I valori costituzionali di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, del rispetto della loro pari dignità e della ricerca dell’accordo nella comune conduzione della vita familiare non possono essere derogati del permanere, in certe aree sociali, di quel ruolo gerarchico ed autoritario del marito, tipico delle società patriarcali. Ne consegue che la violazione di tali principi deve essere presa in considerazione ai fini dell’addebito della separazione, non potendo la dipendenza psicologica della moglie, imputabile a mera tolleranza, rendere disponibili valori e diritti di rango costituzionale. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 8094/15.
Il caso
Rigettando le reciproche domande di addebito, il Tribunale dichiara la separazione personale di due coniugi, contro la quale la moglie propone appello, ritenendo che il giudice di primo grado abbia trascurato la gestione del marito nella conduzione dell’azienda agricola comune dalla quale la moglie era sempre stata completamente estromessa. La Corte d’appello respinge il gravame affermando l’irrilevanza del comportamento del marito, inquadrabile «nell’ambito di quel potere semi-assoluto, noto nelle campagne e implicitamente accettato in famiglia, che lascia ogni decisione e arbitrio al padre riconosciuto dominus della gestione familiare». La moglie ricorre in Cassazione. Afferma che i giudici di merito sarebbero incorsi nella violazione dei principi che impongono ai coniugi l’obbligo reciproco di collaborazione e di concorde determinazione dell’indirizzo della vita famigliare, con la conseguente necessità di collaborazione in posizione paritaria nell’esercizio di un’attività economica comune.
La Suprema Corte rileva immediatamente la fondatezza della doglianza. Prescindendo dall’accertamento della gravità della "mala gestio" del marito nella conduzione dell’impresa familiare, la domanda di addebito della separazione a suo carico, presentata dalla consorte, aveva ad oggetto un comportamento dispotico del marito che lentamente, ma irrimediabilmente, aveva leso il rapporto matrimoniale. La Corte territoriale ha correttamente riscontrato questo dato fattuale che ha da sempre contraddistinto la vita della familiare, ma giungeva poi a giustificare lo stesso valorizzando elementi psicologici e sociologici che «non possono avere rilievo se rapportati ai principi che ispirano il diritto di famiglia da almeno quarant’anni».
Il principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 3 Cost.), il principio della costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale (art. 29 Cost.) ed il criterio di regolazione dei rapporti coniugali basato sulla ricerca dell’accordo e sul rispetto della pari dignità sono valori costituzionali fondamentali, dai quali non è possibile discostarsi basandosi sul «permanere della rilevanza, in alcune aree sociali, di quel ruolo gerarchico che legittimava l’autorità del marito nelle società patriarcali». Conseguentemente, ai fini dell’addebito della separazione, che richiede la prova del compimento di atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio e del nesso causale tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza, non può essere attributo alcun valore all’atteggiamento di tolleranza del coniuge in posizione inferiore che subisca atti lesivi della propria dignità e del proprio diritto all’uguaglianza nelle relazioni familiari.
La dipendenza psicologica e la subordinazione della moglie non possono dunque rendere disponibili valori e diritti di rango costituzionale, la cui violazione assume certamente rilevanza ai fini dell’accertamento della responsabilità per la crisi del matrimonio e del conseguente addebito della separazione. Per questi motivi, la Suprema Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello.
Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Il marito dispotico non può essere giustificato dal contesto in cui vive la famiglia - La Stampa
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giovedì 7 maggio 2015
Il marito dispotico non può essere giustificato dal contesto in cui vive la famiglia
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