Il datore di lavoro può venire a conoscenza di comportamenti del lavoratore anche estranei all’attività lavorativa, se rigurdano il corretto adempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. Lo ha deciso la Cassazione nella sentenza 25162/14 depositata il 26 novembre.
Il caso
Un lavoratore chiede al Giudice di dichiarare nullo e/o illegittimo il licenziamento intimatogli dalla società per cui lavorava. Secondo il lavoratore il licenziamento era privo di giusta causa in quanto lo stato di infermità che lo aveva costretto ad assentarsi dal lavoro nel periodo indicato nella lettera di contestazione degli addebiti non era simulato, ma risultava confermato dalla certificazione sanitaria. L’INAIL aveva, infatti, confermato la sussistenza di una menomazione dell’integrità psico-fisica, riconoscendo al lavoratore un danno biologico nella misura dell’8%. Il Tribunale e la Corte d’appello rigettano la domanda. Il lavoratore ricorre in Cassazione, lamentando la violazione degli articoli 5 e 8 dello Statuto dei lavoratori. In base all’art 5 predetto sono vietati accertamenti da parte del datore sull’idoneità e sull’infermità per malattia o infortunio del dipendente e demanda a servizi ispettivi degli istituti di previdenza i casi di controllo. Secondo il ricorrente, il datore aveva violato tale norma sottoponendo il lavoratore a pedinamenti da parte di un agenzia investigativa. In aggiunta, nel caso di non applicabilità dell’art. 5, secondo il lavoratore la condotta del datore aveva violato l’art. 8 predetto, in quanto vieta al datore di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.
Secondo la Cassazione «le disposizioni dell’art. 5 della legge n. 300 del 1970, non precludono che le risultanze delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore, e in genere degli accertamenti di carattere sanitario, possano essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto – pur non risultante da un accertamento sanitario – atta a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l’assenza» (Cass., n. 6236/2001). E’ inoltre pacifico in sede di legittimità che il datore di lavoro abbia la facoltà di prendere conoscenza di comportamenti del lavoratore anche estranei all’attività lavorativa, in quanto rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
Il ricorrente, con un altro motivo di ricorso, ha denunciato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2119 del codice civile (Recesso per giusta causa), in tema di giusta causa di licenziamento, nonché dell’articolo 2106 c.c. (Sanzioni disciplinari) in relazione al principio di proporzionalità tra il fatto contestato e gli addebiti mossi. La Cassazione, nell’affrontare la questione in esame, ricorda che in ordine ai criteri che il Giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, è chiamato a verificare se la condotta del lavoratore ha effettivamente negato uno degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, in particola quello fiduciario, anche a prescindere della sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro. In sostanza, «occorre valutare la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, ma anche la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare» (Cass., n. 15654/2012). Il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, questioni di merito che si sottraggono al riesame in sede di legittimità se il giudice d’appello giustifichi con motivazione esauriente e completa (Cass., n. 7948/2011).
Nel caso di specie, rileva il Supremo Collegio, la Corte d’appello aveva fatto buon governo dei principi soprarichiamati, motivando in modo logico e congruo la decisione. Nel dettaglio i Giudici di merito avevano ritenuto insussistente la patologia denunciata, che difatti non aveva raggiunto un livello di intensità tale da impedirgli di espletare la sua attività lavorativa per un lasso di tempo considerevole. Gli stessi giudici avevano ritenuto che la condotta così posta in essere integrava gli estremi di una causa legittimante l’adozione del provvedimento estintivo del rapporto. Sulla base di tali argomenti la Cassazione rigetta il ricorso.
Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Il datore può far pedinare il lavoratore malato?
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sabato 29 novembre 2014
Il datore può far pedinare il lavoratore malato?
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