giovedì 31 agosto 2017

Magistrato offende su Facebook? Scatta l’illecito disciplinare

Ai fini dell’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 3 bis del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 in tema di diffamazione su facebook, la valutazione della scarsa rilevanza del fatto contestato va condotta avuto riferimento all'uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere poiché il bene protetto dalla previsione di cui all'art. 4, comma 1, lett. d) dello stesso provvedimento, è costituito dalla immagine del magistrato.
Con sentenza 31 luglio 2017, n. 18987 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affrontano un caso molto interessante consistente nella configurabilità dell’illecito disciplinare, di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, comma 1, lett. d),  nei confronti di un magistrato che comunicando con più persone a mezzo del proprio profilo personale di Facebook, offendeva la reputazione di un Sindaco.
La rilevanza della questione riguarda non solo il fatto specifico della configurabilità dell’illecito disciplinare, ma anche, più in generale, le conseguenze che possono derivare dall’utilizzo poco accorto di un social network come Facebook da parte di un magistrato che, dimenticando di rappresentare un’importante istituzione esprime una propria opinione in merito a fatti, tra l’altro, oggetto di inchiesta giudiziaria.
La Sezione disciplinare, nel caso di specie, ha ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi dell'illecito contestato, e cioè, da un lato, la consumazione del reato di diffamazione, essendo integrata l'offesa alla reputazione del Sindaco; dall'altro, per la risonanza dell'episodio e la diffusione del commento, il pregiudizio dell'immagine del magistrato. La stessa Sezione disciplinare, però, in considerazione del fatto che si trattava di un episodio isolato nel contesto di un profilo professionale positivo, ha ritenuto sussistenti le condizioni per l'applicazione dell'esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis: non configurabilità dell'illecito per essere il fatto di scarsa rilevanza.
Tale interpretazione non è stata accettata dalla Procura generale della stessa Corte che ha proposto ricorso facendo intervenire le Sezioni Unite.
Queste ultime, con la sentenza in esame, rilevano, innanzitutto che l’entrata in vigore dell'art. 131 bis c.p., introdotto dal D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 ha determinato una modificazione normativa che sicuramente incide sul piano della interpretazione sistematica del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis, e art. 4, comma 1, lett. d). Inoltre lo stesso art. 3 bis introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, secondo il quale la sussistenza dell'illecito va comunque riscontrata alla luce della lesione o della messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto effettuato ex post. Si tratta, quindi, di disposizione che tende ad attenuare la rigidità di quella tipizzazione: in riferimento a tutte le ipotesi previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 2 e 3, la condotta, pur astrattamente rientrante in una delle fattispecie astratte all’uopo individuate, costituisce, in concreto, fatto disciplinarmente rilevante soltanto se supera la soglia della non scarsa rilevanza (Sez. Un., 31 maggio 2016, n. 11372). Nel caso di specie, quindi, non può più in alcun modo predicarsi, in linea teorica, la preclusione della operatività della disposizione che nell'ordinamento disciplinare della magistratura può consentire di non configurare come illecito disciplinare un fatto di scarsa rilevanza.
Quello che, invece, le Sezioni Unite chiariscono dando ragione alla Procura Generale è che la sentenza impugnata risulta tuttavia erronea nella parte in cui, muovendo dalla applicabilità dell'art. 3 bis, pur in presenza di un reato del quale ha accertato la commissione, ha in concreto ritenuto di scarsa rilevanza il fatto disciplinarmente rilevante avuto riguardo alla percezione della offesa che il destinatario della stessa aveva avuto.
In tal modo, difatti, la Sezione disciplinare, da un lato, non ha tenuto conto che in tema di diffamazione ciò che rileva è l'uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere; dall'altro, ha omesso di considerare che il bene protetto dalla previsione di cui all'art. 4, comma 1, lett. d), è costituito - come è fatto palese dalla stessa formulazione della disposizione - dalla immagine del magistrato, risultando quindi irrilevante, a tali fini, il fatto che il destinatario di parole oggettivamente diffamatorie possa non averle percepite in tal senso.
In altri termini ciò che conta è la gravità dell’offesa da un punto di vista oggettivo, poco rilevando l’atteggiamento assunto dalla persona offesa.
Aspetto questo molto importante che evidenzia ancor di più come l’uso inconsapevole da parte di un magistrato di un social network di grande diffusione come Facebook non può restare impunito in quanto sicuramente l’offensività delle espressioni utilizzate lede l’immagine della stessa magistratura intesa come istituzione.

fonte:www.altalex.com/Magistrato offende su Facebook? Scatta l’illecito disciplinare | Altalex

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