venerdì 30 maggio 2014

Lo picchia, gli fa perdere i sensi, lo sveglia e lo colpisce di nuovo: “non volevo ucciderlo” non è una difesa

Il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e quello preterintenzionale risiede nel fatto che, nel secondo caso, la volontà dell’agente esclude ogni previsione dell’evento morte. Invece, nell’omicidio volontario, la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi, desunti dalle concrete modalità della condotta. È quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza 14647/14.

Il caso

La Corte di assise di appello di Bari confermava la sentenza di primo grado, che condannava un uomo, accusato di tentata violenza sessuale nei confronti di una donna e dell’omicidio, aggravato dalla crudeltà dell’azione, di un vicino. Il vicino era intervenuto per bloccare l’imputato, che stava aggredendo una donna. Per questo motivo, il reo aveva reagito, picchiando l’uomo che era intervenuto, per circa un’ora, periodo in cui aveva versato più volte dell’acqua sulla sua vittima, che, nel frattempo aveva perso i sensi, per poi colpirla nuovamente, sempre sul cranio, causandone in seguito la morte. L’imputato ricorreva in Cassazione, contestando ai giudici d’appello di aver escluso la fattispecie del reato preterintenzionale, avendo ritenuto che l’uomo non aveva potuto non rappresentarsi l’evento poi verificatosi. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che, in tema di reati contro la persona, l’omicidio preterintenzionale si configura quando l’azione aggressiva dell’autore del reato sia diretta soltanto a percuotere la vittima o a causarle lesioni, così che la morte costituisca un evento non voluto, ancorché legato da nesso causale alla condotta dell’agente. Perciò, il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e quello preterintenzionale risiede nel fatto che, nel secondo caso, la volontà dell’agente esclude ogni previsione dell’evento morte. Invece, nell’omicidio volontario, la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi, desunti dalle concrete modalità della condotta. Nel caso, il prolungato pestaggio (continuato anche dopo la perdita dei sensi della vittima, nonché dopo la sua ripresa in seguito ai getti d’acqua sul volto), la violenza dei colpi e la parte colpita, cioè il cranio, erano dati sintomatici della volontà omicida, espressasi nell’indifferenza circa gli esiti del pestaggio. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Lo picchia, gli fa perdere i sensi, lo sveglia e lo colpisce di nuovo: “non volevo ucciderlo” non è una difesa

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