Il padre che intende disconoscere il figlio non può ricorrere a un’agenzia investigativa per prelevare campioni di Dna al fine di valutare l’opportunità dell’azione giudiziale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 21014/2013.
Secondo i giudici di Piazza Cavour “il trattamento dei dati genetici, destinato nella specie a orientare la successiva scelta verso un’azione di disconoscimento di paternità, mediante l’accertamento preventivo della consanguineità tra […(figlio)] e [(padre)…], oltre a non avere alcuna finalità sanitaria non è neanche astrattamente riconducibile all’esercizio in sede giudiziale di un diritto della personalità di rango quanto meno pari a quello del controinteressato [art. 26, quarto comma, lettera c) e punto 1.3. dell’Autorizzazione generale a. 2 del 2002] in quanto non può essere equiparata una valutazione di opportunità ante causa diretta a verificare le probabilità di successo in una futura azione di disconoscimento di paternità con la necessaria utilizzazione di alcuni dati come strumenti indispensabili per ottenere tutela giurisdizionale”.
“Nell’azione di disconoscimento di paternità rivolta verso […(figlio)] - spiega la sentenza - l’indagine sul Dna poteva essere espletata nel corso del giudizio. L’eventuale rifiuto ingiustificato dell’interessato a sottoporvisi avrebbe costituito un comportamento processuale d’indubbio rilievo probatorio, valutabile ex art. 116 cod. proc. civ.”. Dunque: “Nessun deficit del diritto di difesa dell’attore poteva collegarsi alla mancata conoscenza preventiva del possibile esito del test predittivo”.
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