giovedì 10 marzo 2016

La diffamazione su Facebook è sempre aggravata

Secondo la Cassazione una condotta diffamatoria può essere tenuta anche mediante l'inserimento di commenti ed espressioni offensive sui cosiddetti social network ed anzi in tale ipotesi deve senz'altro presumersi, senza possibilità di fornire prova contraria, che ricorre la sussistenza della circostanza aggravante della comunicazione con più persone.
Il fatto
Un soggetto era condannato dal Tribunale di Palermo per la violazione dell’art. 595 c.p., per aver offeso un soggetto pubblicando sul suo profilo Facebook alcune frasi inequivocabilmente diffamatorie, associandole in taluni casi all’immagine fotografica della persona offesa.
Avverso la decisione era proposto ricorso per cassazione censurando in sostanza la motivazione della decisione di condanna. A dire della difesa, infatti, il giudice di prime cure si sarebbe limitato ad esporre sinteticamente i motivi su cui era basata la decisione relativa alla sussistenza del reato e la riferibilità del fatto all’imputato, senza però approfondire adeguatamente tale ultimo profilo.
Secondo quanto denunciato la diffamazione sarebbe stata perpetuata dall'imputato sulla bacheca virtuale del social network Facebook ed a riprova di quanto asserito la parte offesa aveva prodotto – stampandola in proprio - una presunta conversazione la quale però non avrebbe alcun valore probatorio, stante l'assoluta riproducibilità della stessa mediante stampa da un qualunque personal computer fornito di programmi di videoscrittura e tale considerazione esclude che si possa attribuire tale produzione una valenza significativa circa la riferibilità delle dichiarazioni diffamatorie all'imputato.
In secondo luogo, in sede di ricorso, si contesta l'utilizzo da parte del giudice di merito di una memoria presentata dal medesimo imputato in un procedimento dinanzi al TAR ed avente come oggetto le medesime circostanze. Tale documento, stante la sua provenienza dallo stesso accusato, non sarebbe utilizzabile in quanto si tratterebbe di dichiarazioni rese dall'imputato contro se stesso e quindi soggette alle regole cui all’art. 63 c.p.p..
La decisione
La Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendo lo stesso infondato.
In primo luogo, la documentazione prodotta in sede di denuncia dalla parte offesa dimostrava come i messaggi diffamatori provenissero da profili Facebook riconducibili a soggetti conosciuti dalla medesima persona offesa e che erano con la stessa in rapporti conflittuali tali da giustificare la propalazione di dichiarazioni offensive ed ingiuriose. Tuttavia, accanto al tale documentazione prodotta dal denunciante, nel corso del giudizio di merito si era provveduto a disporre consulenza tecnica per accertare la titolarità dell'account Facebook dal quale erano stati diramati messaggi predetti e le risultanze tale consulenza erano senso che tale account era riferibile all'imputato condannato in primo grado. A ciò va aggiunto che nel contesto degli elementi acquisiti, la sentenza impugnata ha dato significativo risalto, al fine della riferibilità del reato all'imputato, al fatto che quest’ultimo, informato dell'esistenza dei predetti messaggi a contenuto illecito, immessi sul sito web intestato a suo nome, non ha mai insegnato o denunciato abusi da parte di ignoti, responsabili di aver usato senza il suo consenso le sue generalità.
Peraltro, lo stesso imputato si era assunto e aveva riconosciuto la paternità delle frasi, fornendo tali chiarimenti in una memoria a sua firma, depositata nell'ambito di un procedimento disciplinare aperto le sue confronti proprie relazione alla vicenda di cui trattasi. Di tale memoria, come detto, la difesa contesta l'utilizzazione in sede penale, ma tale censura viene respinta dalla Cassazione la quale ritiene che la stessa poter essere acquisita al processo ai sensi dell'art. 237 c.p.p. trattandosi di documento firma dell'imputato, mentre la circostanza che in tale documento fossero presenti dichiarazioni confessorie non imponeva il ricorso alla disciplina di cui all'art. 63 c.p.p. la cui previsione si riferisce solo alle dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari.
Ricostruito in questi termini l'accaduto, per la Cassazione doveva ritenersi da un lato che le espressioni utilizzate - tipo "parassita del sistema clientelare", "quando i cialtroni diventano parassiti", "devo andare a pescare mi serve un verme, quale mi consigliate?" - erano inequivocabilmente sussumibili sotto la fattispecie di cui all'art. 595 c.p. e dall'altro che pacificamente il reato di diffamazione può essere commesso a mezzo Internet sussistendo anzi in questo caso l'ipotesi aggravata di cui al terzo comma della norma incriminatrice, dovendosi presumere la ricorrenza del requisito della comunicazione con più persone (Cass., sez. V, 16 ottobre 2012, n. 48980; Cass., sez. V, 4 aprile 2008, n. 16262). In particolare, anche la diffusione del messaggio diffamatorio attraverso l'uso della bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione aggravata, poiché la diffusione del messaggio con le modalità consentite dall'utilizzo per questo di una bacheca Facebook a potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone, sia perché l'utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita (Cass., sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431).

per leggere la sentenza clicca qui: Microsoft Word - Documento3

Fonte: www.quotidianogiuridico.it

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