e che il danno arrecato alla stessa in termini psichici sia stato significativamente contenuto. La Corte ha concluso che nel caso al suo esame i giudici avevano fatto buon governo dei principi in materia perchè i due episodi di violenza erano stati vagliati nella loro globalità, nel contesto di condotte di abituali maltrattamenti.
Sul secondo motivo, dichiarato inammissibile per genericità, la Corte ha abdicato dall'apprezzamento delle doglianze dedotte per mancata riproduzione/allegazione delle dichiarazioni testimoniali censurate, in spregio al principio di autosufficienza del ricorso.
Particolarmente interessante risulta l'argomentazione resa sul terzo motivo e diretta ad escludere la valenza scriminante delle tradizioni culturali e religiose nella commissione di delitti contro la persona.
La Corte ha a riguardo richiamato il noto precedente costituito dalla sentenza 14960/2015 (Cassazione Penale, Sez. III, 13 aprile 2015, n. 14960): in tale pronuncia i giudici di legittimità avevano affrontato compiutamente l'argomento partendo dalla considerazione secondo cui, in una società multietnica quale quella moderna, non sia possibile scomporre l'ordinamento in tanti statuti individuali quante sono le etnie, non essendo compatibile con l'unicità dell'ordinamento giuridico la convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro differenti; sulla base di tali premesse avevano individuato come unica soluzione civilmente e giuridicamente praticabile, perchè costituzionalmente orientata, quella di armonizzare i comportamenti individuali, rispondenti alla varietà delle culture, al principio unificatore della centralità della persona umana. Tanto, in linea con l'art. 3 della Costituzione che, in un unico contesto normativo, attribuisce a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione, fra l'altro, di religione.
In quest'ottica secondo la Suprema Corte, la sopravvivenza della società multietnica postula l'obbligo di chiunque di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano, non potendosi riconoscere una posizione di buona fede in chi, trasferitosi in un Paese diverso, con cultura e costumi diversi dai propri, presume di aver un diritto, non riconosciuto da nessuna norma di diritto internazionale, di proseguire in condotte che, seppur ritenute culturalmente accettabili nel Paese di provenienza, risultino oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere.
Sulla scorta di tali argomentazioni, secondo cui non è configurabile una scriminante, anche solo putativa, fondata sull'esercizio di un presunto diritto, escluso in linea di principio dall'ordinamento, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente alle spese.
fonte:www.altalex.com
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