L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si estrinseca in qualsiasi forma di sopraffazione nei confronti della vittima, che, a causa della sua condizione di inferiorità, soggiace al volere dell’autore della condotta (Cassazione penale, sentenza n. 47018/2023).
Il fatto
Il giudizio in relazione al quale è intervenuta la pronuncia in esame si era concluso nei gradi di merito con la condanna dell’imputato, paramedico di una casa di cura privata, per la violenza sessuale aggravata consumata nei confronti di una paziente, consistita in toccamenti della zona sovra-pubica e pubica con penetrazione delle dita in vagina, mentre era ancora ricoverata in seguito a un intervento chirurgico e sotto l’effetto dell’anestesia.
I Giudici di merito avevano accertato in fatto che: la persona offesa, dopo aver subito un intervento chirurgico in orario pomeridiano, aveva trascorso la notte in una camera della casa di cura, nella quale l’imputato, quale infermiere di turno nel reparto, aveva eseguito vari accessi per verificare la spontanea ripresa della minzione e, nell’occasione, aveva praticato massaggi in zona pubica e sovrapubica penetrandola più volte con le dita in vagina; la donna aveva percepito l’abuso, allertando durante la notte la figlia della signora del letto accanto che faceva la notte per la madre, per poi parlarne la mattina dopo a un’amica via chat, al medico che era passato per la visita di controllo e alla madre e decidere di sporgere formale querela il giorno successivo.
L’imputato ricorreva per cassazione deducendo plurimi motivi di violazione di legge e vizio di motivazione, in particolare, per quel che maggiormente interessa, denunciava la mancata correlazione tra accusa e sentenza dal momento che il fatto gli era stato contestato come “costrizione” all’atto sessuale ex art. 609 bis comma 1 c.p.p., mentre la condanna in sede di giudizio abbreviato era stata pronunciata (e confermata in appello) per “induzione” a subire atti sessuali, con abuso delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della persona offesa al momento del fatto ex art. 609 bis comma 2 n. 1 c.p.p.. Evidenziava che le manovre sulla persona offesa erano state eseguite per favorire la minzione spontanea e che la donna aveva mal interpretato la pratica sanitaria a causa dell’anestesia.
La sentenza
La sentenza assume particolare interesse in relazione alle motivazioni rese sul difetto di correlazione tra accusa e sentenza denunciato dal ricorrente.
In merito al principio di correlazione ex art. 521 c.p.p. la Corte ha ricordato che per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; e che tale pregiudizio non sussiste quando la riqualificazione sia prevedibile.
In applicazione di tali principi, nella prassi, la violazione del principio di correlazione nella materia sessuale è stata ritenuta allorquando si sia passati dalla costrizione all’induzione senza che nella descrizione del fatto ricorressero entrambe le ipotesi mentre è stata esclusa quando la contestazione comprendeva sia gli elementi della costrizione che quelli dell’induzione perchè è stato accertato in concreto che l’induzione costituiva la proiezione della costrizione per cui l’imputato si era potuto difendere da tutti i fatti ascrittigli.
Nel caso in esame la contestazione era stata formulata ai sensi dell’art. 609 bis c.p.p. comma 1, tuttavia, secondo i giudici di merito non vi era stata una violenza con costrizione fisica, perchè la paziente era allettata, ancora sotto gli effetti dell’anestesia per l’intervento pomeridiano, e quindi in condizioni di minorata difesa.
Di qui, la riqualificazione del fatto come induzione senza che fosse ravvisabile una modifica sostanziale dello stesso posto che nella descrizione formulata nel capo di imputazione si dava conto delle condizioni della donna, limitata nella sua libertà personale dopo l’intervento chirurgico, nonchè della circostanza di tempo notturna, e del delicato contesto, stante il rapporto non paritario tra il paramedico e la paziente.
La Sezione assegnataria del ricorso ha quindi escluso nella specie la violazione del principio di correlazione precisando che l’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, non si identifica solo con una subdola attività di persuasione della vittima per convincerla a prestare il proprio consenso all’atto sessuale, ma si estrinseca in qualsiasi forma di sopraffazione posta in essere dall’agente, anche senza ricorso ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima, la quale soggiace al volere dell’autore della condotta, non risultando in grado di opporsi a causa della sua condizione di inferiorità; quest’ultima è concetto ampio che colpisce qualunque condizione di menomazione permanente o transeunte della vittima che venga strumentalizzata a fini sessuali: ad esempio, la disabilità mentale, a prescindere dall’esistenza di una vera e propria patologia; la subdola opera di persuasione o di ricatto morale dell’agente; l’abuso di alcol e stupefacenti che possono eventualmente anche annientare del tutto la percezione della violenza sessuale, come nel caso del dormiente.
Nel caso di specie la donna aveva subito la condotta nelle particolari condizioni sopradescritte e nell’ignoranza della pratica medica, di cui aveva acquisito piena consapevolezza solo dopo il confronto con il sanitario il giorno successivo.