lunedì 30 ottobre 2017

Autovelox: spetta al trasgressore dimostrare l’inidoneità della cartellonistica

Il conducente, multato per eccesso di velocità rilevato tramite autovelox, il quale ricorra in opposizione all’ordinanza-ingiunzione emessa a seguito della multa, ha l’onere di dimostrare che i segnali che indicano la presenza dell’autovelox siano inadeguati ad assolvere alla loro funzione, ovvero di avvisare che l’andatura dei veicoli è rilevata lungo la carreggiata da apparecchi elettronici, ed in assenza della volontà di cogliere di sorpresa i guidatori.
La vicenda
Alcuni automobilisti avevano convenuto, innanzi al competente giudice di pace, un comune, ricorrendo avverso i verbali di contestazione emessi dalla polizia municipale per eccesso di velocità accertato dalle postazioni di controllo fisse, poste su entrambi i sensi di marcia di una strada provinciale. Il giudice di prime cure aveva annullato tutti i provvedimenti sanzionatori impugnati, condannando il comune resistente alla rifusione delle spese di lite in favore degli stessi automobilisti. Il Comune impugnava la sentenza, ed il giudice di seconde cure ne confermava il dispositivo, pur modificandone la motivazione. La Cassazione, di contrario avviso, annulla la pronuncia rinviando al giudice d’appello in differente composizione.
La disciplina
Nel caso esaminato emerge l’applicabilità di una duplice normativa:
a) L’art. 142 C.d.S., comma 6 bis, il quale stabilisce che “le postazioni di controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità devono essere preventivamente segnalate e ben visibili, ricorrendo all’impiego di cartelli o di dispositivi di segnalazione luminosi, conformemente alle norme stabilite nel regolamento di esecuzione del presente codice”;
b) L’art. 3 del decreto del Ministro dei trasporti 15 agosto 2007, dove si stabilisce che “Le postazioni di controllo per il rilevamento della velocità sulla rete stradale possono essere segnalate: a) con segnali stradali di indicazione, temporanei o permanenti, b) con segnali stradali luminosi a messaggio variabile, c) con dispositivi di segnalazione luminosi installati su veicoli. I segnali stradali di indicazione di cui al comma 1, lettera a), devono essere realizzati con un pannello rettangolare, di dimensioni e colore di fondo propri del tipo di strada sul quale saranno installati. Sul pannello deve essere riportata l’iscrizione “controllo elettronico della velocità” ovvero “rilevamento elettronico della velocità”, eventualmente integrata con il simbolo o la denominazione dell’organo di polizia stradale che attua il controllo. I segnali stradali luminosi a messaggio variabile di cui al comma 1, lettera b), sono quelli già installati sulla rete stradale, ovvero quelli di successiva installazione, che hanno una architettura che consenta di riportare sugli stessi le medesime iscrizioni di cui al comma 2. I dispositivi di segnalazione luminosi di cui al comma 1, lettera c), sono installati a bordo di veicoli in dotazione agli organi di polizia stradale o nella loro disponibilità. Attraverso messaggi luminosi, anche variabili, sono riportate le iscrizioni di cui al comma 2. Se installati su autovetture le iscrizioni possono essere contenute su una sola riga nella forma sintetica: «controllo velocità» ovvero «rilevamento velocità»; l’ultimo comma della norma citata afferma che: «Si applicano in quanto compatibili le disposizioni degli articoli 77,78,79,80,81,82,124,125 e 170 d.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495”.
L’errore del giudice di seconde cure
I giudici ermellini, condividendo la tesi difensiva del Comune, rilevano che il giudice di seconde cure ha valorizzato il disposto di cui al comma IV dell’art. 80 del d.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, a norma del quale “Le dimensioni dei segnali, in caso di necessità, possono essere variate in relazione alla velocità predominante e all’ampiezza della sede stradale, previa autorizzazione del Ministero dei lavori pubblici - Ispettorato generale per la circolazione e la sicurezza stradale”, ritenendo che l’amministrazione non avesse assolto l’onere della prova, ad essa spettante, circa la velocità predominante sul tratto di strada interessato.
L’indirizzo di legittimità
La pronuncia in esame richiama, confermandolo, un consolidato orientamento, secondo il quale “In tema di opposizione a sanzione amministrativa in materia di circolazione stradale, per violazione di limite di velocità, qualora l’opponente deduca non già la mancanza della segnalazione stradale relativa a tale limite, ma soltanto la sua inadeguatezza, incombe a lui di dare prova, attraverso la dimostrazione di circostanze concrete, della sussistenza dell’allegata inadeguatezza, per inidoneità od insufficienza della segnaletica, e non invece alla P.A. di provare l’adeguatezza della segnaletica stessa” (Corte di Cassazione, Sez. I Civile, Sentenza n. 6242 del 21/06/1999).
L’onere della prova a carico dell’opponente
Per la Cassazione grava, quindi, su colui che propone l’opposizione all’ordinanza ingiunzione, e non sulla pubblica amministrazione convenuta, l’onere di provare l’inidoneità in concreto della segnaletica (di cui al d.m. 15 agosto 2007) ad assolvere la funzione di avviso della presenza delle postazioni di controllo della velocità, in modo da garantire il rispetto del limite dì velocità, in una logica ispirata non dalla volontà di cogliere di sorpresa l’automobilista indisciplinato, ma dalla tutela della sicurezza stradale, di riduzione dei costi economici, sociali ed ambientali derivanti dal traffico veicolare, nonché di fluidità della circolazione.

fonte:Autovelox: spetta al trasgressore dimostrare l’inidoneità della cartellonistica | Altalex

Violenza sessuale di gruppo anche se vittima ha assunto alcool o droghe volontariamente

Sussiste violenza sessuale di gruppo con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica anche se la vittima ha assunto alcool o droga di sua spontanea volontà.
E' quanto emerge dalla sentenza della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione del 4 ottobre 2017, n. 45589.
Secondo costante giurisprudenza di legittimità rientrano tra le condizioni di inferiorità psichica, di cui all'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, anche quelle conseguenti all'ingestione di alcolici o all'assunzione di stupefacenti, poiché anche in tal caso si realizza una situazione di menomazione della vittima che può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali dell'agente (Cass. pen., Sez. III, 17 settembre 2013, n. 38059; Cass. pen., Sez. III, 26 settembre 2016, n. 39800).
Secondo la difesa degli imputati, l'assenza di comportamenti di questi ultimi, diretti a cagionare lo stato di ubriachezza e lo stordimento da stupefacenti della vittima, esclude la sussistenza della violenza del reato, giacché la donna, nella fattispecie, si era volontariamente ubriacata ed aveva assunto sostanza stupefacente, aveva volontariamente fatto salire gli indagati in casa, aveva offerto loro da bere e mentre gli uomini parlavano in camera si era recata in camera da letto ove poi era stata raggiunta da costoro.
Secondo gli ermellini, le condizioni per esprimere un valido consenso al rapporto sessuale prescindono dalla condotta di cagionare l'incapacità o l'incoscienza; anche l'incapacità volontariamente cagionata deve valutarsi ai fini della sussistenza del consenso all'atto sessuale. Ciò che rileva non è tanto chi abbia cagionato lo stato di incapacità quanto se al momento degli atti sessuali la donna era o meno in grado di esprimere il consenso al rapporto con gli imputati.
Come confermato da recente giurisprudenza: “Integra il reato di violenza sessuale di gruppo, ex art. 609-octies c.p., con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica, la condotta di coloro che inducano la persona offesa a subire atti sessuali in uno stato di infermità psichica determinato dall'assunzione di bevande alcoliche, essendo l'aggressione all'altrui sfera sessuale connotata da modalità insidiose e subdole” (Cass. pen., Sez. III, 16 ottobre 2012, n. 40565).

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Nessuna foto delle nozze: matrimonio fittizio e permesso di soggiorno negato

Rari momenti di convivenza sotto lo stesso tetto. Lavoro lontano dalla casa coniugale. Per finire, dentro l’appartamento neanche una foto delle nozze. Tutti elementi che spingono a ritenere puramente formale il matrimonio contratto dallo straniero, un egiziano, con una donna italiana. Legittimo, di conseguenza, il ‘no’ alla sua richiesta di ottenere il permesso di soggiorno. Così la Cassazione, con sentenza n. 25333/2017.
Matrimonio. Per i giudici d’Appello ci sono tutti i presupposti per parlare di «matrimonio solo formale e di convenienza» tra l’egiziano e la sua coniuge italiana, matrimonio finalizzato perciò a «eludere le norme sull’immigrazione». Ciò comporta la conferma del «diniego del permesso di soggiorno per motivi familiari». Insufficiente, in sostanza, il richiamo al solo dato dell’ufficialità delle nozze tra lo straniero e la donna italiana.
Convivenza. Inutili si rivelano ora le ulteriori obiezioni proposte in Cassazione dal legale dell’egiziano. Per i giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, merita di essere pienamente condivisa la valutazione compiuta in Appello sulla concretezza del vincolo matrimoniale a cui si lega la richiesta del «permesso di soggiorno». Troppi gli elementi che minano l’ipotesi di nozze effettive e non di facciata. Più precisamente, si fa riferimento a «una generica convivenza prematrimoniale, tre volte al mese per due giorni consecutivi; una vita familiare con sporadici incontri non caratterizzati da altri comportamenti significativi della comunione spirituale e materiale tra coniugi; un posto di lavoro lontano dal luogo di residenza della moglie», e, per chiudere il cerchio, viene anche rilevato che «dalle note della Questura è emerso che lo straniero non è mai stato rinvenuto presso l’abitazione della moglie, né lì sono stati trovati oggetti o abiti indicativi della sua presenza, e nemmeno fotografie del matrimonio».
Anche per i magistrati della Cassazione ci si trova di fronte a un chiaro caso di «matrimonio formale» finalizzato ad «eludere le leggi sull’immigrazione». Di conseguenza, una volta accertata la fittizietà delle nozze, è logica la risposta negativa dello Stato all’ipotesi del «permesso di soggiorno» per lo straniero.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Nessuna foto delle nozze: matrimonio fittizio e permesso di soggiorno negato - La Stampa

sabato 28 ottobre 2017

Vaccini e autismo: negato il rilevante grado di probabilità scientifica

La Suprema Corte torna a pronunciarsi sul rapporto eziologico tra vaccinazioni e sindrome autistica e, più in particolare, sul ruolo della consulenza tecnica nei giudizi protesi al riconoscimento dell’indennizzo previsto dalla Legge 25 febbraio 1992, n. 210 del 1992 (“Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati”).
Nella vicenda in esame, il Tribunale, che aveva condiviso le conclusioni formulate dal medico nominato in giudizio, aveva concluso che il bambino avesse contratto la sindrome autistica, asseritamente a causa della somministrazione di taluni vaccini (antipoliomielite di tipo Sabin, antidifterica, antitetanica, antipertossica, antimorbillo, antiparotite,  antirosolia) allo stesso praticati nel quinquennio tra il 1998 e il 2003. In seguito, su ricorso del Ministero della Salute, la Corte territoriale aveva recepito le contrarie conclusioni del nuovo c.t.u., il quale aveva escluso la sussistenza del nesso di causalità tra la sindrome e le vaccinazioni.
La decisione resa in secondo grado viene quindi impugnata: i ricorrenti lamentano che la Corte territoriale abbia ignorato le critiche tecniche mosse alla c.t.u., in relazione alla diagnosi formulata ed alla validità sul piano scientifico delle conclusioni.
La VI Sezione civile di Piazza Cavour ha dichiarato il ricorso inammissibile, affermando che il giudice di seconde cure avrebbe recepito gli esiti del c.t.u. nominato nello stesso grado d’appello, che aveva valutato globalmente gli elementi acquisiti al giudizio: a) in relazione alla storia clinica del periziato, b) sulla base dei criteri temporali e della continuità fenomenica, c) in considerazione dello stato delle acquisizioni della scienza medica ed epidemiologica.
Ciò posto, per i giudici ermellini la pronuncia impugnata avrebbe superato, anche nella sostanza, le osservazioni critiche alla c.t.u.
Si aggiunga che lo stesso giudice era giunto al convincimento che “sussista la mera possibilità di una correlazione eziologica tra le vaccinazioni e la malattia, e non un rilevante grado di probabilità scientifica”. Il collegio di legittimità, sulla scorta di uno stabile orientamento (ex multis Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Sentenza 16 febbraio 2017, n. 4124: “(…) il difetto di motivazione, denunciabile in cassazione, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio e’ ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali secondo le predette nozioni non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura anzidetta costituisce mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico formale traducendosi, quindi, in un’inammissibile critica del convincimento del giudice”), ha perciò ribadito che il vizio della pronuncia che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, è ravvisabile soltanto in ipotesi di “palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi”, al contempo evidenziando che al di fuori di tale ambito la censura si esaurisce in una disapprovazione diagnostica, e quindi in un’inammissibile critica al convincimento del giudice.
In merito alla prova del nesso causale tra la somministrazione delle inoculazioni e il verificarsi dei danni alla salute, i giudici ermellini, convalidando l’operato del giudice di merito, hanno riaffermato che deve essere valutata secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica (ex multis Corte di Cassazione, Sezione VI civile, Ordinanza 29 dicembre 2016 n. 27449: “Le Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez. Unite, sentenza 11 gennaio 2008, n. 581), muovendo dalla considerazione che i principi generali che regolano la causalità materiale (o di fatto) sono anche in materia civile quelli delineati dagli articoli 40 e 41 c.p. e dalla regolarità causale, salva la differente regola probatoria che in sede penale e’ quella dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre in sede civile vale il principio della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, hanno precisato che la regola della “certezza probabilistica” non può essere ancorata esclusivamente alla determinazione quantitativa, statistica delle frequenze di classe di eventi (c.d. probabilità quantitativa), ma va verificata riconducendo il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica)”).
Infine, in merito alla censura avente ad oggetto l’omessa individuazione, ad opera del consulente d’ufficio, di una possibile eziologia alternativa, il collegio ha osservato che, nelle conclusioni peritali succitate, emerge che l’eziologia del disturbo autistico allo stato, risulta in gran parte sconosciuta.

fonte:Vaccini e autismo: negato il rilevante grado di probabilità scientifica | Altalex

Edilizia popolare: sì al subentro della figlia separata che torna in famiglia

La figlia che, separata dal marito, torna a vivere con la madre ha diritto a subentrarle nel contratto di locazione di un alloggio popolare. Così la Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 25411/2017 depositata ieri, ha respinto il ricorso dell'Ater contro la sentenza di merito che, aveva riconosciuto «il rientro nel nucleo familiare» come presupposto sufficiente del diritto della figlia a subentrare alla madre originaria locataria, poi deceduta.

La contestazione dell'Ater - Il punto discriminante, per l'Ater, era che la figlia non facesse parte del nucleo familiare al momento della conclusione del contratto originario. E quindi, non sarebbe corretto parlare di «rientro». Ma la Cassazione utilizzando il concetto di nucleo familiare ampliato, cui viene riconosciuto il diritto al subentro, lo ha applicato anche al caso della figlia sposata e non convivente col genitore al momento della conclusione del contratto. Dice la Cassazione che altrimenti perderebbe di significato la presa in considerazione dei figli come soggetti che possono subentrare nella locazione. Infatti, se fosse necessario essere parte del nucleo familiare «originario» al momento della stipula del contratto non avrebbe senso la norma della legge regionale Ater che prevede l'«ampliamento» del nucleo familiare nei confronti dei figli separati che vanno a vivere con il genitore assegnatario. Si arriverebbe cioè alla conclusione che nel nucleo familiare «ampliato» potrebbero rientrarvi solo quei figli che già vi erano al momento della stipula del contratto e che poi, a seguito di separazione vi fanno ritorno. Dalle considerazioni che precedono la Cassazione sostiene che sia appunto irrilevante far risalire l'appartenenza della figlia al nucleo familiare originario dell'assegnatario.

fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

venerdì 27 ottobre 2017

Parte la rottamazione “bis” delle cartelle, ecco come aderire

L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato i modelli per aderire alla cosiddetta rottamazione “bis” delle cartelle. Così si potrà regolarizzare il pagamento per i ruoli emessi dal primo gennaio al 30 settembre, per le cartelle per le quali era in atto una rateizzazione non versata e per i pagamenti delle prime due rate della prima rottamazione. I moduli si possono trovare sul sito dell’Agenzia.
La procedura era prevista dal “dl Fisco”. Con le rottamazioni vecchia e nuova si azzerano sanzioni e gli interessi di mora che con il passare degli anni fanno persino triplicare gli importi dovuti inizialmente al fisco.
Per aderire il contribuente deve presentare, entro il 15 maggio 2018, la propria richiesta di adesione compilando il modello disponibile online sul portale o negli sportelli dell’Agenzia. Il modulo può essere poi presentato agli stessi sportelli oppure, per chi ha una casella di posta elettronica certificata (pec), inviato - con copia del documento d’identità - all’indirizzo indicato sullo stesso modulo.
Entro il 30 giugno 2018 l’Agenzia dovrà quindi inviare la comunicazione con l’importo da versare e i bollettini di pagamento. La norma prevede che si possa pagare in unica soluzione (luglio 2018) o a rate, fino a un massimo di cinque.

fonte:Parte la rottamazione “bis” delle cartelle, ecco come aderire - La Stampa

Ex moglie senza lavoro per occuparsi della famiglia: diritto all’assegno divorzile

Il Tribunale di Milano ritiene sussistano i presupposti per riconoscere il diritto della ex moglie a vedersi corrispondere l’assegno divorzile poiché, alla luce della complessiva valutazione di tutti gli indici indicati dalla Suprema Corte nella sentenza n. 11504/2017 dello scorso maggio, la stessa non può certo ritenersi economicamente indipendente, soprattutto in ragione della mancanza di un reddito da lavoro certo e stabile su cui fare affidamento e della ragionevole impossibilità oggettiva, data l’età, di poterselo procurare.
Apporto alla conduzione familiare. Dal punto di vista del “quantum”, il Tribunale conferma la misura dell’assegno stabilita in sede di separazione ritenendola ancora idonea a consentire alla convenuta un’esistenza libera e dignitosa, considerate sia le capacità reddituali dell’ex marito che, pur ridimensionate, restano significative, sia l’apporto personale dato dalla donna alla conduzione familiare e la significativa durata del matrimonio.
Imposizione fiscale. Si deve, poi, valutare anche la diversa incidenza fiscale per le parti: per la beneficiaria, infatti, l’imposizione fiscale riduce l’importo effettivamente percepito rispetto alla misura stabilita mentre, invece, l’uomo beneficia di una deduzione di pari entità dal proprio reddito complessivo.

Fonte: ilfamiliarista.it/Ex moglie senza lavoro per occuparsi della famiglia: diritto all’assegno divorzile - La Stampa

mercoledì 25 ottobre 2017

Processo amministrativo telematico, dal 1 novembre il contributo unificato si paga solo on line

Il 19 luglio è uscito sulla “Gazzetta Ufficiale” un decreto del ministero delle Finanze che rende esclusiva la via telematica per il versamento del contributo unificato dovuto per i ricorsi promossi davanti al giudice amministrativo, i riscorsi straordinari al presidente della Repubblica e quelli al presidente della Regione siciliana. Il Dm entra in vigore il primo giorno del secondo mese successivo alla pubblicazione in Gazzetta e quindi il 1 novembre.

Sono state predisposte le istruzioni per il pagamento telematico. Innanzitutto viene chiarito che si può usare solo il modello «F24 Versamenti con elementi identificativi» il cosiddetto F24 Elide. Per consentire la compilazione del modello sono stati individuati i codici tributo e i codici identificativi degli uffici. La quietanza di pagamento viene rilasciata al termine dell’operazione di pagamento se viene eseguito attraverso il portale dell’Agenzia dell’entrate. Se invece il pagamento viene fatto da un intermediario, come per esempio un sevizio di home banking, la quietanza sarà disponinile dopo qualche giorno. È indispensabile avere la quietanza di pagamento per inserire i dati del versamento nel modulo di deposito. Nelle istruzioni si chiarisce inoltre che per i moduli di deposito è possibile fino al 31 dicembre 2017 inserire versamenti fatti con le vecchie modalità di pagamento come la cartella esattoriale, lottomatica, la posta o l’ F23.

fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

Solo l’imprevedibilità del pedone diminuisce la responsabilità dell'automobilista

La Corte di Cassazione Penale sez. IV, con la sentenza n. 45795 del 5 ottobre 2017 esamina la vexatia questio del comportamento del pedone e della responsabilità dell'automobilista in un incidente stradale . Un automobilista appella la sentenza del Tribunale di Nola che l'aveva condannato per il reato di omicidio colposo aggravato per aver causato la morte di un pedone, per imperizia, negligenza e imprudenza consistite nella circostanza che percorrendo una strada con limite di velocità di 50 km/h viaggiava a velocità quasi doppia al limite imposto. La Corte territoriale ha parzialmente riformato la decisione del Tribunale ritenendo le già concesse attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e rideterminato la pena, revocando le statuizioni civili e confermando nel resto. Anche avverso detta sentenza l'imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo sia vizio della motivazione con riferimento al metodo espositivo utilizzato dal giudice avuto riguardo alle doglianze formulate con il gravame, anche con riferimento alla invocata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, finalizzata alla verifica della condizione di tossicodipendenza della vittima sia violazione di legge, con riferimento alla valutazione degli elementi di prova, con specifico riferimento alla velocità, avendo la Corte ritenuto approssimata per difetto quella di 94 Km/h individuata dal consulente del pubblico ministero, a fronte delle conclusioni del consulente dell'imputato che aveva attestato la stessa a 74 Km/h, sia con riferimento alla valutazione della percepibilità dell'auto da parte del pedone.

La decisione della corte - Gli Ermellini dichiarano inammissibile il ricorso ricordando che la Corte ha già chiarito che è legittima la motivazione per relationem della sentenza di secondo grado, che recepisca in modo critico e valutativo quella impugnata, limitandosi a ripercorrere e ad approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da parte della difesa, ed omettendo di esaminare quelle doglianze dell'atto di appello, che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice. Per quanto concerne la pretesa apoditticità ritenuta dalla Corte territoriale che la velocità tenuta dall'imputato fosse, cioè, addirittura superiore a 94 km/h, oltre ad essere smentita dagli elementi fattuali ai quali i giudici hanno agganciato le proprie conclusioni , violenza dell'impatto e sue conseguenze sulla vittima, è del tutto irrilevante, alla luce dello stesso parere del consulente della difesa, in base al quale la velocità del mezzo era tale da superare considerevolmente quella prevista in quel tratto di strada. Con riguardo alla percepibilità dell'auto in tema di reati commessi con violazione di norme sulla circolazione stradale il comportamento colposo del pedone investito dal conducente di un veicolo costituisce mera concausa dell'evento lesivo, che non esclude la responsabilità del conducente e può costituire causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento, soltanto nel caso in cui risulti del tutto eccezionale, atipico, non previsto né prevedibile, cioè quando il conducente si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone ed osservarne per tempo i movimenti, che risultino attuati in modo rapido, inatteso ed imprevedibile, poiché l'utente della strada deve regolare la propria condotta in modo che essa non costituisca pericolo per la sicurezza di persone e cose, tenendo anche conto della possibilità di comportamenti irregolari altrui, sempre che questi ultimi non risultino assolutamente imprevedibili

fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

Trojan per intercettazioni nelle indagini, via libera dalla Cassazione

È una vicenda dove i trojan sono protagonisti. Utilizzati dagli indagati per spiare sulle loro vittime - almeno secondo l’ipotesi dell’accusa - ma anche dagli inquirenti. E poi finiti al centro di uno scontro legale, con tanto di esposto degli indagati contro il pm e la polizia postale, e ora una sentenza della Cassazione.
IL CASO OCCHIONERO
Stiamo parlando dell’indagine su una campagna di cyberspionaggio condotta contro un gran numero di professionisti e politici italiani, il caso Eyepyramid, dal nome del software malevolo utilizzato. Una vicenda che aveva portato lo scorso gennaio a un provvedimento di custodia cautelare nei confronti di Giulio e Francesca Maria Occhionero, noti da allora sui media come i fratelli Occhionero e accusati di essere dietro tale campagna di intrusioni informatiche e raccolta di informazioni. I due però avevano respinto gli addebiti. E avevano anche impugnato l’ordinanza di custodia cautelare su una serie di questioni, inclusa la legittimità dell’utilizzo di un trojan sul computer degli indagati da parte degli inquirenti. In sostanza, secondo i fratelli Occhionero, nel loro caso i trojan di Stato non si potevano utilizzare e di conseguenza i risultati raccolti dovevano considerarsi inutilizzabili.
I TROJAN DI STATO
Stiamo parlando di quei software - definiti spesso dagli inquirenti anche captatori informatici, agenti intrusori, virus autoinstallanti - utilizzati da anni dalle forze dell’ordine e dalle procure nel corso delle indagini. Di fatto sono software malevoli, spyware, software spia a tutti gli effetti: dopo aver infettato un dispositivo (smartphone, tablet, pc) sono in grado di accedere a tutta la sua attività (comunicazioni telefoniche, mail, chat, foto, Skype, navigazione web, file); di scattare foto dello schermo; di attivare microfono e videocamere per effettuare intercettazioni ambientali.
Uno strumento potente e invasivo su cui in questi ultimi anni si stanno giocando varie partite. Con tentativi di legiferare al riguardo, regolamentandolo, da parte del Parlamento, che però alla fine sono stati ridotti a una delega al governo, che rischia di tagliare con l’accetta molte complessità tecniche e giuridiche del mezzo. E con sentenze che ne inquadravano magari solo dei pezzi, delle funzioni specifiche, tralasciando altri aspetti (vedi quella dell’aprile 2016 delle sezioni unite della Cassazione).
LA SENTENZA SUL RICORSO OCCHIONERO
Ora l’ultima novità è che la corte di Cassazione, in una sentenza depositata il 20 ottobre, ha ritenuto infondato il motivo del ricorso di Occhionero, di fatto aprendo a ulteriori utilizzi delle funzioni dei trojan. Ed estendendo il loro impiego per più tipologie di reato.
Ma che cosa contestavano gli Occhionero?
Che i risultati raccolti col trojan fossero inutilizzabili per due motivi:
1) il trojan era stato usato nel computer di casa dell’indagato, ma secondo loro una precedente pronuncia delle sezioni unite della Cassazione, la “Scurato”, permetteva simile utilizzo (in casa, luogo particolarmente protetto dalla nostra legge) solo per reati di criminalità organizzata
2) che il trojan non era stato utilizzato per intercettare flussi telematici (non era dunque intercettazione telematica come prevista dall’art 266-bis del codice di procedura penale), cioè non captava i dati in transito dal pc alla rete, bensì dei dati in tempo reale in un certo schermo o supporto, facendo ad esempio screenshot, fotografie del monitor. La differenza è che nel primo caso si parla di intercettazione telematica, nel secondo di perquisizione/ispezione.
LE MOTIVAZIONI DELLA CORTE
Allora, la sentenza della Cassazione ha risposto così:
1) Sul primo punto la pronuncia delle Sezioni Unite (“Scurato”) si riferiva solo a una funzione specifica del trojan, che non riguardava l’intercettazione telematica effettuata nel caso Occhionero, bensì l’intercettazione delle comunicazioni tra presenti. Cioè quella funzione del trojan che attiva il microfono del dispositivo trasformandolo in una cimice ambientale e registrando l’audio attorno. Inoltre, anche stando a quella pronuncia, la Corte limitava sì l’uso dentro casa di quella funzione del trojan solo a delitti di criminalità organizzata. Ma non escludeva comunque l’utilizzo del trojan nei casi in cui il reato fosse compiuto in casa, in cui l’abitazione fosse sede dell’attività criminale. Sopratutto, quella pronuncia non escludeva l’utilizzo del trojan per le intercettazioni telematiche, sottolinea ora la sentenza. Che fa anche un riferimento al disegno di legge di riforma del processo penale che ha dato delega al governo di rivedere le intercettazioni, incluso l’uso dei trojan: anche in quel caso, sostiene la sentenza, si disciplinano solo le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante trojan, perché sarebbe la modalità ritenuta “più invasiva”.
Ricapitolando: quella pronuncia delle Sezioni Unite riguardava solo l’intercettazione tra presenti, di tipo ambientale, e non “la captazione che ha interessato l’Occhionero”. E non si può trarre da quella pronuncia un principio generale sulle intercettazioni telematiche.
2) Sul secondo punto la sentenza della Cassazione replica semplicemente che il trojan sarebbe stato usato nell’indagine sia per fare intercettazioni telematiche (del flusso di comunicazioni) sia captazioni (screenshot) di contenuti del pc. E che spettava all’indagato specificare quali di questi ultimi dati (quelli captati sul pc) fossero inutilizzabili e quanto pesassero sull’insieme degli indizi. “Il che non risulta essere stato fatto”, dice la sentenza.
L’IMPATTO DELLA SENTENZA SUI TROJAN
Insomma, secondo questa sentenza l’uso del trojan - anche con diverse funzioni - nell’indagine era lecito. Ma, al di là della vicenda giudiziaria specifica, può avere anche ripercussioni più in generale su come verranno utilizzati i trojan?
“Sì purtroppo - risponde l’avvocato Fulvio Sarzana, il primo a segnalare pubblicamente la sentenza - Perché la sentenza affronta proprio il tema delle intercettazioni telematiche attraverso i trojan. Ora sappiamo che questi strumenti si possono usare anche per tutti i reati che prevedono intercettazioni telematiche (art 266-bis), ovvero anche reati commessi con l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche”.
“È una sentenza che fa giurisprudenza ma il problema sono le premesse perché la pronuncia “Scurato” delle sezioni unite si preoccupava proprio dell’invasività delle altre attività del trojan”, commenta l’avvocato Stefano Aterno. “Non è vero che le intercettazioni audio, fatte tra presenti, siano più invasive di una captazione di dati non comunicativi fatta da remoto, che di fatto è una perquisizione occulta. E in tal caso non si tratta di una intercettazione telematica ma di una attività di ispezione/perquisizione che dovrebbe essere poi notificata all’indagato”.
“Il punto è che questa sentenza considera solo l’intercettazione tra presenti, senza riprendere le preoccupazioni delle sezioni unite sull’invasività dello strumento e della sua incidenza sulle libertà fondamentali”, ribadiscono anche gli avvocati Giovanni Battista Gallus e Francesco Micozzi. “È un punto che contrasta col principio di proporzionalità della misura sottolineato anche dalla Corte europea dei diritti umani sulle intercettazioni. E poi azzera le differenze tra perquisizione e intercettazione, dicendo che è onere della difesa dimostrare se certe prove sono state prese in un modo o nell’altro”.
Ma se capti dati dentro il dispositivo, e non un flusso di comunicazioni tra due apparecchi, quella è una ispezione o perquisizione, notano ancora Gallus e Micozzi. Che ribadiscono: “Soprattutto la sentenza apre all’uso dei trojan per reati meno gravi ma commessi con mezzi informatici, inclusa anche la diffazione on line"

Fonte:Trojan per intercettazioni nelle indagini, via libera dalla Cassazione - La Stampa

Autovelox, supera limite di 1,3 km/h: per la Cassazione la multa è legittima

La multa per eccesso di velocità rilevata con l’autovelox è legittima, e deve essere pagata, anche se il limite è stato superato - tenuto conto delle soglie di tolleranza - di 1,3 km/h. Lo ha stabilito la sesta sezione civile della Cassazione nel confermare la decisione presa nel 2016 da un giudice di pace di Torino.
Nel 2013 una società venne multata dalla prefettura perché una delle sue auto era stata immortalata mentre percorreva una strada del capoluogo piemontese a 76,3 km/h a fronte di un limite di 70. Il margine di tolleranza previsto per legge è di 5 km/h, che in questo caso, dunque, era stato oltrepassato di 1,3 km/h. La società ha sostenuto che lo scarto non poteva essere rilevato dal conducente: i magistrati hanno affermato che 6,3 km/h sono «percepibili» e non riconducibili a una accelerazione involontaria.
La sanzione, tenuto conto delle spese, è di 73,44 euro.

Fonte:Autovelox, supera limite di 1,3 km/h: per la Cassazione la multa è legittima - La Stampa

domenica 22 ottobre 2017

Mutuo, detrazione degli interessi in caso di morte del coniuge

L’Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione 129/E, precisa che «il coniuge superstite può usufruire della detrazione per gli interessi passivi e oneri accessori relativi al mutuo ipotecario contratto per l’acquisto dell’abitazione principale».
Mutuo. Ok alla detrazione degli interessi passivi ed oneri accessori relativi al mutuo ipotecario contratto da marito e moglie per l’abitazione principale, nel caso in cui uno dei due coniugi venga a mancare. È il chiarimento fornito dall’Agenzia delle Entrate con la Risoluzione 129/E pubblicata ieri.
Nel caso in esame, l’istante aveva contratto un mutuo ipotecario di ristrutturazione insieme al coniuge, del valore di 140mila euro, nel 2011. Nel 2013 il coniuge era morto e l’istante si era interamente accollato il mutuo. Tuttavia, in sede di assistenza, gli è stata negata la detraibilità di tutti gli interessi passivi sostenuti e riconosciuta soltanto la detraibilità del 50% degli stessi.
L’istante, dunque, si rivolgeva alle Entrate chiedendo se, a seguito della morte della moglie e della successiva voltura di detto finanziamento a suo nome, possa detrarsi l’intera quota di interessi passivi, così come accade in caso di morte di un mutuatario contitolare di un contratto di acquisto dell’abitazione principale.
Detrazione. L’Agenzia ha risposto all’interpello osservando che «il coniuge superstite può usufruire della detrazione per gli interessi passivi e oneri accessori relativi al mutuo ipotecario contratto per l’acquisto dell’abitazione principale, di cui è contitolare insieme al coniuge deceduto, a condizione che provveda a regolarizzare l’accollo del mutuo». Tale orientamento, era stato fornito con riferimento al contratto di mutuo stipulato per l’acquisto dell’abitazione principale; tuttavia, «si ritiene che, per motivi di coerenza e sistematicità, lo stesso principio possa applicarsi nel caso in cui il contratto sia stato stipulato per ristrutturare l’abitazione principale».

Fonte: www.fiscopiu.it/Mutuo, detrazione degli interessi in caso di morte del coniuge - La Stampa

Cannabis ad uso terapeutico: la Camera passa il testo al Senato

Nella seduta di ieri 19 ottobre 2017, la Camera ha approvato la proposta di legge in tema di utilizzo della cannabis a fini terapeutici. Il testo, che passa ora all’esame del Senato, si propone di disciplinare sotto il profilo organizzativo e procedurale l’utilizzo di farmaci contenenti cannabinoidi nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale.
Il disegno di legge. Il provvedimento, che passa ora all’esame del Senato, modifica il testo unico in materia di stupefacenti di cui al d.P.R. n. 309/1990 semplificando le procedure per la prescrizione di farmaci contenenti derivati naturali o sintetici della cannabis, consentendone la somministrazione anche in ambito ospedaliero e l’acquisto all’estero solo quando altri farmaci disponibili si rivelino inefficienti o inadeguati.
Il testo prevede poi che, con regolamento emanato del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro della salute di concerto con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, verranno disciplinati i criteri per l’individuazione di aree idonee e modalità di coltivazione della cannabis indica, finalizzata esclusivamente a soddisfare il fabbisogno nazionale di preparati medicinali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Cannabis ad uso terapeutico: la Camera passa il testo al Senato - La Stampa

Il padre non era informato dei brutti voti del figlio: il Tar annulla la bocciatura

Come una pallina da ping pong. Si sposta di scuola a seconda delle esigenze dei genitori separati. Prima a Gorizia, poi a Trieste, quindi ancora in riva all’Isonzo. I risultati scolastici sono altrettanto altalenanti: bocciato in prima media, promosso senza particolari patemi l’anno successivo, quando l’ha ripetuta. Altro brusco stop alla fine della seconda, ma stavolta a garantire la promozione ci pensa il Tar del Friuli Venezia Giulia, che accoglie il ricorso del papà.
«Non mi hanno informato della progressiva mancanza di impegno e applicazione», contesta l’uomo. E i giudici gli danno ragione: «La scuola ha violato le precise indicazioni contenute nella circolare ministeriale 5336/2015, volta a tutelare la bigenitorialità in ambito scolastico». Del negativo andamento del ragazzo, infatti, i professori e la dirigente aveva «relazionato esclusivamente alla madre, ben sapendo - rilevano i giudici - che era stato disposto l’affidamento congiunto a entrambi i genitori». «La scuola - sottolinea ancora il Tar - era ben consapevole delle difficoltà che il ragazzo incontrava in dipendenza dalla difficile separazione della coppia, sfociata in una situazione fortemente conflittuale tra i coniugi».
Risultato? È stata presentata una diffida alle autorità scolastiche per spostare, con effetto immediato, il ragazzino in terza, così da poter sostenere gli esami finali a giugno: non però nel vecchio istituto - dove ha collezionato solo bocciature -, ma nel plesso in cui è stato iscritto lo scorso settembre.
L’inattesa promozione arriva al culmine di un periodo sconfortante sotto il profilo dell’impegno dell’allievo: «La sua situazione è peggiorata nel corso dell’anno poiché - afferma la scuola, estrapolando dalla sentenza del Tar - ha manifestato poco impegno, scarso interesse e atteggiamenti non collaborativi. Nonostante gli interventi degli insegnanti, mirati a recuperare la delicata situazione dello studente - concludono i professori -, egli non si è dimostrato disponibile a concretizzare positivamente con risultati adeguati, aggravando la sua posizione con reiterate assenze».
Secondo il Tar, però, «il comportamento omissivo della scuola ha impedito al padre del ragazzo, ove tempestivamente informato della situazione scolastica del figlio, di adottare una serie di rimedi», come era successo in un precedente anno scolastico, concluso con esito positivo quando il giovane è stato seguito dal papà e ha evidenziato capacità di recupero.
«Era molto combattuto se ricorrere alla giustizia per vedere riconosciuti i propri diritti - fa l’avvocato dell’uomo, Alessandro Tudor -: alla fine ha scelto di dare battaglia per l’amore che nutre nei confronti di questo ragazzino, che avrebbe voluto aiutare. Una circostanza che gli è stata impedita dalla totale assenza di comunicazioni. Nell’unico colloquio con i docenti, cui si è presentato personalmente, gli avevano parlato di difficoltà generiche, comunque superabili. Ha saputo della bocciatura solo dai tabelloni esposti alle vetrate della scuola».

Fonte:Il padre non era informato dei brutti voti del figlio: il Tar annulla la bocciatura - La Stampa

martedì 17 ottobre 2017

Lavoro domestico, nessun obbligo di comunicare l’infortunio lieve

I datori di lavoro domestici non hanno l’obbligo di comunicare all’INAIL gli infortuni sul lavoro lievi, anche quando si tratta di prestazioni occasionali. È quanto precisa Assindatcolf in relazione al nuovo adempimento, previsto dal 12 ottobre, di comunicare telematicamente i dati relativi ad infortuni che comportino l’assenza di un giorno (ad esclusione di quello in cui avviene l’evento).
Comunicazione. Pertanto, come si legge nel Comunicato stampa dell’Associazione Nazionale dei Datori di Lavoro Domestico emanato il 13 ottobre 2017, il datore di lavoro domestico rimane obbligato alla sola comunicazione degli infortuni con prognosi superiore ai tre giorni, utilizzando l’apposito modulo 4bis RA, tramite PEC o raccomandata A/R.

Fonte: www.lavoropiu.info/Lavoro domestico, nessun obbligo di comunicare l’infortunio lieve - La Stampa

domenica 15 ottobre 2017

Locazioni brevi: i chiarimenti delle Entrate

A quali contratti si applica la nuova disciplina sulle locazioni brevi, chi sono gli attori coinvolti, cosa devono fare intermediari e locatori, chi opera le ritenute ed effettua le comunicazioni dei dati relativi ai contratti. Sono questi i punti centrali della circolare n. 24/E, con cui l’Agenzia delle Entrate chiarisce il perimetro degli adempimenti, anche alla luce delle questioni emerse nel corso del tavolo di confronto con le associazioni di categoria e i principali operatori interessati.
Focus sulle caratteristiche dei contratti - Secondo quanto previsto dal Dl 50/2017 (manovra correttiva 2017), ai redditi che derivano dai contratti di locazione breve, stipulati dal 1° giugno 2017, può applicarsi, su opzione del locatore, il regime della cedolare secca con l’aliquota del 21%. Sono considerate locazioni brevi quelle di durata inferiore a 30 giorni, anche per finalità turistiche. Il termine deve essere considerato in relazione ad ogni singolo contratto, anche nel caso di più contratti stipulati nell’anno dalle stesse parti. Le nuove norme si applicano esclusivamente ai contratti stipulati tra persone fisiche che agiscono al di fuori dell’attività di impresa.
Tipologia di immobili e servizi - Quanto agli immobili, restano fuori dalle nuove regole quelli situati all’estero e quelli che non hanno finalità abitative: la locazione deve quindi riguardare unità immobiliari situate in Italia e appartenenti alle categorie catastali da A1 a A11 (esclusa la A10 - uffici o studi privati) e le relative pertinenze (box, posti auto, cantine, soffitte, ecc), oppure singole stanze dell’abitazione. Il contratto può avere ad oggetto, oltre alla messa a disposizione dell’alloggio, la fornitura di biancheria, la pulizia dei locali, e tutti quei servizi strettamente funzionali alle esigenze abitative di breve periodo, come, ad esempio, la fornitura di collegamento wi-fi e di aria condizionata. Restano invece fuori i contratti che includono servizi non necessariamente correlati con la finalità residenziale dell’immobile, come per esempio la colazione, la somministrazione dei pasti, la messa a disposizione di auto a noleggio o di guide turistiche. La circolare chiarisce inoltre che non è richiesta l’adozione di un particolare schema contrattuale.
I chiarimenti sulle sanzioni - Le ritenute si applicano ai canoni e ai corrispettivi derivanti da contratti stipulati a partire dal 1° giugno 2017: gli intermediari erano quindi tenuti a versarle entro il 16 luglio 2017. Tuttavia, nel rispetto dello Statuto dei diritti del contribuente e tenendo conto delle iniziali difficoltà incontrate dagli operatori, gli uffici dell’Agenzia potranno escludere le sanzioni per l’omessa effettuazione delle ritenute fino all’11 settembre 2017. Gli intermediari saranno comunque sanzionabili per le omesse o incomplete ritenute da effettuare a partire dal 12 settembre e da versare entro il 16 ottobre 2017. Resta in ogni caso fermo l’obbligo di comunicazione dei dati dei contratti stipulati a partire dal 1° giugno 2017 poiché l’adempimento deve essere effettuato nel 2018. Sull’argomento, la circolare chiarisce che l’incompleta o errata comunicazione dei dati del contratto non è sanzionabile se causata dal comportamento del locatore.
Gli intermediari coinvolti e l’applicazione della ritenuta - Le nuove regole riguardano tutti i soggetti attraverso i quali vengono stipulati contratti di locazione breve, a prescindere dal fatto che siano residenti o abbiano una stabile organizzazione in Italia. Non rilevano né la forma giuridica del soggetto che intermedia (forma individuale o associata) né la modalità con cui l’attività è svolta (che può riferirsi ai contratti di locazione stipulati on line e off line). La ritenuta va operata sull’intero importo indicato nel contratto di locazione breve che il conduttore è tenuto a versare al locatore. In ogni caso la materiale disponibilità delle somme impone all’intermediario di effettuare il prelievo del 21% a titolo di ritenuta da versare all’erario. In caso di pagamento tramite assegno bancario intestato al locatore, l’intermediario, non avendo la materiale disponibilità delle risorse finanziarie, non è quindi tenuto a trattenere la ritenuta, anche se l’assegno è consegnato al locatore per il suo tramite.

fonte:www.altalex.com/Locazioni brevi: i chiarimenti delle Entrate | Altalex

Movida rumorosa. Il Comune di Brescia condannato a risarcire i residenti

Novanta decibel che trapanano le orecchie. Anche di più nel week end. Per 5 anni di seguito. La chiamano movida. Per Gianfranco Paroli, ex bancario, pensionato, aria tranquilla, appartamento al Carmine, una delle zone più cool di Brescia, è solo una tortura: «A casa non possiamo guardare la televisione o leggere un libro. Non riusciamo nemmeno a parlare tra di noi». In 5 anni lui e la moglie Piera le hanno tentate tutte: richieste gentili agli avventori, telefonate alla polizia locale, due esposti, una lettera al sindaco di prima Adriano Paroli di Forza Italia che era pure suo fratello. Ha persino tentato di buttarsi in politica con una lista contro il suddetto fratello ma poi si è ritirato, fino alla denuncia in Procura contro il Comune.
La causa civile è iniziata 3 anni fa. Il giudice Chiara D’ambrosio, in tempi record, alla fine gli ha dato ragione imponendo al Comune di versargli 50 mila euro come risarcimento per danni biologici e patrimoniali. Il linguaggio è da legulei ma la sostanza è chiara. Il risarcimento è dovuto «a causa del rumore antropico per gli schiamazzi di avventori di alcuni locali che stazionano nei pressi dei locali su suolo pubblico».
 Ma pagare non basta. Il giudice impone che il Comune si dia una mossa: «Deve quindi essere ordinata al Comune convenuto la cessazione immediata delle emissioni rumorose denunciate mediante l’adozione dei provvedimenti opportuni più idonei allo scopo. Vi è stata una carenza di diligenza da parte del Comune convenuto».
Detta così è facile. Ma nel quartiere del Carmine una volta terreno di conquista dei tossici e ora serpente di locali con tavolini gazebo stufe a fungo e centinaia e centinaia di avventori con birretta incorporata, imporre la quiete pubblica è come andare in Vietnam a fare la guerra. Gianfranco Paroli non ha nessuna intenzione di togliersi l’elmetto: «Come è scritto in sentenza ho anche provato a vendere la casa ma nessuno la vuole. La movida incontrollata e i graffiti sui muri deprezzano i costi delle case. Adesso mi aspetto che il Comune intervenga per riportare un po’ di calma. D’estate anche alle 4 del mattino ho 1000 persone sotto casa. I vicoli amplificano il rumore».
Paroli non è solo. Di casi come il suo ce ne sono a migliaia. Simonetta Chierici del Coordinamento Nazionale No Degrado e Malamovida si augura che tutti i Comuni si adeguino: «Sentenza storica che crea un importante precedente. I Comuni che sperano di risollevare il centro favorendo il caos non sono solo responsabili moralmente. Abbiamo il diritto alla tranquillità e al riposo». La patata bollente ora è nelle mani del Comune di Brescia. Il sindaco di prima Adriano Paroli, oggi coordinatore di Forza Italia in Veneto, ha qualche imbarazzo: «Gianfranco ha quasi avuto un esaurimento nervoso per questo. Prima che ritirasse la sua lista alle amministrative cercarono di speculare politicamente sulla vicenda. Da sindaco delegai il problema all’assessorato competente. Sulla sentenza non dico niente, non l’ho letta».
Il sindaco attuale, Emilio Del Bono del centrosinistra, lascia parlare l’assessore alla Sicurezza Valter Marchetti: «Presenteremo ricorso in appello. Ma i problemi con la vecchia amministrazione erano più gravi. È una sentenza eccessiva, inaccettabile e inefficace. Abbiamo imposto che i locali chiudano a un’ora certa. Sul posto ci sono le pattuglie. Ma quattro vigili di fronte a migliaia di persone possono poco. Non sono eroi. Alla chiusura dei locali arrivano i mezzi per la pulizia delle strade. Vogliamo mettere il bavaglio alle realtà che fanno schiamazzi ma devono intervenire polizia e carabinieri. Questo è un problema di ordine pubblico». Come se ne uscirà si vedrà. Gianfranco Paroli e sua moglie possono intanto festeggiare. Senza fare troppo rumore.

fonte:www.lastampa.it/Movida rumorosa. Il Comune di Brescia condannato a risarcire i residenti - La Stampa

Ruba caramelle sul lavoro, i giudici della Cassazione: giusto il licenziamento

Rubare le caramelle, un furtarello da meno di 10 euro, può costare il posto al dipendente di un supermercato. La Cassazione ha confermato il licenziamento per giusta causa di un addetto al rifornimento degli scaffali trovato a fine turno in possesso di merce (di poco valore) che non aveva pagato. Ad avviso della Corte il comportamento «fraudolento» ha minato in maniera irreversibile il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
All’uscita dal supermercato era scattato l’allarme antitaccheggio, attivato da adesivi invisibili posti sui pacchetti di gomme e caramelle, ma il dipendente non era riuscito a spiegare la loro presenza nelle sue tasche. Aveva parlato di un piano contro di lui architettato dal capo della sicurezza, che avrebbe voluto incastrarlo. Ma il giudice non aveva riscontrato alcuna prova per tali accuse e aveva confermato il licenziamento, nonostante il dipendente non avesse precedenti disciplinari. La decisione era stata confermata dalla Corte d’Appello di Napoli. L’ex dipendente è stato condannato anche a pagare le spese di giudizio in Cassazione, per oltre 3.500 euro.

fonte:www.lastampa.it/Ruba caramelle sul lavoro, i giudici della Cassazione: giusto il licenziamento - La Stampa

Comune responsabile per il suicidio sul luogo di lavoro del vigile depresso

Il Comune è responsabile per il suicidio sul luogo di lavoro del vigile urbano depresso. Avrebbe dovuto adottare misure più incisive in grado di evitare la tragedia. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 23952/2017 depositata ieri, che ha reso definitiva la sentenza d'Appello, respingendo il ricorso dell'ente locale.
La vicenda - Il Comune di Roma dovrà risarcire la famiglia di un vigile urbano che si era tolto la vita nel 2003 negli uffici della motorizzazione. L'uomo soffriva di depressione e aveva già manifestato l'intenzione di suicidarsi tanto che per questo gli era stata ritirata l'arma di servizio. Nonostante questo l'uomo era riuscito a prendere da un cassetto la pistola di un collega e si era sparato.
La moglie e la figlia dell'uomo avevano chiamato in causa il Comune e il collega: dopo il ritiro dell'arma non erano state prese precauzioni ulteriori, come armadietti blindati, e la pistola con cui il vigile si era sparato era di fatto incustodita.
In primo grado il tribunale aveva negato il risarcimento. Secondo il giudice, il Comune non aveva poteri per intervenire con maggiore incisività.
La decisione - La decisione era stata ribaltata dalla Corte d'Appello di Roma, che nel 2015 ma aveva ritenuto configurabile la responsabilità del Comune, dal momento che la decisione di suicidarsi non era stata improvvisa e imprevedibile e come tale inevitabile. I superiori, secondo i giudici d'appello, avrebbero dovuto evitare che le armi venissero lasciate a vista e allertare esplicitamente il collega di stanza del pericolo. Bastava che fossero adottate modalità di custodia diverse, controllandone l'effettivo rispetto, oppure si poteva sospendere il vigile dal servizio, come misura di estrema cautela.
Nel ricorso in Cassazione il Comune ha messo in discussione il nesso causale stabilito sostenendo che la presenza, estemporanea e del tutto fortuita della pistola, frutto della dimenticanza del collega, non è stata la causa del suicidio ma una semplice occasione. Di fronte a questa casualità, ogni precauzione ulteriore non avrebbe potuto impedire l'evento.
La Cassazione, però, si è attenuta ai fatti già accertati in sede d'Appello: il collega titolare della pistola non era stato avvisato del pericolo di suicidio. Ha dichiarato, perciò, inammissibile il ricorso dell'ente locale.
Ne esce pulito il collega per il quale già la Corte d'appello aveva escluso ogni responsabilità non potendo provare che questi sapesse delle difficoltà e del ritiro dell'arma.

fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

giovedì 12 ottobre 2017

Non si compensa il rosso sul conto con i titoli invenduti

Niente compensazione, tra la somma accertata a debito dei correntisti e il valore stimato dei titoli depositati e non ancora venduti. In tal caso, infatti, sul conto deposito e amministrazione titoli non vi è alcuna consistenza in denaro, ma soltanto un credito, né liquido, né esigibile.
Lo puntualizza la Corte di Appello di Napoli, con sentenza n. 3540 del 13 luglio 2017 (presidente Sensale, relatore Marinaro). Muove la questione, il decreto ingiuntivo emesso nei confronti di due correntisti. Atto, con cui si chiedeva di provvedere, in solido, al pagamento della somma di circa 25 mila euro, derivante dall'apertura di credito concessa dalla banca. I due si oppongono – adducendo, tra l'altro, l'infondatezza della pretesa e la nullità del contratto – e chiedono, in via subordinata, la compensazione del saldo con il credito della banca che fosse risultato esigibile.
L'istituto contesta la tesi dei clienti, ma il Tribunale la accoglie, seppur parzialmente, e dichiara nulla l'ingiunzione, disponendo la compensazione tra i crediti vantati dalle parti.
Prevedibile, l'appello della banca: era illegittimo compensare il saldo debitorio del conto corrente con i titoli presenti sul conto deposito e amministrazione. Il credito vantato nei confronti dei correntisti, si marca, si fondava sullo scoperto relativo al rapporto di conto corrente cui era collegato anche il conto deposito titoli. Ed era su queste basi, che il Tribunale, ritenendo erroneamente sussistente un unico rapporto tra le parti, aveva dato l'ok alla compensazione.
A ben vedere, però, prosegue, il contratto di apertura di credito bancario andava tenuto distinto da quello di deposito titoli. In effetti, se con il primo la banca si obbliga a tenere a disposizione una somma di denaro, con il secondo, si impegna a custodire per amministrare e, a richiesta, restituire i titoli che restano di proprietà del cliente. Quello configuratosi, pertanto – considerato che l'istituto, nel custodire e restituire titoli e valori, li aveva anche amministrati – era un contratto misto cui non poteva applicarsi la compensazione, come previsto dall'articolo 1246, comma 1, n. 2, del Codice civile.
La Corte d'Appello concorda e boccia la sentenza emessa, in prima battuta, dal Tribunale. Sul conto deposito, spiega, non vi erano consistenze in denaro, ma solo titoli che la banca non aveva venduto. Il credito di titoli, quindi, mai alienati, non era divenuto liquido ed esigibile.
Di qui, l'inapplicabilità della compensazione, trattandosi di istituto che presuppone l'autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti. Esclusa, anche la compensazione impropria, che si configura nel caso in cui i rispettivi crediti e debiti derivino da un unico rapporto – potendosi, così, valutare le reciproche pretese in base a meri accertamenti contabili (Cassazione, 7337/2004) – posto che, scrivono i giudici richiamando Cassazione 12327/2005, non sempre all'unicità della fonte corrisponde «la corrispettività delle prestazioni generatrici di obbligazioni contrapposte».
Ecco che, nella vicenda, l'illiquidità dei titoli impediva l'operatività della compensazione tra la somma accertata a debito dei clienti nei confronti della banca, e il valore stimato dei titoli depositati. Riformata, così, la sentenza appellata.

fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

Niente assegno se l’ex moglie è economicamente autosufficiente

La Corte di Cassazione torna a ribadire il recente orientamento giurisprudenziale in tema di riconoscimento dell’assegno divorzile: il giudice deve accertare che la domanda dell’ex coniuge sia fondata sulla mancanza delle condizioni di indipendenza o autosufficienza economica e non sul mantenimento del precedente tenore di vita. Così l’ordinanza n. 23602/17 depositata il 9 ottobre.
La vicenda. La Corte d’Appello di Palermo poneva a carico dell’ex marito l’obbligo di versare un assegno divorzile all’ex moglie che, pur svolgendo un’attività lavorativa dipendente ed essendo assegnataria della casa coniugale, non disponeva di redditi sufficienti a conservare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. L’ex marito impugna la decisione dinanzi alla Corte di Cassazione.
Assegno divorzile. Il ricorso trova accoglimento da parte della Corte che torna a sottolineare il recente orientamento in tema di verifica delle condizioni per l’attribuzione dell’assegno divorzile.
Secondo la Corte, il giudice del divorzio richiesto dell’assegno divorzile deve in primo luogo valutare se la domanda sia presentata dall’ex coniuge in condizione di mancanza di mezzi adeguati o comunque impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive non con riguardo al tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio ma con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica dello stesso. Indici rilevanti in tal senso sono costituiti dal possesso di redditi di qualsiasi specie e/o cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari, delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (con riferimento alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della disponibilità stabile della casa di abitazione, condizioni il cui onere probatorio grava sull’istante.
Quantum dell’assegno. Nella successiva fase del quantum debeatur, il giudice deve dunque tenere in considerazione e valutare tutti i suddetti elementi, anche in rapporto alla durata del matrimonio.
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che il divario tra le condizioni economiche delle parti al momento del divorzio ed il peggioramento di quelle dell’ex moglie rispetto alla vita matrimoniale potessero giustificare l’attribuzione dell’assegno, disattendendo così il recente orientamento interpretativo. Per questi motivi la Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello palermitana.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Niente assegno se l’ex moglie è economicamente autosufficiente - La Stampa

mercoledì 11 ottobre 2017

Cassazione: carcere e multa per chi guarda Sky con una scheda “abusiva”

Carcere e multa a chi evade il canone delle tv a pagamento, come Sky, usando il sistema “card sharing”, che consiste nell’acquistare i codici necessari per vedere i programmi criptati da un soggetto terzo che, in maniera fraudolenta, funge da `pusher´ dei codici e li vende, illecitamente, a più clienti a prezzi più convenienti del canone. A stabilire la “linea dura” è la Cassazione che ha condannato a quattro mesi di reclusione e duemila euro di multa un palermitano di 52 anni che vedeva Sky nella sua abitazione, tranquillamente disteso sul divano, senza avere la relativa smart card. Gli `ermellini´, dichiarando «inammissibile» il ricorso dell’imputato, oltre a dargli grattacapi per la fedina penale, lo hanno anche condannato a versare ulteriori duemila euro alla Cassa delle ammende. Evadere Sky costa caro.
Avvisando i furbetti del telecomando che servirsi dei codici taroccati porta in carcere, la Cassazione sottolinea che il “card sharing” era stato depenalizzato nel 2000 ma ha poi ripreso rilevanza penale nel 2003, tornado ad essere un reato in seguito a un decreto legislativo. A farne le spese è stato Filippo I., palermitano classe 1965, condannato «per aver installato un apparecchio con decoder regolarmente alimentato alla rete Lan domestica ed internet collegato con apparato Tv e connessione all’impianto satellitare così rendendo visibili i canali televisivi del gruppo Sky Italia in assenza della relativa smart card».
Il verdetto di colpevolezza - emesso dalla Terza sezione penale, sentenza 46443 - ha preso di mira il «sistema del card sharing». Senza successo l’imputato si è difeso sostenendo di aver acquistato i codici di decodifica dei programmi sul web, per giustificare il fatto che durante la perquisizione a casa sua non «era mai stata rinvenuta la smart card». Secondo la Cassazione, «correttamente» i giudici palermitani hanno emesso la condanna «evidenziando la finalità fraudolenta del mancato pagamento del canone» Sky. In particolare, la Suprema Corte spiega che il reato commesso consiste nella violazione della legge sul diritto d’autore del 1941 - art. 171 octies l.633/1941 - che nel caso affrontato dal verdetto è «pacificamente consistita nella decodificazione ad uso privato di programmi televisivi ad accesso condizionato e, dunque, protetto, eludendo le misure tecnologiche destinate ad impedire l’accesso poste in essere da parte dell’emittente, senza che assumano rilievo le concrete modalità con cui l’elusione venga attuata, evidenziandone la finalità fraudolenta nel mancato pagamento del canone applicato agli utenti per l’accesso ai suddetti programmi».
La decisione degli `ermellini´ ha reso definitiva la condanna pronunciata dalla Corte di Appello di Palermo il dodici aprile 2016 che, a sua volta, aveva recepito in pieno il verdetto di primo grado.

fonte:www.lastampa.it/Cassazione: carcere e multa per chi guarda Sky con una scheda “abusiva” - La Stampa

martedì 10 ottobre 2017

Dal 12 ottobre obbligo di comunicare all'INAIL gli infortuni da uno a tre giorni

Dal 12 ottobre 2017 anche gli infortuni che comportano l'assenza dal lavoro da uno a tre giorni (escluso quello dell'evento) devono essere comunicati all'INAIL.
Si tratta di un obbligo che si aggiunge a quello della denuncia degli infortuni con prognosi di almeno quattro giorni (sempre escluso quello dell'evento).
Per chiarezza: la comunicazione assolve ad un fine statistico-informativo, la denuncia a quello assicurativo. Infatti, solo gli infortuni che comportano un'assenza dal lavoro di almeno quattro giorni sono indennizzati dall'INAIL.
Gli altri, definiti ‘lievi', si chiede siano comunicati per consentire la raccolta di dati e informazioni nel SINP - Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione.
Come?
Entro due giorni da quando ha avuto notizia dell'infortunio (come per la denuncia) il datore di lavoro deve inviare compilato in via telematica il modello "Comunicazione d'infortunio ai fini statistico informativi".
La violazione dell'obbligo di comunicazione è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da € 548,00 a € 1.972,80.
Se l'assenza si prolunga oltre il terzo giorno, il datore di lavoro integra la comunicazione con i dati previsti per la denuncia così che la comunicazione sia utile ai fini assicurativi. Tuttavia, allo stato sul punto non vi sono istruzioni operative.
Per completezza: l'obbligo di comunicazione ai fini statistico–informativi per gli infortuni con prognosi superiore a tre giorni è assolto con l'invio della denuncia.
Ricapitolando in sintesi gli obblighi formali a carico del datore di lavoro nella materia infortunistica:
-in caso di infortunio con prognosi da uno a tre giorni: comunicazione, di cui si è detto;
-in casi di infortunio con prognosi di almeno quattro giorni: denuncia (che è in sè anche comunicazione) (l'omissione, l'invio tardivo, la compilazione inesatta o incompleta sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da € 1.290,00 a € 7.745,00);
-conservazione del registro infortuni fino al 22.12.2019 solo per le imprese esistenti alla data del 22.12.2015.
Non è più richiesta (dal 22.03.2016) la comunicazione alla PS dell'infortunio mortale o con prognosi superiore a 30 giorni, alla quale provvede l'INAIL.

fonte:www.ilsole24ore.com/Dal 12 ottobre 2017 obbligo di comunicare all'INAIL gli infortuni da uno a tre giorni

Violenze su minori, mai così tante denunce negli ultimi dieci anni

Mai così tante denunce di violenze su bambini e adolescenti negli ultimi dieci anni. Secondo i dati del Comando Interforze della Polizia di Stato raccolti nel dossier Indifesa di Terre des Hommes, diffuso in occasione della sesta edizione della Giornata mondiale delle Bambine, i minori coinvolti in casi di violenza nel 2016 sono 5.383: ogni giorno in Italia più di due bambini sono vittime di violenza sessuale, in aumento tra il 2015 e il 2016 del 6%. Considerando sempre che le denunce sono purtroppo solo una piccola parte di una violenza che non lascia traccia se non nella mente e nel corpo dei più piccoli, tre casi su dieci tra quelli segnalati alle forze dell’ordine sono vittime di maltrattamenti in famiglia, con un aumento del 12% tra il 2015 e il 2016.
Se gli incrementi più significativi si registrano nei casi di abuso di mezzi di correzione o di disciplina (+23%) e di pornografia minorile (+20%), sono femmine l’82% delle vittime di pornografia , il 62% delle vittime di prostituzione, l’80% delle vittime di atti sessuali con minorenni e oltre l’80% delle vittime di violenza sessuale aggravata. Colpisce il dato degli omicidi volontari consumati: più che raddoppiati in un anno - da 13 a 21 minori vittime - il 62% era una bambina o adolescente.
Pochi i segni meno nell’elenco dei reati. Le due fattispecie più in calo rispetto al 2015 sono gli atti sessuali con minori di 14 anni (-11%), dove però le vittime sono ancora 366, per l’80% bambine, e la detenzione di materiale pornografico, che segna un meno 12%, con 58 vittime, il 76% femmine.
#OrangeRevolution, dalla parte delle bambine
In occasione della Giornata Mondiale delle Bambine, che cade l’11 ottobre, Terre des Hommes lancia la #OrangeRevolution, per stimolare la diffusione di una cultura del rispetto e della prevenzione della violenza e della discriminazione di genere. Perché l’arancione? Oltre ad essere stato il colore che ha caratterizzato varie rivoluzioni, è stato scelto con le Nazioni Unite per dire No alla violenza di genere e rompere gli stereotipi che impongono il rosa come il colore delle bambine.
«Nel nostro Manifesto abbiamo elencato una serie di proposte concrete per essere tutti dalla parte delle bambine – dichiara Paolo Ferrara, responsabile della campagna Indifesa -. Bisogna orientare le politiche di competenza degli enti locali su una maggiore tutela dei diritti delle bambine e delle ragazze, promuovendo azioni efficaci per il monitoraggio, la prevenzione e il contrasto della violenza e degli stereotipi di genere, ma anche interventi concreti per sensibilizzare i cittadini, specie i più piccoli, su sexting, bullismo e cyberbullismo. L’Italia ha aderito al programma dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’Onu e anche le amministrazioni locali devono fare la loro parte. Uno degli obiettivi più importanti dell’Agenda è il quinto: il raggiungimento della parità di genere, l’emancipazione e l’autostima di tutte le donne, le bambine e le ragazze».
Da quattro anni, l’Osservatorio sulla Violenza e gli Stereotipi di Genere di Terre des Hommes si avvale della preziosa collaborazione di ScuolaZoo, la più grande community italiana di ragazzi e ragazze delle scuole secondarie di secondo grado: sono loro a raccogliere il punto di vista di circa 2mila persone tra i 14 e i 19 anni su violenza di genere, stereotipi e pericoli della rete.
E nel mondo?
Il dossier della campagna Indifesa punta i riflettori anche sul fenomeno dei matrimoni precoci, che coinvolge ogni anno almeno 15 milioni di bambine e adolescenti. Ogni due secondi una bambina o ragazza con meno di 18 anni diventa una baby sposa. Da baby spose a baby mamme il passo è breve: nel 2016 sono state registrate 21 milioni di gravidanze tra le ragazze tra i 15 e i 19 anni che vivono nei paesi in via di sviluppo. Ogni anno circa 70mila ragazze muoiono a causa del parto e delle complicanze legate alla gravidanza. Tra le violazioni dei diritti delle bambine ci sono anche quelle legate a conflitti e trafficking: sono circa 100mila le bambine soldato, mentre delle 2,4 milioni di persone vittime di tratta le bambine sono il 20%.

fonte:www.lastampa.it/Violenze su minori, mai così tante denunce negli ultimi dieci anni - La Stampa

Sicurezza alimentare: la sede di produzione sull’etichetta

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 7 ottobre 2017, n. 235, viene introdotto l’obbligo di indicazione della sede dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento sull’etichetta o sul preimballaggio dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale o alle collettività.
Il decreto legislativo relativo alla «Disciplina dell’indicazione obbligatoria nell’etichetta della sede e dell’indirizzo dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento, ai sensi dell’articolo 5 della legge 12 agosto 2016, n. 170 – Legge di delegazione europea 2015» è dunque diventato legge.
Nel dettaglio. Il decreto impone l’indicazione, sull’etichetta o sul preimballaggio dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale o alle collettività, della sede dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento.
Le violazioni saranno punite con una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra 2mila e 15mila euro, salvo che il fatto costituisca reato.
Le disposizioni del decreto si applicano dal 180esimo giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Gli alimenti immessi sul mercato o etichettati in difformità dal presente decreto entro tale termine possono essere commercializzati fino all’esaurimento delle scorte.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Sicurezza alimentare: la sede di produzione sull’etichetta - La Stampa

Quattro anni di reclusione per il poliziotto che violentò una ragazza

Non può essere declassato a reato di minore gravità, quando lede la libertà sessuale di una persona e diventa ancora più odioso quando a compierlo è un pubblico ufficiale che abusa della propria posizione. Linea dura della Cassazione contro un ispettore di polizia accusato di aver violentato, cinque anni fa, una diciottenne fermata nel corso di un controllo antidroga. Nella sentenza 45530 depositata ieri (3 ottobre), la Suprema Corte ha confermato i quattro anni di reclusione già comminati dalla Corte di appello, più l'aggravante di aver abusato della vittima «nell'esercizio delle sue funzioni di commissario e all'interno del Commissariato in cui lavorava».
La vicenda - che per molti versi ricorda il più recente caso di Firenze, il cui iter giudiziario è ancora in corso - risale al 2013.
L'ispettore fu arrestato alcuni mesi dopo la violenza quando la ragazza, figlia di un carabiniere, si decise a raccontare l'abuso subito.
A nulla è valso il suo tentativo di difesa, incentrato sulla tesi del «consenso presunto» : ipotesi da escludere - secondo i giudici - nel caso di un abuso sessuale da parte di un ispettore di polizia nell'esercizio delle proprie funzioni.
I giudici, in particolare, si sono concentrati sullo stato d'animo della ragazza, fermata a bordo di un'autovettura su cui erano state caricate anche modeste quantità di hashish, e dunque in evidente stato di soggezione nei confronti dell'autorità.
Da parte della vittima non vi fu infatti alcuna resistenza alla violenza dell'uomo, per timore di danneggiare la posizione degli altri quattro ragazzi fermati con lei e in attesa, in una stanza attigua del commissariato, di ricevere un verdetto in merito alla presunta flagranza di un illecito.
In linea con quanto già stabilito dalla Corte di appello nel 2016, la Cassazione ha respinto anche la richiesta di declassare l'abuso a violenza sessuale di «minore gravità».

fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

venerdì 6 ottobre 2017

Stalking: offre 1500 euro alla sua vittima, lei rifiuta ma il reato viene estinto

Un imputato di stalking ha offerto 1.500 euro di risarcimento alla parte lesa. Lei ha rifiutato il denaro, ma il tribunale di Torino ha pronunciato una sentenza di «non doversi procedere» per estinzione del reato: nonostante il diniego della donna, c’è stata una «condotta riparatoria». Si tratta di una delle prime applicazioni di una legge entrata in vigore lo scorso 4 agosto.
L’uomo era accusato di avere seguito in auto «in molte occasioni» la ragazza, in varie località del circondario di Torino, fra il dicembre del 2016 e il gennaio del 2017. La somma, al rifiuto della parte lesa, è stata depositata in un libretto di deposito giudiziario, ed è stata giudicata «congrua rispetto all’entità dei fatti» dal gup. In un passaggio della sentenza viene spiegato che «il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito a offerta reale formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta».

Fonte:www.lastampa.it/Offre 1500 euro alla sua vittima di stalking, lei rifiuta ma il reato viene estinto - La Stampa

Piani di risparmio a lungo termine per le famiglie, le linee guida

Il documento, curato dal Dipartimento delle Finanze, illustra lo speciale regime fiscale agevolativo per i piani di risparmio previsto dalla Legge di Bilancio 2017.
Agevolazioni. Sono online da ieri, sul sito del Dipartimento Finanze del MEF, le Linee Guida relative all’interpretazione delle disposizioni della Legge di Bilancio per il 2017 con cui è stato delineato uno speciale regime fiscale agevolativo per i piani di risparmio a lungo termine.
Si tratta dell’incentivo sui rendimenti (esenzione dall’imposta sui redditi e dall’imposta di successione se l’investimento è mantenuto per almeno cinque anni) fruibile dai risparmiatori fiscalmente residenti in Italia. La misura è finalizzata a offrire maggiori opportunità di rendimento alle famiglie; aumentare le opportunità delle imprese di ottenere risorse finanziarie per investimenti di lungo termine; favorire lo sviluppo dei mercati finanziari nazionali.
Le linee guida affrontano le principali questioni interpretative emerse in costruttive interlocuzioni con gli operatori del mercato, individuando gli strumenti finanziari che possono formare il piano di risparmio e chiarendo il meccanismo di applicazione dei vincoli di composizione e del limite alla concentrazione del PIR nell’ambito delle gestioni collettive.
Nel documento viene ad esempio chiarito che anche un minore può aderire ad un PIR e che il trasferimento della residenza fiscale all’estero fa venir meno uno dei requisiti posti dalla legge per fruire dell’agevolazione.
Secondo quanto anticipato dal Dipartimento delle Finanze, alle Linee Guida l’Agenzia delle Entrate farà seguire dettagliate istruzioni per gli uffici preposti alle attività di controllo e accertamento.

Fonte: www.fiscopiu.it/Piani di risparmio a lungo termine per le famiglie, le Linee guida - La Stampa

mercoledì 4 ottobre 2017

Donne e violenza, ecco perché le vittime scelgono di non denunciare

In Italia ogni anno si denunciano circa 4.000 violenze sessuali. Secondo gli esperti questo numero non riflette la realtà: gli episodi di violenza sono molti di più. Secondo l’Istat nel 92,5% dei casi le donne che hanno subito una violenza sessuale non l’ha denunciata (la percentuale sale al 95,6% se l’aggressore è italiano e scende al 75,3% se è straniero), e da questo conto sono escluse le violenze commesse dai partner e dagli ex partner. Allora può essere utile cambiare domanda: perché le violenze sessuali non vengono denunciate?
Partiamo da un dato di fatto: una donna su tre dice di aver subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita (il 31,5%). Nella stragrande maggioranza dei casi l’aggressore era il partner o l’ex, e in questo caso le denunce sono più frequente, ma si fermano comunque al 12,2% dei casi.
Secondo lo studio dell’Istat (pubblicato nel 2014), la situazione è ancora più drammatica per le donne straniere: il 100% non ha denunciato se l’autore era italiano o straniero, 98,1% se era del proprio Paese d’origine. Il baratro nel quale queste donne sono catapultate chiama in causa l’intero sistema che dovrebbe proteggerle e di cui, evidentemente, non si fidano. È un silenzio solido e dalle dimensioni spaventose: secondo lo studio 652.000 donne tra i 16 e i 70 anni sono state vittime della violenza più brutale, lo stupro, e 746.000 di tentativi falliti ma non per questo senza conseguenze fisiche e psicologiche.
Un capitolo a parte, che spiega forse meglio di altri gli automatismi che non fanno scattare la denuncia, è la molestia sessuale al lavoro. In questo luogo lontano dalle dinamiche di coppia, il 7,5% delle donne dice di aver subito almeno un ricatto sessuale. L’80,9% non ne ha parlato con nessuno, solo lo 0,5% ha denunciato il molestatore. E poi? E poi una donna su tre ha cambiato lavoro o ha rinunciato volontariamente alla carriera (34%), più di una su dieci è stata licenziata lei (11%) e solo nel 6,5% dei casi è andato via lui. In un caso su cinque non è successo assolutamente nulla.
Attraverso l’Occhio dei Lettori , la piattaforma di giornalismo partecipativo lanciata da La Stampa, abbiamo chiesto alle nostre lettrici di raccontarci le loro storie di violenza e mancata denuncia. Per tutelare la loro privacy, le vittime non sono identificabili, ma ognuna di loro si è messa a disposizione per approfondire la loro storia con i nostri giornalisti. Per questo e per il loro coraggio, le ringraziamo. Ecco le loro storie:
Mi ha legata al letto e ha fatto ciò che voleva
Avevo 17 anni, ora ne ho 41. Lui più grande di me di un anno, era un ragazzo che mi piaceva, c’era stata qualche carezza e poco altro. Non si era sempre comportato bene con me, ma sapeva farsi perdonare. Un giorno lo invitai a casa. Al rifiuto di un bacio mi legò al letto con la prolunga della luce del comodino e fece quello che al momento gli passava per la testa. Il giorno dopo andai a parlare con la mia sorellastra più grande cercando conforto. Mi disse: «Eri vergine? Ti sei tolta un peso». I segni sui polsi erano ben visibili. Non dissi niente a miei genitori, ero io ad averlo fatto entrare.
Ho raccontato a pochi questa cosa perché ho notato che le donne davanti a questo argomento si irrigidiscono e cambiano discorso, mentre gli uomini addirittura quasi non credono alla mia storia perché «a volte voi donne quando dite no invece è sì». Leggendo la vicenda della piccola Noemi mi sono ritrovata diciassettenne ingenua e indifesa, alle prese con un ragazzo violento e senza scrupoli quando io cercavo solo un po’ di affetto, per fortuna che a me andata meglio.
Denunciarlo no, significherebbe dover rivedere quel terrificante sorriso
Era un amico di amici, a scuola per un anno di scambio culturale. Era gentile e disponibile, sia con me che con gli altri ragazzi della compagnia. Forse non avrei dovuto mettermi il vestito quel giorno o non sarei dovuta salire in camera sua. Ma non era la prima volta, doveva solo prendere un maglione. Mi diceva che non ero una bambina e che mi sarebbe piaciuto. La prima volta che ho provato a raccontarlo mi hanno detto che avrei dovuto aspettarmelo. Denunciare vorrebbe dire rivederlo, ma a me basta rivedere quel sorriso terrificante nella mia testa. Sono passati tre anni.
Mi ha puntato il fucile in faccia, sono scappata di notte in pigiama 
Una sera d’estate avevamo amici a cena. Mio marito beveva, come al solito. In cucina si mise a darmi dei colpi, mi strappò la catenina lasciandomi dei segni sulla scollatura. Urlai, ma nessuno si mosse. Mesi dopo gli dissi che volevo separarmi, lui mi puntò il fucile al volto. Nella notte sono scappata, in pigiama. Lo volevo denunciare, il carabiniere mi disse: «Signora, sicuramente ha un’amica da cui poter andare a dormire. Si riposi, torni domani». Non sono più tornata, né a casa mia né a denunciarlo. Non ho mai dimenticato il fucile puntato.
A quell’età non capivo, non sapevo come raccontarlo ai miei genitori
«Tornavo la sera non molto tardi da un incontro parrocchiale per la prima comunione. Pioveva, così per far prima sono passata in un vicolo invece che dalla strada principale. Lì incontrai quest’uomo. Ricordo ancora il suo odore e la morfologia del suo viso. Non la sua voce. Ricordo che non riuscivo a urlare. Ricordo le mani e come si muovevano. Ciò che accadde è che alla fine di tutto la mia testa era altrove e pensavo ad altro, fin quando non scivolò per la pioggia sui sampietrini e io scappai correndo. Tornata a casa, mi beccai uno schiaffone da mia mamma per il mio ritardo e sono finita a letto senza cena».
«Avevo 14 anni. Non avevo idea di come raccontare ai miei quello che era successo, così non l’ho fatto. Dopo anni di psicoterapia, sono riuscita in qualche modo a superarlo. Ora ho una figlia della stessa età. Ho sempre cercato di costruire un dialogo profondo con lei, di darle gli strumenti e la tranquillità di raccontarmi qualsiasi cosa. Anche uno stupro».
Avevo 10 anni, lui era un amico di famiglia. Mia madre mi disse solo di scappare 
«Avevo compiuto da poco 10 anni, lui era un amico di famiglia. La sua scusa era portare sua nipote, mia coetanea e compagna di scuola, a casa nostra. Lui diceva che era solo per farci giocare, poi è successo molto altro. Ero piccola, terrorizzata e incapace di reagire».
«Quando sono riuscita a trovare il coraggio l’ho raccontato a mia mamma. La sua risposta mi ha gelato, non ne ho parlato più con nessuno per anni e anni. Lui non l’ho più visto in casa mia, ma lei mi ha detto una cosa sola, nient’altro: «Se ti capita ancora, cerca di scappare».
Lui era un collega di lavoro, non volevo perdere il posto e sono stata zitta 
«Lui era un mio collega. Siamo sempre andati d’accordo, tanto che spesso il nostro capo ci scherzava su dicendo che ci saremmo dovuti fidanzare. Anche se io un fidanzato già l’avevo. Lui ci aveva già provato moltissime volte, anche in modo piuttosto spinto. Ci è anche capitato di restare per qualche giorno fuori città insieme, sempre per lavoro. Purtroppo a volte anche nella stessa stanza, come è successo quella notte. Non volevo rischiare di perdere il lavoro. Proprio perché andavamo d’accordo, sono sicura che non mi avrebbe creduto nessuno».
Mi portò in un bosco. Oggi sono nonna, se tornassi indietro andrei alla polizia 
«Ho 76 anni, è successo 56 anni fa. Ero in Svizzera, a Interlaken, dove lavoravo in un’agenzia di viaggi. Un giovane cantante italiano che vedevo ogni giorno, in piscina e alla sera, mi ha offerto un passaggio al lavoro. Erano le 15. Non si è fermato, ha proseguito fino a un bosco e a quel punto ha abusato di me. Non l’ho denunciato perché gli italiani erano malvisti, sapevo che la polizia svizzera avrebbe fatto ben poco. Alcuni amici, italiani anche loro, mi convinsero a lasciar perdere. Ne ho parlato con mia figlia e con mia nipote. Oggi che sono nonna so di aver sbagliato, avrei dovuto denunciare. Potessi tornare indietro ascolterei solo me stessa».
Mi tirò un pugno lasciandomi per strada. Non ho fatto nulla, mi sono sentita sola 
«Avevo 19 anni quando mi fidanzai, lui 27. Dieci anni fa. Quando la mia famiglia venne a sapere della mia storia tentarono di mettermi in guardia, i miei amici pure. Non li ascoltai. Le discussioni si fecero sempre più frequenti e assurde. Lo facevo infuriare senza alcun motivo. Un giorno mi fece una scenata e mi scaraventò a terra. Mi tirò un pugno in faccia, rimasi tramortita sul ciglio della strada, iniziò a stringermi la gola. Quando tornai a casa con i lividi, la mia famiglia andò su tutte le furie e da quel giorno l’argomento diventò un tabù. Non ho mai pensato di denunciarlo. Ero io ad aver scelto di stare con lui. È stato un grave errore: forse se l’avessi fatto non mi sarei sentita così sola».
Aggredita a scuola, per anni mi sono sentita in colpa e mi vergognavo 
«Avevo 14 anni. Era un sabato mattina, poche classi quasi tutti al piano superiore, io e lui soli per colorare dei cartelloni per la festa di fine anno. Lui mi prende con la forza e mi corica sul banco, inizia a toccarmi sotto i vestiti, non riesco a sollevarmi perché lui è molto forte, grido «La bidella, c’è la bidella». Lui si alza di scatto, poi si abbassa i pantaloni e mi ricarica, si strofina su di me e inizia a toccarmi di nuovo. Mi ha salvato la campanella dell’intervallo».
«Non l’ho raccontato a nessuno per più di vent’anni. Mi sono confidata con mio marito prima, poi con mia madre. Nessun altro. Così ho visto un uomo nudo per la prima volta nella vita. Quell’aggressione ha condizionato il mio rapporto con gli uomini. Avevo paura: mi era capitato a scuola, poteva capitarmi dappertutto. Mi vergognavo da morire. Mi sono sentita in colpa per la mia fisicità prosperosa, colpevole di essermi sviluppata presto e sembrare più grande. Lui era un mio compagno di classe e c’erano ancora quattro giorni di scuola. Quando incrociavo il suo sguardo, abbassavo gli occhi. Poi non l’ho mai più visto».

Fonte:www.lastampa.it/- La Stampa

Furto al supermercato: no all’arresto in flagranza

Confermata l’accusa per rapina. Non convalidato, invece, l’arresto effettuato dalla polizia, poiché basato sulle informazioni fornite dal personale della struttura commerciale dopo che l’indagato era riuscito a fuggire.
Porta via una birra e due confezioni di tonno da un supermercato. Viene fermato un’ora dopo, in strada, dalla polizia. Per i Giudici l’arresto è da ritenere illegittimo (Cassazione, sentenza n. 45322/2017, depositata il 2 ottobre).
Convalida. Ricostruita facilmente la vicenda. Un uomo, originario del Senegal, finisce sotto accusa per «rapina impropria», avendo prelevato senza pagare «una birra e due scatolette di tonno» in un supermercato. La polizia riesce a rintracciarlo, e, trovandolo ancora in possesso del bottino, esegue l’arresto.
Quest’ultima operazione, però, viene censurata dal GIP del Tribunale. Secondo il giudice per le indagini preliminari «l’arresto, operato circa un’ora dopo lo svolgimento dei fatti, non è stato eseguito in flagranza» e quindi è da considerare illegittimo e «non va convalidato».
Stessa identica posizione assumono ora i giudici della Cassazione, respingendo il ricorso presentato dal Pubblico Ministero.
Decisiva la constatazione che «l’arresto» è stato effettuato «sulla base delle indicazioni fornite dal personale del supermercato», dopo che lo straniero «era riuscito a fuggire, divincolandosi, e si era allontanato».
Logico, secondo i Giudici, parlare di «arresto illegittimo», poiché realizzato sulla base delle «informazioni fornite dalla vittima nell’immediatezza del fatto», non sussistendo «la condizione di quasi flagranza, che presuppone la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi proceda all’arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Furto al supermercato: no all’arresto in flagranza - La Stampa

martedì 3 ottobre 2017

Particolare tenuità applicabile anche allo spaccio

Le reiterate denunce per reati in tema di stupefacenti non possono essere aprioristicamente ostative all'applicabilità della particolare tenuità del fatto. E' quanto emerge dalla sentenza della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione del 24 luglio 2017, n. 36616.
Per principio generale, la norma di cui all'art. 131-bis c.p. stabilisce che la punibilità sia esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p., l'offesa sia di particolare tenuità e il comportamento risulti non abituale.
L'offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità quando l'autore abbia agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o abbia adoperato sevizie o, ancora, abbia profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta abbia cagionato o da essa siano derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.
Il comportamento è da ritenersi abituale quando l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Nella fattispecie non si rientrava nei casi di esclusione obbligatoria della particolare tenuità; i giudici di merito, in particolare, si erano limitati a accertare la sussistenza di denunce, risalenti nel tempo, senza specificare nulla in merito all'esito di queste. Non solo, gli stessi giudici avevano omesso di chiarire se fosse stato dato corso ad un procedimento penale o se vi fosse stato un accertamento giudiziale della responsabilità dell'imputato.
Per tale motivo gli ermellini si limitano a valutare una astratta non incompatibilità dell'istituto della particolare tenuità del fatto con riferimento al reato di spaccio di sostanze stupefacenti ma, allo stato, non è possibile ravvisare la sicura esistenza di clausole ostative, tenuto conto dell'opzione esegetica adottata dai giudici di merito.

fonte:www.altalex.com/Particolare tenuità applicabile anche allo spaccio | Altalex

Nuove regole per il “carcere duro”. Dall’abbigliamento ai canali Tv

Sì alla tv, ma solo per i canali della rete nazionale. Sì ai passatempi, ma solo con mazzi di carte controllate. Ok al pentolame, ma solo di dimensioni prestabilite. Sono queste alcune delle regole contenute nella nuova circolare del Dap che regola la quotidianità dei detenuti al 41 bis, il cosiddetto “carcere duro” per mafiosi. Un provvedimento di oltre cinquanta pagine che regolamenta nel dettaglio la vita dei detenuti con questo regime.
Cosa dice la circolare
Tra i dettagli anche la regolamentazione di perquisizioni, visite con famiglia e il garante e la ricezione dei pacchi per corrispondenza. Restrizioni anche per la socialità: sono infatti previste limitazioni «degli incontri tra i vertici delle medesime “famiglie”, di gruppi alleati e di gruppi o clan contrapposti».
Al centro della circolare anche gli oggetti concessi ai detenuti: sono ammesse «forbicine (con punte rotonde), taglia unghie (senza limetta), pinzetta (in plastica), rasoio in plastica e rasoio personale autoalimentato. Non sono consentiti generi di toeletta in confezione spray e sono ammessi prodotti contenuti esclusivamente in recipienti di plastica».
Per quanto riguarda il tempo libero, i detenuti possono rimanere all’aperto «non più di due ore al giorno». In tv avranno accesso solo ai canali della rete nazionale, cioè il pacchetto Rai, Canale 5, Rete 4, Italia Uno, La Sette, Cielo, Iris e TV 2000.
Cos’è il 41 bis
Il 41 bis è una misura che venne introdotta della legge del 26 luglio 1975. Fu inizialmente pensata per le rivolte in carcere ma nel 1992, dopo la strage di Capaci, venne estesa ai condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso. La norma aveva carattere temporaneo ma è stata via via rinnovata. In Italia i detenuti al 41 bis sono in carcere per associazione mafiosa o per sospetta attività di terrorismo.
I commenti
Quello sul 41 bis è «un provvedimento frutto di un’interlocuzione con la procura Antimafia, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il Garante per i detenuti che dà omogeneità all’applicazione del 41 bis, evitandone ogni forma di arbitrio e di misure impropriamente afflittive». Così il Ministro della Giustizia Andrea Orlando a proposito della circolare in questione.

Fonte:www.lastampa.it/Nuove regole per il “carcere duro”. Dall’abbigliamento ai canali Tv - La Stampa

In cella senza acqua calda: condizioni detentive accettabili

Respinte le proteste di un detenuto rinchiuso in una casa circondariale. Nessun dubbio sulla carenza lamentata, ma per i giudici bastano le docce ad assicurare un adeguato livello di igiene personale.
Solo acqua fredda nel bagno in cella. Legittime le proteste, ma, secondo i giudici, non si può parlare di condizione detentiva degradante. Decisiva la presenza delle docce che con uso quotidiano – e con l’acqua calda – garantiscono un congruo livello di igiene personale (Cassazione, sentenza n. 44866 del 28 settembre 2017).
Igiene personale sufficiente. Riflettori puntati sulla casa circondariale di Sulmona. I malumori di un detenuto sono provocati dallo «spazio in cella» e dalla «mancanza di acqua calda nel bagno». A suo parere si può parlare di «condizione degradante».
Di parere opposto i giudici, che, calcolatrice alla mano, ritengono innanzitutto sufficiente la superficie disponibile in cella.
Resta aperto il fronte della «igiene personale». Ma anche in questo caso i giudici respingono le obiezioni mosse dal detenuto.
In particolare, i magistrati della Cassazione condividono la visione tracciata dal Tribunale di sorveglianza di L’Aquila, laddove si è sostenuto che, nonostante «l’assenza dell’acqua corrente calda nel bagno della camera detentiva», è comunque «assicurato ai detenuti un congruo livello di igiene personale, anche attraverso l’uso quotidiano delle docce, ovviamente con acqua calda, collocate in ciascuna sezione». Di conseguenza, fermo restando che «l’uso dell’acqua corrente calda nel locale bagno annesso a ciascuna camera costituisce elemento del servizio igienico prescritto dall’ordinamento», i giudici ritengono che la mancanza lamentata dall’uomo non è sufficiente a determinare «una condizione detentiva degradante».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/In cella senza acqua calda: condizioni detentive accettabili - La Stampa

Sangue infetto: il Ministero doveva vigilare sulle trasfusioni

Il Ministero risponde per i danni subiti a seguito di emotrasfusioni laddove sia accertata l’omissione dell’attività di vigilanza e controllo e sia altresì accertata la conoscenza oggettiva, con riferimento all’epoca di produzione del preparato e ai più alti livelli scientifici, della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto. Così l’ordinanza n. 22832/17 depositata il 29 settembre.
La vicenda. La Corte d’appello di Napoli accoglieva l’impugnazione proposta dall’originario attore avverso la pronuncia con cui il giudice di prime cure aveva rigettato la sua richiesta di risarcimento da parte del Ministero della salute per i danni conseguenti alle emotrasfusioni a cui aveva dovuto sottoporsi diversi anni prima. Il Ministero ha proposto ricorso per la cassazione della pronuncia dolendosi per difetto di motivazione ed erroneità della sentenza che non ha adeguatamente motivato in ordine al rapporto di causalità tra le trasfusioni e la patologia epatica lamentata dalla controparte.
Controllo e vigilanza. I Supremi Giudici ricordano che il Ministero della salute è tenuto ad un’attività di controllo e vigilanza sulle trasfusioni del sangue e sull’uso degli emoderivati. Da tale posizione discende la responsabilità in caso di omissioni e conseguenti danni da epatite ed infezioni da HIV contratte da soggetti emotrasfusi. Le Sezioni Unite (n. 581/2008) hanno infatti affermato che ove sia accertata l’omissione da parte del Ministero dell’attività di vigilanza e controllo e sia altresì accertata la conoscenza oggettiva, con riferimento all’epoca di produzione del preparato e ai più alti livelli scientifici, della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto, nonché ovviamente la sussistenza di una patologia da virus HIV, HBV o HCV, deve ritenersi che l’omissione sia stata causa della malattia, con conseguente responsabilità in capo al Ministero.
Avendo nel caso di specie correttamente applicato tali principi, la sentenza impugnata risulta immune dalle censure ed il ricorso viene in conclusione rigettato.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Sangue infetto: il Ministero doveva vigilare sulle trasfusioni - La Stampa

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