Decisiva l’azione compiuta dalla coniuge del dipendente per ritenere comunicato il recesso. Ciò comporta il countdown per l’impugnazione del recesso. Fatale, in questo caso, la reazione lenta dell’uomo. Assenza arbitraria: questa la contestazione che l’azienda muove nei confronti del dipendente e che conduce, addirittura, alla opzione estrema, il licenziamento. Ma la battaglia giudiziaria decisiva è quella relativa alla tempistica della impugnazione, da parte del lavoratore, del provvedimento adottato dall’azienda. E su questo punto è decisiva la lettera raccomandata, inviata all’indirizzo del lavoratore e ritirata dalla moglie convivente (Cassazione, sentenza 6845/14). Doppia sconfitta, nei primi due gradi di giudizio, per l’azienda: per i giudici, difatti, è evidente la «illegittimità del licenziamento», con relativa «condanna» a provvedere al «risarcimento del danno» in favore del lavoratore. Per i giudici, in particolare, «l’impugnazione del licenziamento doveva ritenersi tempestiva, in quanto, dalla corrispondenza tra le parti successivamente alla lettera di recesso, poteva desumersi che il lavoratore non aveva avuto cognizione di tale recesso, con conseguente inoperatività della presunzione di conoscenza». Peraltro, è acclarata, sempre secondo i giudici, «l’inefficacia del recesso per inosservanza delle disposizioni sulla forma scritta del recesso». Tempistica. Ad avviso dei rappresentanti dell’azienda, però, i giudici hanno compiuto una valutazione erronea, non considerando che «il recesso è stato ritualmente comunicato al lavoratore, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, regolarmente ritirata dalla moglie convivente del lavoratore». Di conseguenza, «il lavoratore non ha impugnato il recesso nel termine dei 60 giorni», sostengono i vertici dell’azienda. Ebbene, questa considerazione viene condivisa dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, «atti» alla mano, evidenziano che «il licenziamento del 16 febbraio 1999 è stato inviato all’indirizzo del lavoratore con lettera raccomandata, con ricevuta di ritorno, regolarmente ritirata, dalla moglie convivente del lavoratore, il 24 febbraio 1999». Ciò basta a «far scattare la presunzione di conoscenza», quindi «l’atto di recesso si deve ritenere giunto a conoscenza del destinatario». Rispetto a questo quadro, è evidente anche la «inverosimiglianza della circostanza», richiamata dall’uomo, «relativa alla consegna di una busta vuota», particolare potenzialmente decisivo eppure mai citato nella «fitta corrispondenza extraprocessuale» tra lavoratore e azienda. Evidentemente «il recesso è stato intimato ritualmente al lavoratore», e di conseguenza si può affermare, concludono i giudici, che «il licenziamento non è stato impugnato tempestivamente dal lavoratore», tenendo presente che «solo il 9 maggio 1999, quindi oltre il termine dei 60 giorni dal ricevimento della raccomandata, risulta una impugnazione specifica, da parte del lavoratore, del recesso del 24 febbraio 1999».
Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Raccomandata dell’azienda, ritirata dalla moglie del lavoratore: licenziamento conosciuto
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venerdì 23 maggio 2014
Raccomandata dell’azienda, ritirata dalla moglie del lavoratore: licenziamento conosciuto
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