sabato 23 maggio 2015

Risponde di rapina il soggetto che s’impossessa del telefono della fidanzata allo scopo di leggere gli sms

Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015 (19 marzo 2015), n. 11467, Est. Gallo, Imp. Carbone

Con la sentenza in epigrafe la Cassazione ha ritenuto integrato il delitto di rapina nella condotta dell'imputato che, con violenza, sottraeva il telefono cellulare alla ex fidanzata, allo scopo di far leggere al padre di lei gli SMS ivi memorizzati, dai quali si evinceva che la donna lo tradiva con un altro uomo. La S.C. ha così disatteso la doglianza difensiva che faceva leva sull'assenza del dolo specifico (la finalità di perseguire un "ingiusto profitto") richiesto dall'art. 628 c.p.

Sul punto, la Cassazione ha infatti ravvisato, in applicazione di principi giurisprudenziali ormai consolidati,  tanto la sussistenza del profitto, qualificandolo come «qualsiasi utilità, anche solo morale, qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene»; quanto il carattere ingiusto del profitto medesimo, sottolineando come l'imputato, con la condotta in esame, avesse violato il diritto alla riservatezza della persona offesa, nonché inciso negativamente sulla sua sfera della libertà, comprimendone il diritto all'autodeterminazione. La Suprema Corte ha rilevato infatti come «l'instaurazione di una relazione sentimentale tra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all'autodeterminazione fondato sull'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione». Gli Ermellini hanno poi precisato che «la libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine».

La pronuncia della Suprema Corte suscita alcune perplessità in ordine alla nozione di profitto adottata, invero talmente estensiva da rischiare di perdere qualsivoglia portata autenticamente selettiva delle condotte meritevoli del nomen di rapina e dunque della sanzione prevista dall'art. 628 c.p.

In termini generali, la nozione di profitto - concetto richiamato dall'art. 628 c.p. come oggetto del dolo specifico e presente altresì in diversi altri delitti contro il patrimonio - ha ricevuto due diverse interpretazioni, una estensiva ed una restrittiva.

La tesi estensiva prescinde dall'elemento patrimoniale e ricomprende nel concetto di profitto ogni utilità e vantaggio. I sostenitori di tale interpretazione sottolineano come dall'esame del dato letterale non emerga alcun riferimento al carattere necessariamente patrimoniale del profitto e di conseguenza come ogni limitazione, volta ad escludere utilità di tipo morale o psichico, risulterebbe arbitraria.

La tesi restrittiva, invece, assegna al profitto una natura intrinsecamente patrimoniale, o quanto meno economicamente valutabile, anche alla luce della collocazione del delitto di rapina all'interno del titolo dedicato ai reati contro il patrimonio.

Da tempo la giurisprudenza di legittimità è unanime nell'abbracciare la tesi estensiva, qualificando come profitto idoneo ad integrare il delitto di rapina ogni utilità, vantaggio o godimento che il soggetto agente possa trarre, pur in via indiretta, dalla condotta penalmente rilevante; un profitto, quindi, che non debba avere necessariamente natura economico-patrimoniale, bensì anche morale o psichica.

In via esemplificativa, la giurisprudenza ha rinvenuto gli estremi del delitto di rapina in un'ipotesi in cui l'agente ha agito al solo scopo di umiliare la persona offesa, gettando la refurtiva in mare immediatamente dopo essersene impossessato. Ancora, il delitto di cui trattasi è stato ritenuto sussistente nella condotta di alcuni terroristi, che si sono impossessati violentemente di agende, carte e documenti necessari per il compimento di azioni eversive; nel caso di violenza esercitata su un carabiniere, al fine di disarmarlo ed appropriarsi della pistola d'ordinanza; nell'ipotesi di sottrazione violenta, da parte di un detenuto, delle chiavi delle celle in possesso della guardia carceraria, al fine di dare avvio ad una rivolta. Più recentemente, la Cassazione ha ritenuto integrato il delitto di rapina nella condotta di alcuni appartenenti a un "soggetto politico organizzato" che si erano impossessati violentemente della merce esposta in un supermercato, con il dichiarato intento di ottenere uno sconto sulla merce a scopo dimostrativo contro il caro vita, atteso che «in un regime democratico gli obiettivi particolari di politica economica vanno perseguiti liberamente nelle sedi istituzionali e non violando la legge penale».

Con riferimento a vicende legate a rapporti sentimentali, la giurisprudenza ha ravvisato il delitto di cui all'art. 628 c.p. anche nella condotta del soggetto che si è impossessato dei beni nella disponibilità della vittima nel corso di un litigio tra ex-amanti, mosso dallo scopo di ritorsione e vendetta, dovuto alla fine della relazione amorosa. Inoltre, la Corte ha ritenuto che perfino lo scopo di ottenere un bacio in cambio della restituzione del bene sottratto, per quanto trattasi di una finalità prettamente morale, possa integrare l'utilità che qualifica il dolo specifico del delitto di rapina.

Per quanto riguarda poi la "durata del profitto", la giurisprudenza ha correttamente evidenziato come questa sia irrilevante, ben potendosi ritenere integrato il delitto di rapina anche in presenza di un'utilità solo momentanea. Ciò in considerazione dell'assenza, con riferimento al delitto in oggetto, di un'indicazione analoga a quanto previsto dal legislatore in materia di furto d'uso ex art. 626 n.1 c.p.

Autorevole dottrina ha espresso forti critiche all'orientamento giurisprudenziale che include nel concetto di profitto ogni vantaggio o utilità perseguiti dall'agente, sottolineando come una nozione così estensiva porterebbe, con una sorta di interpretatio abrogans, ad annullare la portata selettiva del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, che verrebbe quindi degradato ad un profitto in re ipsa, di fatto coincidente con il movente che ha indotto l'agente a delinquere.

Inoltre un'eccessiva depatrimonializzazione del concetto di profitto non pare pienamente coerente con la collocazione sistematica del delitto di rapina, incluso nel titolo XIII del secondo libro del Codice Penale, dedicato ai delitti contro il patrimonio.

Ancora, la notevole afflittività del trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore per il reato di cui all'art. 628 c.p., apparirebbe sproporzionata qualora venisse applicata ad un fatto sostanzialmente privo di uno degli elementi costitutivi richiesti, ovvero il dolo specifico di profitto.

In dottrina sono state quindi proposte interpretazioni alternative del concetto di profitto così come delineato dalla giurisprudenza di legittimità.

Mentre un primo filone dottrinale ha qualificato il profitto come vantaggio esclusivamente economico, altra dottrina, ritenendo tale nozione eccessivamente restrittiva, ha proposto un'interpretazione intermedia, che fa leva sull'aspetto patrimoniale, e non solo meramente economico, del profitto, ricomprendendo così «ogni incremento della capacità strumentale del patrimonio di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale»: un bisogno, quindi, che può essere non solo di carattere economico, ma anche affettivo, religioso, solidaristico, etc. La tesi in questione si fonda sulla concezione giuridico-funzionale-personalistica di patrimonio che - ai fini del diritto penale - ne abbraccia una nozione non limitata all'insieme dei beni economicamente valutabili appartenenti ad un soggetto, bensì comprensiva di quei rapporti giuridici, facenti capo al medesimo, che hanno ad oggetto "cose dotate di funzione strumentale, della capacità quindi di soddisfare bisogni umani, materiali o spirituali". Gli autori che aderiscono alla concezione "intermedia" di profitto hanno, quindi, ritenuto che la sussistenza del delitto di rapina debba essere esclusa nelle ipotesi in cui la condotta dell'agente non fosse finalizzata ad incrementare il suo patrimonio - inteso appunto in senso strumentale e non solo strettamente economico - , come  nei casi in cui questi abbia agito per intenti di vendetta, ritorsione, dileggio, disprezzo, ludismo.

Alla luce delle citate critiche dottrinali, emerge quindi come l'orientamento giurisprudenziale maggioritario - nell'estendere la nozione di profitto fino a ricomprendere qualsivoglia utilità che il soggetto attivo possa ottenere dalla condotta di reato - di fatto considera il fine di profitto implicito in ogni condotta di sottrazione ed impossessamento di beni altrui e, in tal modo, giunge ad una sostanziale abrogazione del dolo specifico, espressamente indicato dalla norma per l'integrazione del reato di rapina, giustificandosi con il mero richiamo ai precedenti costanti.

Proprio la vicenda oggetto della sentenza in epigrafe mette in luce le estreme conseguenze alle quali può giungere l'adozione di una nozione di profitto eccessivamente estensiva.

Nel caso di specie, infatti, il soggetto attivo non ha agito al fine di ottenere un incremento del proprio patrimonio; piuttosto, l'uomo è stato mosso da un mero intento di vendetta e ritorsione, ed ha sottratto il telefono cellulare della ex fidanzata al solo scopo di screditare l'immagine di lei agli occhi del padre, rivelandone il tradimento.

Facendo quindi applicazione dell'orientamento dottrinale riportato, la censura che potrebbe essere mossa alla sentenza in epigrafe non riguarda tanto il carattere giusto o ingiusto del profitto perseguito dall'agente, come prospettato dalla difesa dell'imputato, bensì proprio l'assenza di qualsiasi finalità di profitto.

Piuttosto, in considerazione delle modalità violente della condotta posta in essere dall'agente, parrebbe ipotizzabile una diversa qualificazione della stessa a titolo di violenza privata, in quanto l'uomo ha costretto la vittima a tollerare un quid, ovvero, nel caso in esame, l'indebita invasione nella sua sfera individuale realizzatasi con la lettura, di fronte al padre di lei, dei messaggi di carattere personale contenuti nel telefonino.

fonte: www.penalecontemporaneo.it//DIRITTO PENALE CONTEMPORANEO

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