venerdì 30 giugno 2017

Lecito licenziare via WhatsApp

Un dipendente può essere licenziato anche via chat. Lo ha stabilito il Tribunale civile di Catania che ha ritenuto che il licenziamento «intimato su WhatsApp» appaia «assolvere l’onere della forma scritta, trattandosi di un documento informatico». Con tanto di prova di avvenuta ricezione: l’impugnativa presentata dal dipendente. Lo scrive il giudice del lavoro, Mario Fiorentino, rigettando il ricorso presentato da una dipendente di un’azienda che aveva ricevuto la notizia del suo licenziamento sulla chat di WhatsApp. Secondo il giudice del lavoro «la modalità utilizzata dal datore di lavoro nel caso di fattispecie appare idonea ad assolvere ai requisiti formali in esame, in quanto - si legge nell’ordinanza - la volontà di licenziare è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca come del resto dimostra la reazione da subito manifesta dalla predetta parte». Per questo il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso.

fonte:www.lastampa.it/Lecito licenziare via WhatsApp - La Stampa

Detenute madri: incostituzionale il divieto dei domiciliari in caso di reati gravi

In tema di ordinamento penitenziario è costituzionalmente illegittimo l'art. 47-quinquies, comma 1-bis, della l. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), limitatamente alle parole “Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'art. 4-bis. E' quanto ha deciso la Corte Costituzionale, con la sentenza del 12 aprile 2017, n. 76.
Il Tribunale di Sorveglianza di Bari dubitava della legittimità costituzionale dell'art. 47-quinquies. comma 1-bis, l. 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui impediva alle madri condannate per i delitti di cui all'art. 4-bis della medesima legge, l'accesso alle modalità di espiazione della pena ivi contemplate.
La norma censurata dispone che “salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'art. 4-bis, l'espiazione di un terzo della pena, o di almeno quindici anni in caso di condanna all'ergastolo – condizione necessaria per accedere alla detenzione domiciliare speciale prevista nel comma 1-bis del medesimo art. 47-quinquies – può avvenire presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di ulteriori delitti o fuga, nella propria abitazione, o in un altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all'assistenza dei figli. Nel caso in cui vi sia l'impossibilità di scontare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di provata dimora, la madre può espiare la pena nelle case famiglia protette ove istituite.
Secondo il ricorrente la preclusione all'accesso a tali modalità agevolate di espiazione della pena per le madri condannate per taluno dei delitti di cui sopra, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, in quanto ispirata alla volontà di far prevalere la pretesa punitiva dello Stato rispetto alle esigenze, che dovrebbero essere preminenti, di tutela della maternità e del minore, violando la ratio ispiratrice della detenzione domiciliare speciale, volta a ripristinare la convivenza tra madri e figli.
La Corte Costituzionale, in diverse occasioni, ha evidenziato la speciale rilevanza dell'interesse del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione, ed ha riconosciuto che tale interesse è complesso ed articolato in diverse situazioni giuridiche (sent. n. 17 del 2017, n. 239 del 2014 e n. 7 del 2013), venendo a qualificare come preminente l'interesse del minore a fruire in modo continuativo dell'affetto e delle cure materne.
Affinché il preminente interesse del minore possa restare recessivo di fronte ad esigenze di protezione della società dal crimine, la legge deve consentire che sussistenza e consistenza di queste ultime siano verificate in concreto, e non già sulla base di automatismi che impediscano al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni, come avviene nella disposizione censurata, laddove la legge esclude in assoluto dall'accesso ad un istituto primariamente volto alla salvaguardia del rapporto con il minore in tenera età le madri accomunate dall'aver subito una condanna per taluno dei delitti indicati nell'art. 4-bis della l. n. 354 del 1975.
Conseguentemente, secondo il giudice delle leggi, l'art. 47-quinquies, comma 1-bis della medesima legge, deve essere dichiarato parzialmente illegittimo, nella parte in cui la norma utilizza l'espressione “Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'art. 4-bis”.

Fonte:www.altalex.com/Detenute madri: incostituzionale il divieto dei domiciliari in caso di reati gravi | Altalex

Figlio studente maggiorenne va mantenuto fino al termine del percorso formativo

In tema di mantenimento per il figlio maggiorenne studente, il diritto del figlio si giustifica se esiste l’obbiettivo di realizzare di un progetto educativo e un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e aspirazioni, purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori. Rilevano l’età e la volontà del figlio di conseguire un livello professionale e tecnico per inserirsi nel mondo del lavoro.
La Corte di Cassazione – ordinanza n. 10207 depositata il 26 aprile 2017 – ribadisce l’orientamento corrente della giurisprudenza sui presupposti per la cessazione dell’obbligo di mantenimento di cui all'articolo 147 cod. civ. nei confronti dei figli maggiorenni.
Grava sul genitore obbligato l’onere di dimostrare che i figli abbiano raggiunto l’indipendenza economica o, se studenti, che seguano con profitto un corso di studi volto all’inserimento nel mondo del lavoro.
Nel caso in esame si trattava di una ragazza ventiseienne che aveva terminato un corso di laurea triennale in educazione professionale nei servizi sanitari, ma aveva deciso di voler proseguire il proprio percorso di studi per realizzare un inserimento nel mondo lavorativo corrispondente alle proprie aspirazioni professionali.
La Corte d’appello aveva confermato il mantenimento per la figlia sul presupposto che il titolo di studi conseguito era soltanto una tappa del percorso formativo intrapreso e basandosi sulle generali condizioni economiche della famiglia.
Secondo la Corte di Cassazione – richiamata la recente sentenza della prima sezione civile n. 12952 del 22 giugno 2016 – la cessazione dell'obbligo di mantenimento per i figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che deve essere basato su quattro punti:
l'età;
l'effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica;
l'impegno diretto verso la ricerca di un'occupazione lavorativa;
la complessiva condotta personale tenuta, da parte dell'avente diritto, dal momento del raggiungimento della maggiore età.
In questo senso si è espressa la recente giurisprudenza in materia.
L’autosufficienza può dirsi raggiunta quando i figli percepiscono un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali condizioni di mercato, oppure quando si sottraggono volontariamente allo svolgimento di un'attività lavorativa adeguata.
L’obbligo viene meno anche se il figlio studente, per sua ingiustificata inerzia, non provvede a terminare gli studi (Cass. Civ. n 8954/2010, Cass. Civ. ord. n. 7970/2013 e Cass. Civ. n. 4555/2012).
L’età è uno dei parametri oggetto dell’accertamento poiché lo studente universitario ultratrentenne che non ha terminato il corso di studi, oppure non abbia trovato una pur possibile attività remunerativa, perde il diritto a essere mantenuto (Cass. Civ. n. 27377/2013).
Nello specifico, la scelta della ragazza di proseguire il percorso di studi era finalizzata ad una miglior collocazione nel mondo del lavoro, corrispondeva alle inclinazioni personali della figlia ed era compatibile con le condizioni socio - economiche della sua famiglia.
Il giudice di merito, secondo la Corte, deve valutare con insindacabile apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all'età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il perdurare dell'obbligo di mantenimento, poiché tale obbligo non può prolungarsi oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura. Il diritto del figlio si giustifica se esiste l’obbiettivo di realizzare di un progetto educativo e un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e aspirazioni, purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori.

Fornte:www.altalex.com/Figlio studente maggiorenne va mantenuto fino al termine del percorso formativo | Altalex

Violenza privata: si configura anche nel caso in cui si costringe la “ex” a salire in macchina

Ai fini della configurabilità del reato di violenza privata non è necessaria una violenza fisica o una minaccia esplicita, ben potendosi realizzare la fattispecie di cui all’art. 610 del c.p. anche attraverso ulteriori comportamenti che siano comunque idonei a suscitare il timore di subire un danno ingiusto e che producano la conseguenza di indurre la vittima a fare, tollerare od omettere qualcosa. Così stabilisce la sentenza. n. 29261 del 2017 della V Sezione Penale della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione evidenzia che ai fini della configurabilità del delitto di cui all’articolo 610 del c.p. non sia richiesta necessariamente una violenza o minaccia diretta, ben potendo avere anche altri comportamenti quella capacità di coartare la volontà altrui richiesta dalla fattispecie incriminatrice.
Il caso
Veniva tratto a giudizio un individuo in ordine al reato di violenza privata.
In particolare, all’imputato veniva contestato di avere costretto la sua ex convivente a salire a bordo della sua auto con violenze consistite nell’afferrarla con forza per le spalle e nel sottrarle il telefono cellulare con il ricatto di non restituirlo se non fosse tornata nel veicolo, nonché per averla intimorita lanciando a tutta velocità la propria autovettura al fine di indurla a confessare una presunta relazione con un nuovo compagno.
In primo grado, ritenuta attendibile la testimonianza resa dalla persona offesa e che le dichiarazioni della stessa fossero altresì supportate da quanto riferito dagli altri testimoni sentiti in dibattimento, veniva pronunciata sentenza di condanna.
Avverso tale sentenza proponeva appello l’imputato e la Corte di merito ribaltava il giudizio di prime cure ritenendo che dalla descrizione dei fatti fornita dalla persona offesa emergesse l’insussistenza del reato contestato.
Il ricorso
Contro la sentenza della Corte d’Appello proponeva ricorso per Cassazione la parte civile, articolando le proprie doglianze in quattro motivi.
Con il primo motivo veniva contestato il vizio della motivazione, giacché non erano state confutate compiutamente le argomentazioni della sentenza di condanna di primo grado.
Sul punto, veniva evidenziato come le Sezioni Unite con la sentenza Mannino del 2005 avessero sancito il principio secondo cui il giudice di appello, in caso di riforma radicale della pronuncia di primo grado, avesse l’obbligo di confrontarsi in modo preciso e completo con le argomentazioni della sentenza riformata.
Con il secondo motivo veniva altresì contestato il vizio di motivazione in relazione al fatto che la Corte d’Appello, pur riformando radicalmente la sentenza oggetto di impugnazione, non avesse provveduto alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, ed in particolare a riesaminare i testimoni, come sancito dall’articolo 6 della CEDU secondo il principio espresso dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo Dan/Moldavia del 2011, obbligo che non poteva ritenersi limitato al solo caso di reformatio in peius della pronuncia di prime cure.
Con il terzo motivo veniva dedotto l’omesso esame della memoria depositata dalla parte civile, lamentando al riguardo sia la nullità derivante dalla violazione del diritto di difesa sia la carenza della motivazione.
Con il quarto motivo veniva dedotto il vizio della motivazione nella parte in cui aveva escluso che la “violenza” che è elemento costitutivo della fattispecie descritta dall’articolo 610 del c.p. potesse consistere anche in una violenza “impropria”, attuata mediante mezzi anomali ma comunque in grado di esercitare una forza intimidatoria tale da comprimere la libertà di determinazione della vittima.
La decisione della Corte
La Corte di Cassazione dichiara infondati i primi tre motivi di gravame, ma accoglie il quarto annullando in relazione ad esso la sentenza impugnata.
Riguardo al primo motivo di impugnazione la Suprema Corte ritiene che la giurisprudenza citata dal ricorrente, che prevede la necessità di una confutazione precisa e completa delle argomentazioni della sentenza di primo grado, possa applicarsi solo al caso di reformatio in peius.
Infatti, sottolineano i giudici di legittimità che, mentre per affermare la responsabilità penale dell’imputato è necessario accertare tutti gli elementi dell’illecito, per escludere la stessa è sufficiente che venga meno anche solo un presupposto della fattispecie: pertanto, deve escludersi che in caso di riforma della sentenza in senso assolutorio sussista un obbligo di motivazione “rinforzata”, essendo sufficiente che la motivazione sia logica e non meramente apparente.
La Suprema Corte esclude altresì l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di riforma di una sentenza di condanna, rifacendosi in relazione a questo punto specifico alla consolidata giurisprudenza di legittimità.
Precisa, infatti, come l’obbligo di escutere nuovamente i testi derivante dall’articolo 6 della CEDU costituisca un corollario della regola fondamentale per cui la prova deve formarsi nel contraddittorio delle parti, regola posta nell’esclusivo interesse dell’imputato e non estensibile nei suoi effetti al pubblico ministero ed alla parte civile e, dunque, tale da non consentire di fondare un obbligo di nuova escussione in caso di pronuncia assolutoria.
Inoltre, il ribaltamento in senso favorevole all’imputato della sentenza di condanna di primo grado senza rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è perfettamente coerente con la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 533 del codice di procedura penale, evidenziandosi in maniera chiara come la divergenza tra la decisione di primo e di secondo grado esprima necessariamente un ragionevole dubbio in ordine alla colpevolezza.
Anche il terzo motivo di ricorso viene respinto, implicitamente non rilevandosi il carattere decisivo dell’omissione lamentata in relazione alla motivazione della sentenza.
Viene ritenuto fondato, invece, il quarto motivo di impugnazione.
Al riguardo, la Suprema Corte sottolinea che la Corte d’Appello avesse escluso la sussistenza del reato di cui all’articolo 610 del c.p. per il fatto che l’imputato non avesse posto in essere alcuna concreta violenza fisica o minaccia, bensì atti di violenza verbale che la persona offesa aveva percepito come intimidatori, ma che di fatto non avevano compromesso la sua capacità di determinazione.
Nel pronunciarsi in tal senso la Corte di merito disattende il risalente insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il delitto di violenza privata non richiede necessariamente una violenza fisica o una minaccia esplicita, essendo sufficiente qualsiasi condotta idonea ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto che determini una compressione della libertà di azione altrui.
Andando più nel dettaglio, la Corte di Cassazione sottolinea come in numerose pronunce sia stato precisato il concetto di violenza “impropria” idonea ad integrare la fattispecie di cui all’articolo 610 del c.p., evidenziando come, ad esempio, configuri violenza privata: la condotta di chi apponendo una catena con lucchetto ad un cancello impedisca all’avente diritto di entrare nella propria abitazione, di chi afferri per le spalle una persona costringendola a fermarsi ed avere un contatto che altrimenti avrebbe evitato per impedirle di entrare in una cabina telefonica, di chi sostituisca la serratura della porta di accesso di un vano-caldaia impedendo al condomino di accedervi esercitando il proprio diritto di servitù ovvero di chi chiuda a chiave una stanza o un locale dell’abitazione impedendo alla moglie di accedervi.
Nel caso di specie, la Suprema Corte rileva delle carenze nella motivazione assolutoria, che non ha considerato che la parte offesa non volesse entrare nell’auto dell’imputato e fosse stata spinta all’interno del veicolo e che avesse consegnato il cellulare quale pegno per poter ottenere di salire in casa con la promessa di tornare in auto dopo aver preparato la cena per i figli, condotte queste integranti il suddetto concetto di violenza “impropria”.
Su tali basi la Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per il grado di appello, trattandosi di impugnazione della sola parte civile.

Fonte:www.quotidianogiuridico.it/Violenza privata: si configura anche nel caso in cui si costringe la “ex” a salire in macchina | Quotidiano Giuridico

mercoledì 28 giugno 2017

Non è diligente la banca che paga assegni senza la completa sottoscrizione del traente

Non è conforme al canone di diligenza professionale richiesto dalla norma dell'articolo 1176 comma 2 cc il comportamento della banca che provveda a pagare degli assegni bancari su cui, in luogo della completa sottoscrizione del traente così come prescritta dalla norma dell'art. 11 della legge assegni, compaia solamente una sigla. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 1° giugno 2017 n. 13873.
Una novità giurisprudenziale - Non risultano precedenti esattamente in termini.
Per qualche riferimento, utilmente, per il rilievo che ai sensi dell'articolo 11 del regio decreto 21 dicembre 1933 n. 1736, per la validità della sottoscrizione di un'obbligazione cartolare è necessario che essa contenga il nome, anche abbreviato o indicato con la sola iniziale, il cognome o la ditta dell'obbligato e che tale disposizione è applicabile anche agli enti collettivi, per cui in difetto di tali requisiti, la menzione dell'ente è insufficiente a obbligare il medesimo, mentre viceversa non è necessaria la specificazione del rapporto di rappresentanza, salvo il caso in cui il segno grafico del girante sia noto e riconoscibile, Cassazione, sentenza 24 settembre 2009, n. 20543, in Guida al diritto, 2009, f. 48, p. 58, ove il rilievo che tale situazione ricorreva nella specie atteso che il giudice a quo aveva rilevato che la firma di girata apposta sul timbro dell'ufficio postale era costituita sì dalla sola iniziale di un nome, la lettera R, e da un cognome non certamente leggibile, ma detta firma era totalmente identica a quella apposta sul timbro dell'ufficio postale originario beneficiario dei titoli e girante degli stessi.

Fonte:www.ilsole24ore.com/Non è diligente la banca che paga assegni senza la completa sottoscrizione del traente

Esonero Canone Rai, ultimi giorni per i ritardatari

Mancano pochi giorni per chiedere l’esenzione dal pagamento del Canone Rai. Il termine ultimo è previsto per il 30 giugno ma vale per i ritardatari che hanno saltato la scadenza di gennaio. È, infatti, entro il 31 gennaio che bisogna presentare la domanda di esonero per tutto l’anno. In questo modo non sarà addebitato in bolletta il corrispettivo per il 2017 a chi non ha la Tv. Chi però ha saltato il termine dell’inizio dell’anno potrà inviare la dichiarazione fino al 30 giugno ma gli sarà addebitata la quota dei primi sei mesi dell’anno. Non pagherà invece da luglio a dicembre.
Va ricordato che la richiesta di esonero vale un solo anno, poi bisogna ricominciare tutto da capo e ripresentare la domanda.
Ecco dove trovare i moduli per l’esonero
Per chiedere l’esonero occorre inviare il modello di domanda che si scarica dal sito dell’Agenzia delle entrate. L’invio va fatto per posta raccomandata oppure per via telematica.
La petizione di Altroconsumo
L’organizzazione ha raccolto più di 240 mila firme e chiede l’abolizione del canone Rai per restituire alle famiglie 90 euro al mese. Inoltre la richiesta è di una radicale innovazione tecnologica per il servizio nazionale, niente più Commissione di Vigilanza Rai, insieme al superamento del condizionamento della politica sull’informazione televisiva. Per questo l’organizzazione ha scritto a Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio, Roberto Fico, presidente Commissione di Vigilanza Rai e Monica Maggioni, presidente Rai, per chiedere un incontro e presentare soluzioni serie e concrete per riformare il servizio pubblico.
L’occasione è la presentazione dei palinsesti autunnali dell’azienda agli investitori pubblicitari. L’organizzazione dei consumatori si chiede come mai la concessionaria del servizio pubblico finanziata con il canone pagato dai telespettatori si comporti come una Tv commerciale. «Occorre che la Rai scelga: delle due l’una» dice Altroconsumo.

Fonte:www.lastampa.it/Esonero Canone Rai, ultimi giorni per i ritardatari - La Stampa

Dal 1° luglio sale la bolletta della luce, cala quella del gas

Sale la bolletta della luce, cala quella del gas. Lo ha comunicato oggi l’Autorità per l’Energia che ogni trimestre fissa i nuovi valori per i tre mesi in arrivo. Oggi ha fatto sapere che dal 1° luglio le famiglia-tipo vedranno un incremento del prezzo dell’elettricità del 2,8% mentre la bolletta del gas scenderà del 2,9%. La famiglia tipo è quella che consuma in media 2.700 kWh di energia elettrica l’anno e per il gas arriva a totalizzare 1.400 metri cubi. «La stagionalità dei prezzi nei mercati all’ingrosso influenza l’andamento degli aggiornamenti» dice l’Autority.
In particolare, si legge nella nota, l’andamento dell’elettricità è legato a prezzi nel mercato nazionale all’ingrosso previsti in rialzo nel prossimo trimestre, derivanti dagli attesi alti consumi collegati alla stagionalità del caldo periodo estivo, già manifestatisi nel mese di giugno particolarmente torrido. Per il gas invece la stagione di bassi consumi a livello europeo e nazionale implica - come previsto - una riduzione dei prezzi nei mercati all’ingrosso continentali.
«Tanto per cambiare, i prezzi del gas scendono d’estate, quando nessuno accende il riscaldamento e poi magicamente salgono d’inverno - afferma Marco Vignola, responsabile del settore energia dell’Unione Nazionale Consumatori -. In pratica nessuno potrà usufruire della riduzione del prezzo del gas, mentre sui bilanci delle famiglie peserà solo l’aumento dell’elettricità».
L’associazione di consumatori invita, il Governo Gentiloni a mettere mano agli oneri di sistema sull’elettricità che, per quanto si siano abbassati, continuano a pesare per il 18,37%. Anche perché è assurdo che vadano per il 3,40% a finanziare ancora la messa in sicurezza delle centrali nucleari ormai dismesse mentre per il bonus sociale destinato alle famiglie in difficoltà si impieghi solo lo 0,96% conclude Vignola.

Fonte:www.lastampa.it/Energia: bollette, da 1° luglio elettricità +2,8%, gas -2,9% - La Stampa

L’auto storica in garage non sfugge al Fisco

La Cassazione approva il ricorso delle Entrate con l’ordinanza n. 15899/2017. Ok all’accertamento nei confronti del contribuente che dichiara un reddito modesto.
Legittimo l’accertamento fiscale che si basa sul possesso, da parte di un contribuente che dichiara un modesto reddito, di alcune auto d’epoca. Così la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 26 giugno 2017, n. 15899, nella quale il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate è stato accolto.
La vicenda. I Giudici della Suprema Corte hanno riformulato la tesi della CTR: allora, i Giudici territoriali avevano accolto il ricorso del contribuente il quale sosteneva di tenere le automobili in garage e di utilizzarle sporadicamente, senza quindi grosse spese di mantenimento. In sostanza, per lui quelle auto avevano un solo valore affettivo. Per gli Ermellini, però, è l’auto in sé che è sintomo di redditi elevato, e nulla rileva l’uso che ne viene fatto.
Capacità contributiva. Sostengono infatti i Giudici di Piazza Cavour: «In tema di accertamento delle imposte sul reddito, il riferimento al possesso di autovetture da parte del contribuente […] deve intendersi esteso anche alle auto storiche, non rinvenendosi in dette disposizioni alcuna precisazione o restrizione al riguardo, e rappresentando tale circostanza un idoneo indice di capacità contributiva, dal quale possono correttamente desumersi elementi di valutazione, nell’ambito dell’apprezzamento riservato al giudice di merito, come fatto al quale notoriamente si ricollegano spese a volte anche ingenti». Il Supremo Consesso ha cassato la sentenza della CTR e rinviato il tutto alla Commissione Regionale in altra composizione.

Fonte: www.fiscopiu.it /L’auto storica in garage non sfugge al Fisco - La Stampa

Piastrelle con crepe e avvallamenti: acquirente risarcito

Possono costituire gravi difetti dell’edificio ai sensi dell’art. 1669 c.c. anche le carenze costruttive dell’opera, intesa quale singola unità abitativa, che pregiudichino in modo grave il normale godimento, la funzionalità e/o l’abitabilità dell’immobile.
Così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 15846/17 depositata il 26 giugno.
La vicenda. La sentenza in oggetto origina dalla controversia instauratasi tra gli acquirenti di un appartamento e la società costruttrice per i gravi difetti riscontrati nella pavimentazione dell’immobile per i quali i primi chiedevano il risarcimento dei danni. Il Tribunale accoglieva la domanda attorea, pronuncia confermata anche in Appello. La società ricorre ora in Cassazione contestando il carattere diffuso dei vizi riscontrati, nonché la non incidenza di tali difetti sulla funzionalità dell’immobile.
Responsabilità extracontrattuale. La Suprema Corte coglie l’occasione per affermare che il codice civile prevede una responsabilità extracontrattuale in capo all’appaltatore per i gravi difetti dell’opera al fine di promuovere la stabilità e la solidità degli edifici e degli immobili destinati alla lunga durata, nonché di tutelare l’incolumità personale.
Gravi difetti. Sottolineando poi il fatto che la responsabilità del costruttore è estesa anche ai difetti che, pur non compromettendo la stabilità dell’edificio, siano caratterizzati da gravità, il Collegio riconduce tale concetto alle conseguenze che dal difetto possano derivare e non alla sua intrinseca obiettività.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, possono costituire gravi difetti dell’edificio anche le carenze costruttive dell’opera, intesa quale singola unità abitativa, che pregiudichino in modo grave il normale godimento, la funzionalità e/o l’abitabilità. Tipico esempio di tali difetti è l’utilizzo di materiali inidonei o l’esecuzione delle opere non a regola d’arte, anche se incidente su elementi secondari ed accessori quali i rivestimenti o la pavimentazione, purché sia riscontrabile un’incidenza negativa e considerevole sul godimento del bene e siano eliminabili solo con lavori di manutenzione e cioè opere di riparazione, rinnovamento o sostituzione.
Correttamente dunque il giudice del caso di specie ha valutato le prove sull’estensione dei difetti della pavimentazione dell’appartamento, eliminabili solo con un’integrale sostituzione delle piastrelle ed il rifacimento dei sottofondi, con la conseguente affermazione di responsabilità del costruttore per l’intera somma necessaria per l’esecuzione di tali lavori in virtù del principio della restituito in integrum.
Per questi motivi, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Piastrelle con crepe e avvallamenti: acquirente risarcito - La Stampa

domenica 25 giugno 2017

Al coniuge superstite non spetta il diritto di abitare nella casa familiare di proprietà di terzi

In base all’art. 540 del codice civile, al coniuge superstite, anche in presenza di altri chiamati all’eredità, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.
In altri termini, la condizione fondamentale affinché il coniuge veda nascere a proprio vantaggio i diritti soprindicati è che la casa e gli arredi siano “di proprietà del defunto o comuni”.
Il problema sta proprio nel significato da attribuire all’espressione utilizzata dalla normativa essendo per nulla sopita la diatriba dottrinale e giurisprudenziale in merito.
Una parte della dottrina, particolarmente attenta alla ratio protettiva della legge, interpreta la disposizione in oggetto nel senso che i diritti di uso e abitazione sorgano in ogni caso in favore del coniuge superstite e quindi anche nell'ipotesi in cui il de cuius era comproprietario in vita con altri soggetti della casa e degli arredi.
Ciò in quanto, diversamente argomentando, il coniuge superstite risulterebbe sempre danneggiato dal de cuius, qualora quest’ultimo, volendo eludere il precetto di cui all’art. 540 c.c., alieni a terzi anche soltanto una piccola quota di proprietà della casa familiare impedendo l’attribuzione dei diritti di cui alla norma citata.
Secondo tale orientamento quindi con il termine “comune” il legislatore ha inteso riferirsi non soltanto all’ipotesi dell’immobile in comproprietà tra i soli coniugi, ma anche alle ipotesi molto frequenti nella prassi di comunione tra il de cuius e altri chiamati alla successione o addirittura tra il de cuius e terzi soggetti estranei.
Corollario pratico di tale dottrina è che l’eventuale presenta di terzi non risulta ostativa all’attribuzione in favore del coniuge superstite in quanto i diritti d’uso e abitazione in favore del medesimo sorgono in ogni caso e limitatamente alla quota di comproprietà del coniuge defunto.
Per converso, altra autorevole dottrina risolve in senso negativo la discussione in oggetto.
Secondo tale tesi infatti la ratio dell’art. 540 c.c. deve piuttosto rinvenirsi nell’esigenza di assicurare al coniuge superstite il “pieno” godimento dell’abitazione familiare e dei beni in essa compresi. Pertanto tali diritti sarebbero esclusi in radice in presenza di un comproprietario estraneo alla successione.
Ne deriva, dunque, che il legislatore prevedendo l’ipotesi di abitazione “comune”, abbia inteso riferirsi soltanto all’ipotesi di comproprietà con l’altro coniuge, in ragione del fatto che il regime patrimoniale della comunione legale è quello che con maggiori probabilità intercorra tra i coniugi.
In definitiva, seguendo la ricostruzione testé citata, il diritto di abitazione può sorgere unicamente ove vi sia la concreta possibilità di soddisfare a pieno l’esigenza abitativa del coniuge superstite.
Il dibattito accennato ha sovente raggiunto anche le aule dei tribunali.
Dal punto di vista giurisprudenziale infatti la Cassazione, adottando un approccio meno rigido e radicale, ha inizialmente posto l’accento sull’evidente contenuto economico dei diritti di uso e abitazione sulla casa familiare.
La Suprema Corte infatti, pur escludendo l’esistenza del diritto di abitazione e di uso sulla casa familiare in presenza di un diritto di proprietà vantato da un soggetto estraneo, ha comunque ammesso che tali diritti, nei limiti della quota di proprietà del coniuge defunto, si convertano necessariamente in un equivalente monetario.
In particolare, nell’ipotesi di indivisibilità dell’immobile, quest’ultimo deve essere assegnato per intero ad altro condividente o deve essere venduto all’incanto al fine di ricavare il quantum in danaro da attribuire al coniuge superstite che non può godere pienamente dell’abitazione familiare.
Tuttavia tale ricostruzione è stata oggetto di ampia rivisitazione da parte della medesima Corte di Cassazione in quanto tendente a focalizzarsi esclusivamente sul dato patrimoniale ed economico connesso al diritto di abitazione e di uso. In altri termini si trascura in tal guisa la natura soprattutto qualitativa e non quantitativa dei diritti in oggetto.
Ciò che si intende dire è che l’esigenza fortemente avvertita dal legislatore nel rubricare l’art. 540 c.c., è unicamente quella di garantire al coniuge superstite la persistenza del godimento della casa adibita a residenza familiare e dei mobili che la corredano tanto al fine di preservare quell’ambiente etico-affettivo in cui è convissuto con il de cuius, quanto e soprattutto per scongiurare il pericolo di perdita improvvisa, dopo la morte del coniuge, del proprio punto di riferimento abitativo.
Per tali ragioni la Corte di legittimità ha poi sancito che i diritti di uso e abitazione sulla casa adibita a residenza familiare in favore del coniuge superstite, necessitano, per la loro concreta nascita, dell’appartenenza della casa e del relativo arredamento al de cuius in titolarità esclusiva o al massimo, in comunione, a costui e all'altro coniuge.
Non è pertanto ammissibile la loro esistenza in presenza di quote di pertinenza di altri soggetti estranei all'eredità.
In linea con il citato orientamento giurisprudenziale si deve quindi concludere che non spetta al coniuge superstite il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e sui mobili che la corredano qualora l’abitazione coniugale non è in proprietà esclusiva del coniuge defunto o in comunione fra i coniugi, ma è in una situazione di contitolarità del de cuius con terzi estranei.

Fonte:www.altalex.com/Coniuge superstite ha diritto di abitare nella casa familiare di proprietà di terzi? | Altalex

Anche i titolari dei B&B devono comunicare le generalità dei clienti

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha rigettato il ricorso presentato dalla titolare di un’attività di affittacamere condannata per la violazione degli artt. 17 e 109 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (T.U.L.P.S.), per aver omesso di comunicare all’autorità di pubblica sicurezza, entro le ventiquattro ore di legge, le generalità degli ospiti della struttura.
La ricorrente sosteneva che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di merito, la sua fosse qualificabile come una attività non imprenditoriale di bed and breakfast e dunque non soggetta alla normativa in tema di leggi di pubblica sicurezza.
La Corte anzitutto chiarisce come, non essendo prevista alcuna sanzione all’interno della norma di cui all’art. 109 T.U.L.P.S., la sua violazione è sanzionata dalla disposizione sussidiaria prevista dall’art. 17 del medesimo testo di legge.
Per quanto attiene ai soggetti tenuti all’obbligo di comunicazione delle generalità dei clienti, la norma fa riferimento ai “gestori di esercizi alberghieri e di altre strutture ricettive, comprese quelle che forniscono alloggio in tende, roulotte, nonché i proprietari o gestori di case e di appartamenti per vacanze e gli affittacamere, ivi compresi i gestori di strutture di accoglienza non convenzionali”.
Per tali ragioni risulta infondato l’assunto difensivo, in quanto anche l’attività di B&B risulta soggetta alla disciplina sopra richiamata; ed infatti “la norma precettiva non autorizza alcuna differenziazione basata sulle dimensioni strutturali e sul numero di camere dell’alloggio che offre ospitalità, perché assoggetta i proprietari o gestori di alberghi, ma anche di tutte le altre strutture ricettive, senza distinzioni di sorta, comprese quelle non convenzionali, al rispetto dell’obbligo di comunicazione delle generalità dei clienti entro il termine di ventiquattrore”.

Scarica la sentenza:Cass. Pen., Sez. I. ud. 28 aprile 2017 (dep. 11 maggio 2017), n. 23308

Fonte:www.parolaalladifesa.it/Anche i titolari dei B&B devono comunicare le generalità dei clienti

Permessi 104 e unioni civili: le procedure

Il messaggio INPS n. 2545/2017 informa che le procedure informatiche per l’invio delle domande per i permessi 104 e per il congedo straordinario per assistenza a familiari disabili gravi sono state integrate con la possibilità di acquisire le istanze degli uniti civilmente e dei conviventi di fatto.
Permessi 104. L’INPS informa che sono state implementate le procedure informatiche per l’invio, con modalità telematica, delle domande per i permessi 104 e per il congedo straordinario dei lavoratori dipendenti del settore privato.
Domande unioni civili. In particolare, il messaggio rende noto che l’applicazione per l’invio telematico delle domande per i permessi 104 è stata integrata con la possibilità di acquisire le domande degli uniti civilmente e dei conviventi di fatto, per richiedere i giorni di permesso per assistenza alla parte di un’unione civile o ai conviventi di fatto con disabilità in situazione di gravità.
Inoltre, l’applicazione per l’invio telematico delle domande di congedo straordinario è stata integrata con la possibilità di acquisire le domande degli uniti civilmente, per richiedere i giorni di congedo straordinario per assistenza alla parte di un’unione civile con disabilità in situazione di gravità.

Fonte: www.lavoropiu.info/Permessi 104 e unioni civili: le procedure - La Stampa

giovedì 22 giugno 2017

I crostacei soffrono: in attesa di essere cucinati devono stare in acquario

La Cassazione ha riconosciuto rilevanza penale, in termini di maltrattamento di animali, alla prassi di un ristoratore che teneva i crostacei in una cella frigorifera con le chele legate, in attesa di essere cucinati.
Così la sentenza n. 30177/17 depositata il 16 giugno.
Il fatto. Un ristoratore veniva condannato per maltrattamento di animali per aver detenuto alcuni crostacei vivi in una cella frigorifera con le chele legate in attesa di essere cucinati, condizioni che il giudice riteneva incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.
Il ristoratore ricorre in Cassazione sostenendo l’assenza dell’elemento materiale e psicologico del reato. I crostacei infatti provengono dall’America e vengono trasportati in casse di polistirolo piene di ghiaccio con le chele di ghiaccio per essere poi consegnati a supermercati e rivenditori con il beneplacito di tutte le autorità preposte ai controlli sanitari e giudiziari. Aggiunge inoltre che la conservazione dei crostacei nel ghiaccio comporta uno stato di torpore ed anestesia con annullamento di ogni sofferenza e conseguente mancanza dell’elemento soggettivo del reato.
I crostacei provano dolore. I Giudici di legittimità non condividono le prospettazioni del ricorrente.
In tema di maltrattamento di animali, la giurisprudenza ha infatti riconosciuto la punibilità della detenzione di animali, avuto riguardo alle specie più diffuse e agli animali domestici, con modalità tali da arrecare gravi sofferenze incompatibili con la loro natura. Il caso dei crostacei giunge per la prima volta al Palazzaccio in un momento in cui gli studi scientifici hanno portato a ritenere che «i crostacei sono esseri senzienti in grado di provare dolore». Ciò porta la Corte a condividere l’argomentazione del Tribunale.
E’ infatti notoriamente diffusa la pratica di molti ristoranti e supermercati di teneri i crostacei in acquari a temperatura controllata ed ossigenati, indice di «una certa sensibilità nella comunità che induceva all’adozione di accorgimenti più complessi» al fine di accogliere detti animali nel modo più adatto alle loro caratteristiche naturali.
Inoltre la consuetudine di cucinare i crostacei quando sono ancora vivi, non esclude che le modalità di detenzione degli stessi possano costituire maltrattamenti. Gli Ermellini infatti affermano che «al pari della tutela apprestata nei confronti degli animali di affezione», integra il reato di maltrattamento di animali la detenzione dei crostacei con modalità per loro produttive di gravi sofferenze, soprattutto se motivate da ragioni di contenimento dei costi «con la conseguenza che, nel bilanciamento tra interesse economico e interesse (umano) alla non sofferenza dell’animale, è quest’ultimo che, in tal caso, deve ritenersi prevalente e quindi penalmente tutelato in assenza di norme o di usi riconosciuti in senso diverso».
Per questi motivi, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/I crostacei soffrono: in attesa di essere cucinati devono stare in acquario - La Stampa

Niente assegno divorzile per l’ex economicamente indipendente

Il Tribunale di Mantova, allineandosi con il recente orientamento della Corte di Cassazione, nega l’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge che è in grado di mantenersi autonomamente.
In un procedimento di divorzio, il Tribunale di Mantova si è pronunciato, fra le altre, sulla richiesta dell’ex moglie di porre a carico dell’ex marito un assegno divorzile in suo favore.
No all’assegno divorzile per l’ex coniuge se è economicamente indipendente. Aderendo al recente orientamento adottato dalla Cassazione, il Tribunale ritiene che per verificare se il coniuge richiedente abbia o meno diritto all’assegno divorzile non si deve più accertare se lo stesso disponga di risorse economiche tali da consentirgli di continuare a godere del medesimo tenore di vita tenuto nel periodo di convivenza matrimoniale ma è necessario appurare se sia più o meno indipendente o autosufficiente economicamente.
Come evidenziato dalla Suprema Corte, infatti, «l’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile (…) non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi ma il raggiungimento dell’indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile».
Pertanto, il Tribunale di Mantova rigetta la richiesta di assegno in quanto la donna, percettrice di un buono stipendio mensile e proprietaria di un’abitazione, risulta senz’altro autosufficiente da un punto di vista economico.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Niente assegno divorzile per l’ex economicamente indipendente - La Stampa

Ferrara, tribunale: da testimone a indagato #falsatestimonianza


Dal Resto del Carlino - Cronaca di Ferrara...#Tribunale #Penale #Droga #Spaccio #FalsaTestimonianza #StudioLegaleMancino #AvvEmilianoMancino

lunedì 19 giugno 2017

Il reato di contraffazione richiede la semplice imitazione idonea a trarre in inganno

Il reato di contraffazione è configurabile con la semplice imitazione del marchio, anche se non registrato o riconosciuto, se l'imitazione è idonea a trarre in inganno gli acquirenti.
Gli interessi tutelati dalle norme di diritto pubblico (penali, tributarie e amministrative) sono differenti rispetto alla tutela posta a presidio degli interessi dei produttori in ambito civile.
Decisione: Sentenza n. 27961/2017 Cassazione Penale - Sezione III
Il caso.
Il Tribunale del Riesame rigettava la richiesta di riesame del decreto di perquisizione e sequestro emesso dal pubblico ministero, in relazione al reato di cui agli articoli 110 e 473 del codice penale, a seguito del quale furono sequestrati 7234 reperti recanti un marchio con evidente somiglianza dell'immagine delle etichette dei cartellini rispetto a quella di un'azienda concorrente.
Il ricorrente solleva due motivi di impugnazione dell'ordinanza, lamentando «l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale (articolo 606, comma 1, lettere b), del codice di procedura penale), sul rilievo che il tribunale avrebbe ritenuto la rilevanza penale del fatto ascrivibile, secondo la prospettazione del ricorrente, non al paradigma normativo di cui all'articolo 517 del codice penale, come infatti erroneamente ritenuto dal tribunale, quanto piuttosto rientrante, se del caso, nell'area dell'illecito civile di concorrenza sleale ex articolo 2598 del codice civile», nonché la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.
La Cassazione ritiene il ricorso infondato.
La decisione.
Il Collegio affronta il primo motivo, col quale il ricorrente obietta che ««la condotta incriminata non sarebbe penalmente rilevante potendo, al massimo, integrare l'illecito civile della concorrenza sleale e tuttavia non prende alcuna posizione in ordine alla diversa qualificazione giuridica che il tribunale cautelare ha ritenuto di dare al fatto che ha innescato il provvedimento di sequestro probatorio e cioè che, nel caso in esame, la condotta fosse caratterizzata dall'artificiosa equivocità dei contrassegni, marchi ed indicazioni illegittimamente utilizzati dall'agente e tali da ingenerare la possibilità di confusione con prodotti similari da parte dei consumatori e, in buona sostanza, della somiglianza tra i segni distintivi dei prodotti, tale da creare confusione nel consumatore mediamente diligente».
Ma la Suprema Corte è di diverso avviso: «In siffatto caso, ossia quando una determinata raffigurazione sia idonea ad ingenerare in qualche modo confusione nei consumatori in ordine ad una determinata origine, provenienza o qualità della merce risultante dal marchio apposto, è configurabile il reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, previsto dall'articolo 517 del codice penale e non anche o soltanto l'illecito civile, quale la concorrenza sleale, perché, nel caso di specie, si realizza l'induzione in errore (non necessariamente richiesta per l'illecito civile) che è prodotta dall'uso di nomi, marchi o segni distintivi, intesi quali elementi nominativi o figurativi che identificano il produttore del bene».
E ne chiarisce la ragione, richiamandosi alle Sezioni Unite Civili: «E' stato autorevolmente affermato che - siccome, nell'economia di mercato, la concorrenza deve svolgersi nel rispetto sia dei limiti posti da norme di diritto pubblico (penali, fiscali ed amministrative) che tutelano soltanto interessi generali, sia dei limiti fissati da norme privatistiche, dettate nell'interesse esclusivo degli imprenditori concorrenti, quali quelle che vietano gli atti di concorrenza sleale (artt. 2598 e ss. Cod. civ.) - deve ritenersi - data la diversità degli interessi giuridici protetti dai due tipi di norme - che, per regola generale e salvo eccezioni, i comportamenti lesivi della prima categoria delle norme citate non integrano, di per se stessi, atti di concorrenza sleale reprimibili sul piano privatistico (Cass. civ. Sez. U, n. 582 del 23/02/1976, Rv. 379229 - 01)».
Il Collegio ricorda che gli interessi protetti sono differenti: «Infatti, avuto riguardo alla diversità degli interessi protetti, il reato di cui all'articolo 517 del codice penale (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) ha per oggetto (generico) la tutela dell'ordine economico e richiede la semplice imitazione del marchio, non necessariamente registrato o riconosciuto, purché detta imitazione sia idonea, come è stato ritenuto nella specie, a trarre in inganno gli acquirenti, cosicché per l'integrazione del modello legale di reato è sufficiente una somiglianza di nomi, marchi o segni distintivi (Sez. 5, n. 3040 del 27/11/1986, dep. 1987, Canfora, Rv. 175321).»
La tutela penale è volta alla protezione della generalità dei consumatori e non dei produttori:
«Lo specifico interesse protetto dalla norma incriminatrice non coincide perciò con quello dei produttori a che non vengano messi in circolazione prodotti recanti segni distintivi non corrispondenti alla reale origine, provenienza o qualità dell'oggetto posto in commercio, restando pertanto fuori dall'obiettività giuridica criminosa l'ulteriore evento ossia l'eventuale realizzazione di uno squilibrio delle condizioni di mercato, tale da riflettersi direttamente sulla sfera patrimoniale del singolo imprenditore con conseguente danno per la sua impresa. La tutela penale è invece accordata alla protezione della generalità dei consumatori dal pericolo di essere tratti in inganno sulle caratteristiche essenziali del prodotto dai segni mendaci sullo stesso apposti, approdo quest'ultimo confermato dai lavori preparatori, posto che la relazione ministeriale al codice penale chiarisce che, quanto al delitto in esame, «non sono le ditte produttrici che vengono tutelate, sebbene la massa degli acquirenti contro gli inganni perpetrati col facile mezzo di mendaci contrassegni dei prodotti». E' di tutta evidenza, poi, che la norma penale in discorso, proteggendo la generalità dei consumatori, tende ad assicurare l'onestà degli scambi commerciali contro il pericolo di frodi nella circolazione dei prodotti (Sez. 5, n. 7720 del 26/06/1996, Pagano, Rv. 205552)».
Osservazioni.
Nell'affrontare la questione la Suprema Corte ha ricordato la diversità degli interessi tutelati dalle norme di diritto pubblico (penali, tributarie e amministrative) rispetto alla tutela posta a presidio degli interessi dei produttori in ambito civile.
In particolare, la Cassazione ha ricordato che il reato di contraffazione è configurabile con la semplice imitazione del marchio, anche se non registrato o riconosciuto, se l'imitazione è idonea a trarre in inganno gli acquirenti.

Fonte:www.ilsole24ore.com/Il reato di contraffazione richiede la semplice imitazione idonea a trarre in inganno»

venerdì 16 giugno 2017

Cassazione, ok all’iscrizione all’anagrafe di un bambino come figlio di due donne

Per la Cassazione non contrasta con l’ordine pubblico e, dunque, può essere trascritto in Italia l’atto di nascita formato all’estero in cui un bambino è registrato come figlio di due madri (colei che lo ha partorito e quella che ha donato l’ovulo, fecondato con seme di uomo anonimo).
Il caso. Due donne, una spagnola e l’altra italiana, si sposano in Spagna; per realizzare il loro progetto familiare, l’italiana mette a disposizione un proprio ovulo che, fecondato con gamete di donatore anonimo, viene impiantato nell’utero della donna spagnola. Nasce in Spagna un bambino che, nell’atto di nascita, viene indicato come figlio di entrambe le donne (madre “A” colei che ha partorito e madre “B” l’altra). Interviene poi il divorzio fra le due donne e l’ufficiale di stato civile italiano rifiuta la trascrizione dell’atto di nascita straniero, siccome contrario all’ordine pubblico. Il Tribunale di Torino conferma la legittimità dell’operato dell’ufficiale di stato civile; di contrario avviso, invece, la locale Corte d’appello che ordina la trascrizione dell’atto di nascita. Tanto la Procura generale presso quella Corte, quanto il Ministero dell’Interno ricorrono per Cassazione. La Suprema Corte però respinge entrambi i ricorsi.
Ammessa la trascrizione in Italia dell’atto di nascita straniero. La sentenza in questione presenta diversi elementi in comune con la precedente decisione (la n. 12962 del 22 giugno scorso), resa sempre dalla Prima Sezione della Cassazione, sulla c.d. stepchild adoption.  Ciò non tanto per il fatto che entrambe le pronunce disattendono la richiesta della Procura Generale di trasmissione del fascicolo alle Sezioni unite, quanto per una ragione sostanziale. La Corte di legittimità dà atto infatti dell’esistenza di modelli familiari diversi, all’interno dei quali il progetto di filiazione può essere realizzato anche dalla coppia dello stesso sesso (in entrambe le fattispecie, due donne). La Cassazione, in modo sistematico, enuclea espressamente quattro principi di diritto:
1) l’ordine pubblico, la cui contrarietà impedisce la trascrizione  in Italia di atti dello stato civile formati all’estero, attiene ad «esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo».  La Cassazione conferma pertanto l’orientamento che considera l’ordine pubblico in senso internazionale. Se infatti detta nozione rimandasse solo ai principi dell’ordinamento interno  «le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali, aventi contenuto analogo a quelle italiane, cancellando le diversità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato».
2) la trascrizione in Italia di un atto di stato civile validamente formato all’estero, nel quale risulti la nascita del figlio da due madri non contrasta con l’ordine pubblico (nell’accezione anzidetta), per il fatto che il legislatore nazionale non prevede o vieta tale fattispecie. L’elemento fondamentale che il giudice deve valutare è infatti quello dell’interesse del minore, la cui identità personale verrebbe lesa ove non fosse dichiarato il vincolo di genitorialità con la madre genetica; ciò «in considerazione delle conseguenze pregiudizievoli concernenti la possibilità non solo di acquisire anche la cittadinanza italiana e i diritti ereditari, ma anche (..) di circolare liberamente nel territorio italiano e di essere rappresentato dal genitore nei rapporti con le istituzioni italiane».
3) la donazione di un ovulo da una donna alla propria partner, che partorisce grazie al gamete di maschio anonimo, realizza una fattispecie differente dalla maternità surrogata. Si tratta infatti di «una tecnica fecondativa simile ad una fecondazione eterologa (..) in virtù dell’apporto genetico di un terzo (ignoto)».
4) il principio sancito dall’articolo 269, comma 3° del Codice Civile (per cui madre è colei che partorisce) non impedisce il riconoscimento in Italia di un atto di nascita estero, in cui il bambino risulta figlio di due madri (quella che ha partorito e quella genetica). La norma non introduce un principio di ordine pubblico, «perché la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse del minore».
Conclude la Suprema Corte evidenziando come nessun divieto sussista per la coppia dello stesso sesso di accogliere o anche di generare figli, pure con il ricorso alla tecnica utilizzata nella specie, prendendo anche le distanze dalla propria precedente pronuncia n. 24001 dell’11 novembre 2014 che (pur nell’ambito di una diversa fattispecie) aveva dichiarato lo stato di abbandono di un minore nato all’estero da maternità surrogata.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Figlio di due madri: la Cassazione lo ammette - La Stampa

Intervento chirurgico inutile: il danno è risarcibile

L’intervento chirurgico, pur correttamente eseguito e non peggiorativo per la paziente, che risulta essere del tutto inutile, comporta un’ingiustificata ingerenza sulla sfera psico-fisica della persona tale da determinare un danno risarcibile (Cassazione, sentenza n. 12597/17).
Il caso. Una donna viene sottoposta, presso una Casa di Cura privata, ad un intervento di stabilizzazione della spalla sinistra, rivelatosi assolutamente inutile. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Napoli rigettano il ricorso avanzato dalla paziente per il risarcimento del danno subito.
La donna ricorre ora in Cassazione, denunciando l’erroneo disconoscimento del danno a seguito dell’inesatto adempimento della prestazione da parte della struttura sanitaria e l’ingiusta esclusione del danno da perdita di chance come componente del diritto al risarcimento del danno che sorge dall’illecito. In particolare, la ricorrente denuncia come la Corte di merito abbia dato importanza solo al fatto che l’intervento fosse stato eseguito correttamente (non essendo stati rinvenuti né lesioni né postumi tali da determinare invalidità permanente o temporanea), non soffermandosi però sull’inutilità dello stesso, inutilità già di per sé bastevole a cagionare danni risarcibili.
Intervento non adeguato anche se correttamente eseguito. La Corte considera fondati i motivi di ricorso. In particolare, il consulente tecnico del giudice dichiara che nonostante l’intervento fosse stato correttamente eseguito, non era stato adeguato alle condizioni dell’attrice al momento dell’intervento stesso, «tenendo conto che i normali criteri diagnostici necessari e sufficienti per l’instabilità anteriore di spalla non traumatica avrebbero dovuto indirizzare verso un trattamento di riabilitazione che avrebbe dovuto essere di preparazione all’intervento». La Corte, ne  rilevare il duplice comportamento omissivo della Casa di Cura (che non aveva sufficientemente preparato la paziente per il buon esito dell’intervento e che non aveva prescritto una terapia riabilitativa necessaria per il suo successo) conferma che l’esecuzione dell’intervento è stata inutile , nonostante la correttezza della tecnica dei medici.
Ingerenza nella sfera psico-fisica. La Corte dichiara, infatti, che i Giudici di merito avevano erroneamente omesso di considerare l’ingerenza del tutto inutile nella sfera psico-fisica della paziente, ingerenza priva di giustificazione e «pertanto inidonea e non finalizzata all’eliminazione della patologia. E dunque del tutto priva di corrispondenza alla lex artis e sanitaria riguardo alla tipologia di intervento eseguita e, pertanto, non considerabile come condotta di adempimento corretto dell’obbligazione assunta dalla struttura». Ciò determina un danno-evento, rappresentato dall’ingerenza del tutto priva di giustificazione e priva del consenso dalla donna dato all’intervento che si riferiva, invece, ad un esecuzione conforme alla lex artis, comprensiva delle condotte omesse, imprescindibili per la realizzazione dello scopo.
Perdita di chance, danno risarcibile. Per quanto riguarda, infine, il danno da perdita di chance, la Corte ricorda che esso si identifica con la mancata possibilità di ottenere un risultato utile dal trattamento sanitario, configurando una voce di danno da commisurare in base alla perdita di conseguire un risultato positivo. Pertanto, conclude la Suprema Corte, costituisce componente dell’unico ristoro del danno illecito.
Principio di diritto. La Corte accoglie il ricorso e rinvia gli atti ad altra sezione della Corte d’appello, sulla base del seguente principio di diritto: in tema di responsabilità sanitaria, qualora un intervento operatorio, sebbene eseguito in modo conforme alla lex artis e non determinativo di un peggioramento della condizione patologica che doveva rimuovere, risulti, all’esito degli accertamenti tecnici effettuati, del tutto inutile, ove tale inutilità sia stata conseguente all’omissione da parte della struttura sanitaria dell’esecuzione dei trattamenti preparatori a quella dell’intervento, necessari, sempre secondo la lex artis, per assicurarne l’esito positivo, nonché dell’esecuzione o prescrizione dei necessari trattamenti sanitari successivi, si configura una condotta della struttura che risulta di inesatto adempimento dell’obbligazione.
Essa, per il fatto che l’intervento si è concretato un una ingerenza inutile sulla sfera psico-fisica della persona, si connota come danno evento, cioè lesione ingiustificata di quella sfera, cui consegue un danno-conseguenza alla persona di natura non patrimoniale, ravvisabile sia nella limitazione e nella sofferenza sofferta per il tempo occorso per le fasi preparatorie, di esecuzione e postoperatorie dell’intervento, sia nella sofferenza ricollegabile alla successiva percezione della inutilità dell’intervento.

Fonte: www.ridare.it/Intervento chirurgico inutile: il danno è risarcibile - La Stampa

giovedì 15 giugno 2017

Volo posticipato di un giorno: niente risarcimento

Non è in discussione l’imprevisto verificatosi. Ciò che manca, però, è la prova del pregiudizio subito dai due turisti. Respinta l’ipotesi di un ristoro economico a carico dell’agenzia di viaggi.
Tutto pronto per la vacanza, organizzata attraverso un’agenzia di viaggi. Poi l’imprevisto: il volo viene spostato di ben 24 ore, costringendo i due turisti a posticipare la partenza. Comprensibile la rabbia, non sufficiente però per ottenere un risarcimento (Cassazione, sentenza n. 14259/2017, Sezione Terza Civile, depositata l’8 giugno).
Pregiudizio. Concordi già Giudice di Pace e giudici del Tribunale: non si può parlare di «vacanza rovinata». Così la richiesta avanzata nei confronti dell’agenzia di viaggi e mirata ad ottenere un ristoro economico viene respinta.
E su questa linea di pensiero si assesta anche la Cassazione. Per i magistrati, difatti, «manca la prova del danno sofferto a seguito dello spostamento di un giorno del volo», e quell’inconveniente non può far considerare automatico un pregiudizio per la coppia.
Di conseguenza, non avendo i due turisti chiarito il danno subito, l’agenzia di viaggi può tirare un sospiro di sollievo e considerare archiviata l’ipotesi di dover provvedere a un risarcimento.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Volo posticipato di un giorno: niente risarcimento - La Stampa

La Riforma sulla giustizia penale è legge

Dopo un travagliato iter legislativo, durato più di due anni, la Camera ha approvato definitivamente il disegno di legge recante Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario.
Il provvedimento è costituito da un unico articolo composto da 95 commi.
Le principali modifiche riguardano:
– l’introduzione di una nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie;
– l’aumento delle pene per il reato di scambio elettorale politico – mafioso e per alcuni reati contro il patrimonio;
– la disciplina della prescrizione:
– la definizione del procedimento per incapacità dell’imputato;
– la disciplina dell’elezione di domicilio presso il difensore e quella del differimento del colloquio con il difensore
– la disciplina delle indagini preliminari;
– la disciplina dei riti speciali, in particolare il rito abbreviato;
– la disciplina delle impugnazioni, dove viene introdotto il concordato in appello;
Inoltre, il Governo è delegato ad adottare una serie di decreti legislativi aventi ad oggetto:
– la modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati  e delle misure di sicurezza personali e per il riordino di alcuni settori del codice penale;
– la revisione della disciplina del casellario giudiziale;
– la riforma della disciplina in materia di intercettazione di conversazioni o comunicazioni;
– la riforma della disciplina in materia di giudizi di impugnazione nel processo penale;
– la riforma dell’ordinamento penitenziario.

Fonte: www.ilpenalista.it/La Riforma sulla giustizia penale è legge - La Stampa

Fisco, entro domani va pagato l'acconto Imu-Tasi

Entro domani circa 25 milioni di italiani saranno chiamati a versare l'acconto dell`Imu e della Tasi.
Nonostante l`abolizione delle tasse sulla prima casa, resta infatti ancora in vigore il prelievo sulle seconde case e sugli immobili diversi dall`abitazione principale. Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), in Italia il gettito complessivo sugli immobili si è ridotto nel 2016 a 49,1 miliardi di euro (-6,1%). L'anno scorso la pressione fiscale ha toccato comunque valori decisamente più consistenti di quelli registrati nel 2011, con un incremento di 11,4 miliardi di euro su base annua (+30,2%). Lo rileva una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati della Corte dei Conti e di Confcommercio.
Nel periodo 2011-2016 il maggiore incremento registrato ha riguardato la quota patrimoniale del prelievo - più che raddoppiata (+173%) - a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, rimaste sostanzialmente inalterate nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall`introduzione della cedolare secca sugli affitti.
Il calo di 3,5 miliardi di euro registrato tra il 2015 e il 2016 è interamente attribuibile al taglio della Tasi per le abitazioni principali licenziato dal governo nella legge di stabilità e che ha fatto passare il gettito della misura da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Le entrate derivanti dall`Imu restano invece stabili a 20,4 miliardi su base anna: la componente esplicitamente patrimoniale dell`imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva 'solo' 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni or sono anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti, che sono passate da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.
"Nonostante l`abolizione della Tasi sulla prima casa - osserva l'imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro - la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua a essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una misura che ci venne richiesta a gran voce dall`Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: un impoverimento del patrimonio delle famiglie, la messa in ginocchio del settore dell`edilizia e una depressione dei consumi e della domanda interna. Motivi più che sufficienti per rispedire al mittente le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale, che in questi giorni insiste per un aggravio in Italia della tassazione patrimoniale degli immobili".

Fonte:www.italiaoggi.it/Fisco, entro domani va pagato l'acconto Imu-Tasi. Nel 2016 gettito complessivo sugli immobili pari a 49,1 miliardi - News - Italiaoggi

lunedì 12 giugno 2017

Eredità, debiti fiscali ko con la rinuncia tardiva

La rinuncia tardiva all’eredità, ovvero effettuata quando siano già passati dieci anni dalla morte, esclude comunque che il rinunciatario possa essere chiamato a rispondere dei debiti tributari del de cuius. Neppure la denuncia di successione, effettuata ai fini fiscali, implica l’assunzione della qualità di erede. Con la conseguenza che il rinunciatario può sempre far valere il proprio difetto di legittimazione passiva dopo aver ricevuto gli atti tributari, spettando all’amministrazione finanziaria, che voglia far valere la pretesa fiscale, la prova che il contribuente abbia posto in essere atti concreti da cui possa desumersi l’accettazione (implicita) dell’eredità. Sono i principi che si leggono nella sentenza n. 8053/2017 della Corte di cassazione. La lite tributaria si originava dall’impugnazione di un avviso di liquidazione notificato a una contribuente, chiamata nella sua qualità di erede a rispondere del debito del de cuius. Ricevuto l’atto, la contribuente formalizzava la propria rinuncia all’eredità, pur essendo trascorsi più di 10 anni dalla morte. Secondo l’art. 480 cod. civ., infatti, il diritto di accettare, e quindi di rinunciare, può essere esercitato in dieci anni dal giorno della morte del defunto. La rinuncia all’eredità va fatta con una dichiarazione ricevuta da un notaio oppure ricevuta dal Cancelliere del Tribunale del circondario in cui si è aperta la successione.

Alla luce della tardività della rinuncia, i giudici di merito, sia nel grado provinciale che in quello regionale, avevano rigetto il ricorso contro l’avviso di liquidazione. La Cassazione, invece, ha ribaltato l’esito della lite, cassando la sentenza di secondo grado e accogliendo il ricorso originario proposto dalla contribuente. Un atto di rinuncia tardivo, spiegano da Piazza Cavour, cioè effettuato senza il rispetto delle formalità stabilite dalla legge, determina la conseguenza che l’amministrazione finanziaria è legittimata a notificare al contribuente gli atti impositivi, ben potendo, tuttavia, costui attivare un giudizio tributario per far valere il proprio difetto di legittimazione passiva e la sua estraneità ai debiti tributari del de cuius. L’intempestività della rinuncia, dunque, non determina alcuna preclusione per il contribuente ed è l’amministrazione a dover fornire la prova che il contribuente abbia compiuto atti da cui desumere (implicitamente) l’accettazione dell’eredità. A ciò non concorre la dichiarazione di successione che «non ha alcun rilievo ai fini dell’accettazione dell’eredità e all’assunzione della qualità di erede».

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Saluto romano e croce celtica in corteo: nessun reato

Riflettori puntati sui partecipanti ad una manifestazione svoltasi 3 anni fa a Milano. Per i giudici, però, il ricorso a simboli e riti fascisti non erano minimamente caratterizzati dall’idea di provocare sentimenti nostalgici.
Croce celtica e saluto romano non sono punibili. Ciò perché, pur appartenendo alla simbologia e ai riti della destra mussoliniana, essi possono essere valutati come legittime manifestazioni del pensiero. Decisivi sono il contesto e la mancanza di una chiara, evidente finalità di restaurazione del regime fascista (Cassazione, sentenza n. 28298/2017, depositata il 7 giugno 2017).
Corteo. Ultimo strascico giudiziario per una vicenda cominciata tre anni fa, in occasione di una manifestazione a Milano. L’evento, organizzato da diverse forze politiche di destra, era finalizzato alla commemorazione di tre personaggi fascisti, e si è caratterizzato, ovviamente, per il ricorso a determinati simboli e a determinati riti, come «la ‘chiamata del presente’, il ‘saluto romano’ e le croci celtiche».
Oltre mille le persone coinvolte, e alcune di esse sono finite sotto accusa per «apologia del fascismo». In particolare, ora, i riflettori sono puntati su un giovane pugliese che, approdato nel capoluogo lombardo per la manifestazione, è stato beccato a «partecipare al corteo esibendo una bandiera raffigurante la croce celtica, simbolo notoriamente adottato dalle formazioni di ispirazione nazi-fascista».
Per il Gup di Milano, però, gli elementi a disposizione non sono sufficienti per parlare di «manifestazioni» vietate. Ciò perché «le modalità di svolgimento della manifestazione, di carattere commemorativo» non avevano minimamente «creato il pericolo di ricostituzione del partito fascista».
Pericolo. Ora la visione tracciata dal G.U.P. viene condivisa dai magistrati della Cassazione. Anche a loro avviso, difatti, nonostante le obiezioni mosse dal Procuratore della Repubblica di Milano, il corteo oggetto di discussione e il ricorso a «saluto romano e croci celtiche» non hanno mai fatto balenare «il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste».
Allargando l’orizzonte, poi, viene evidenziato che «l’apologia del fascismo», per «assumere carattere di reato», deve «consistere non in una difesa elogiativa ma in una esaltazione tale da poter condurre a una riorganizzazione del partito».
In questa vicenda, invece, è emerso che la «simbologia fascista» utilizzata a Milano era «rivolta esclusivamente alla commemorazione di tre defunti, in segno di omaggio e umana pietà». A confermarlo, poi, anche il fatto che «il corteo si è svolto secondo modalità ordinate e rispettose, in assoluto silenzio, senza che venisse intonato alcun canto o inno o slogan fascista» e «senza alcun accenno a comportamenti aggressivi, minacciosi o violenti, senza armi e senza riferimenti a lotte o rivendicazioni politiche».
Così, una volta esclusa l’ipotesi di «sentimenti nostalgici», si può, concludono i magistrati, far cadere l’accusa di «manifestazioni fasciste» vietate in occasione del corteo a Milano.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Saluto romano e croce celtica in corteo: nessun reato - La Stampa

sabato 10 giugno 2017

Via libera al Reddito di inclusione: assegni da 190 a 485 euro

Via libera dal Consiglio dei ministri al decreto legislativo che introduce in Italia "una misura nazionale di contrasto alla povertà", che dovrà passare all'esame delle Commissioni parlamentari competenti per l'acquisizione dei pareri. Si tratta del decreto che attua la delega approvata a marzo e segue il Memorandum d'intesa firmato ad aprile dal premier Paolo Gentiloni. Il Rei, Reddito d'inclusione (Rei) sostituisce il Sostegno all'inclusione attiva (Sia) e anche l'Asdi, l'Assegno di disoccupazione, destinato a sparire dall'inizio del 2018. Per finaziare la misura sono già disponibili 1,7 miliardi del Fondo per la lotta alla povertà e il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha assicurato che verrà incrementato con altre risorse destinate in particolare all'inclusione attiva verso il lavoro (il 15% del Fondo), che portano con sé anche l'assunzione di 600 addetti nei Centri per l'impiego. "In totale siamo sui 2 miliardi l'anno, nei prossimi anni", ha spiegato Poletti. L'ammontare del Rei andrà da un minimo di 190 a un massimo di 485 euro, a seconda di vari parametri e dei componenti dei nuclei familiari interessati. Inizialmente verranno privilegiati nuclei con figli minori, donne in gravidanza, figli con disabilità, ultra 55enni disoccupati. "Le famiglie con queste caratteristiche sono circa 660 mila di cui 550mila con figli minori", ha spiegato Poletti: "Riusciamo già a raggiungere quasi completamente il target cui stiamo guardando". Si tratta di circa 1,7 milioni di persone interessate. Poletti ha sottolineato la scelta del governo di "lavorare con continuità nella logica del sostegno all'inclusione, avviata dal governo precedente con le sperimentazioni del Sia". Di conseguenza, ha rimarcato che per il Rei sarà prevista "una verifica permanente" per determinarne l'efficacia. I due pilastri del decreto sono: "Il sostegno al reddito e la presa in carico per l'inclusione", ha spiegato Poletti. Le risorse andranno dunque sia in tasca ai cittadini che al "potenziamento dei servizi per il lavoro". Gentiloni ha sottolineato  che il provvedimento nasce dalla "collaborazione del governo con le associazioni dell'Alleanza contro la povertà ed è una prima risposta a una esigenza sociale molto rilevante, che la crisi ha reso stringente per il nostro Paese".

Fonte:www.italiaoggi.it/Via libera al Reddito di inclusione: assegni da 190 a 485 euro per 1,7 milioni di persone - News - Italiaoggi

In arrivo l’Isee precompilato

In arrivo l’Isee precompilato. Da gennaio, infatti, i cittadini avranno a disposizione una Dsu precompilata dall’Inps con i dati anagrafici, reddituali, immobiliari e mobiliari-finanziari. Per consentire la precompilazione della Dsu, via obbligata per avere l’Isee dal 1° settembre 2018, anche i datori di lavoro dovranno fare la loro parte: dovranno indicare sulle comunicazioni obbligatorie (Co) i dati retributivi dei neoassunti. A stabilirlo, tra l’altro, è lo schema di dlgs approvato ieri in via preliminare dal consiglio dei ministri, per introdurre la misura nazionale a contrasto alla povertà. Nuova misura che si chiama ReI (reddito d’inclusione), sostituisce Sia e Asdi abrogati dal 1° gennaio e che, per il diritto, chiede di soddisfare almeno 10 requisiti tra residenza, condizioni economiche, non godimento di altre tutele.

Fonte:www.italiaoggi.it/In arrivo l’Isee precompilato - News - Italiaoggi

Cassazione: “pennica” organizzata al lavoro, si perde il posto

“Tolleranza zero”, dalla Cassazione, per quei lavoratori che durante l’orario di servizio si organizzano per predisporsi a una bella dormita invece di svolgere le loro mansioni. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, «l’addormentamento organizzato», durante il turno lavorativo, ha una «evidente contrarietà ai doveri fondamentali del lavoratore rientranti nel cosiddetto “minimo etico”» e viola i «principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro» e per questo merita di essere punito con il licenziamento, soprattutto quando si presta un servizio di «essenziale rilevanza». Così gli “ermellini” hanno licenziato su due piedi un addetto alla vigilanza della società Autostrade accogliendo il ricorso del datore di lavoro contro la sentenza con la quale la Corte di Appello de L’Aquila, con un verdetto `clemente´, aveva riammesso in servizio Denny E. dopo l’espulsione decisa dal Tribunale di Teramo perchè era stato sorpreso a dormire in macchina anzichè a pattugliare.
L’uomo si era messo d’accordo con il collega - giudicato in un’altra causa - con il quale doveva vigilare il percorso tra Ancona e Roseto degli Abruzzi a bordo della stessa auto di servizio in modo che in due sarebbero stati in grado di condurre «interventi operativi pericolosi come l’asportazione di ingombri derivanti da residui di collisioni». Invece la `coppia´ si era servita di «due veicoli diversi, utilizzati per trascorrere dormendo alcune ore di servizio», circa due, distesi sui sedili anteriori, senza dare alcuna notizia alla centrale operativa.
Secondo la Cassazione - sentenza 14192 - questo comportamento non può essere “oblato” da una semplice `multa´, come quella della decurtazione dello stipendio, per la «delicatezza dei compiti che il lavoratore avrebbe dovuto svolgere» e per la «gravità della interruzione del servizio determinatasi a causa di un addormentamento, oltretutto neppure dovuto a causa improvvisa e imprevista, ma `organizzato´ con l’altro lavoratore della squadra». I supremi giudici hanno ripristinato il più severo verdetto di primo grado condannando anche il dipendente licenziato a pagare tremila euro di spese legali.

Fonte:www.lastampa.it/Cassazione: “pennica” organizzata al lavoro, si perde il posto - La Stampa

Non si ferma all’alt dei carabinieri: l’arresto in flagranza va convalidato

In sede di convalida di arresto, il giudice deve verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito arresto e quindi valutare la legittimità dell’operato della polizia sulla base di un controllo di ragionevolezza, in relazione allo stato di flagranza ed all’ipotizzabilità di un reato.
Lo hanno ribadito i Giudici di legittimità con sentenza n. 27811/17 depositata il 5 giugno.
Il caso. Il GIP non convalidava l’arresto dell’imputato eseguito dalla polizia giudiziaria nella flagranza dei delitti di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni aggravate commesse in danno dei carabinieri intervenuti. Il PM ricorre per cassazione deducendo erronea applicazione di legge e vizio di motivazione laddove il GIP ha ritenuto insussistenti i requisiti procedere all’arresto in flagranza.
Convalida dell’arresto. La Cassazione ha qui l’occasione di ribadire un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il quale afferma che «in sede di convalida di arresto, il giudice, oltre a verificare l’osservanza dei termini previsti dall’artt. 386, comma 3, e 390, comma 1, c.p.p., deve controllare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito arresto, ossia valutare la legittimità dell’operato della polizia sulla base di un controllo di ragionevolezza, in relazione allo stato di flagranza ed all’ipotizzabilità di uno dei reati ex. artt. 380 e 381 c.p.p.». La valutazione del giudice non deve riguardare «né la gravità indiziaria», né le «esigenze cautelari», «né l’apprezzamento sulla responsabilità».
Infatti, il sindacato sulla convalida deve essere operato dal giudice con un «giudizio ex ante», avendo riguardo «alla situazione in cui la polizia giudiziaria ha posto in essere la misura precautelare».
Pertanto, affermano i Giudici di legittimità, per stabilire la sussistenza del presupposto della legalità dell’arresto bisogna guardare al momento dell’esecuzione della misura limitativa della libertà personale, tenendo conto della situazione conosciuta o conoscibile dalla polizia giudiziaria con l’ordinaria diligenza al momento dell’arresto.
Nella fattispecie, il GIP ha fondato il suo provvedimento sulle sole dichiarazioni rese dall’arrestato in sede di interrogatorio e ha completamente svalutato le evidenze probatorie disponibili all’atto dell’arresto. Pertanto, la Corte annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata poiché l’arresto può dirsi legittimamente eseguito.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Non si ferma all’alt dei carabinieri: l’arresto in flagranza va convalidato - La Stampa

Qualche grammo di droga in casa: non è detto che sia per spaccio

Il solo dato ponderale dello stupefacente rinvenuto non determina alcuna presunzione di destinazione della droga ai fini di spaccio.
Lo ribadiscono gli Ermellini con sentenza n. 27090/17 depositato il 30 maggio.
Il caso. Il Procuratore generale della Repubblica ricorre in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello che, in riforma della pronuncia di primo grado, assolveva l’imputato dal reato di detenzione di sostanze stupefacenti, ritenendo il fatto non costituente reato.
Detenzione sostanze stupefacenti. Il Collegio di legittimità rileva il principio secondo cui «il solo dato ponderale dello stupefacente rinvenuto, e l’eventuale superamento dei limiti tabellari indicati dall’art. 73-bis, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 309/1990, non determina alcuna presunzione di destinazione della droga ad un uso non personale, dovendo il giudice valutare globalmente, anche sulla base degli ulteriori parametri normativi, se, assieme al dato quantitativo, le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da escludere una finalità meramente personale della detenzione».
Nella fattispecie, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto assente la prova certa della destinazione allo spaccio del quantitativo di droga rinvenuto, se pur di misura rilevante.
I Giudici di legittimità rigettano il ricorso.

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Atti di bullismo sul compagno di scuola: è stalking

Confermata la decisione presa in secondo grado. I ragazzi finiti sotto accusa hanno offeso, maltrattato e aggredito la loro vittima, costringendolo a cambiare scuola.
Hanno preso in giro, maltrattato e umiliato il compagno di classe, arrivando addirittura a filmare una delle aggressioni compiute e a pubblicare il video on line su youtube. Ora per loro, quattro ragazzi campani, minorenni all’epoca dei fatti e oramai maggiorenni, è arrivata la condanna definitiva per stalking (Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 28623/17 depositata l’8 giugno).
Aggressioni. La triste vicenda si volge nel 2009 in un istituto professionale campano. Lì alcuni studenti sfogano la loro stupidità e la loro bestialità su un compagno di appena 15 anni, preso in giro «per come si comportava e per il modo in cui portava i capelli». I bulli, però, non si limitano certo alle offese, ma arrivano anche ad aggredire fisicamente a calci e pugni il ragazzo, che riporta conseguenze serie non solo nel fisico ma anche nello spirito. A testimoniarlo il fatto che egli sia stato costretto ad affrontare un grave stato depressivo.
Ora, a distanza di diversi anni, per i bulli è arrivato il momento di fare i conti con le loro responsabilità e con la giustizia. Dalla Cassazione, difatti, è arrivata la conferma definitiva della loro «condanna per stalking», con sanzione fissata in «dieci mesi di reclusione a testa».
Decisivi per i Giudici due elementi: primo, lo «stato di soggezione psicologica» del ragazzo; secondo, il fatto che egli sia stato costretto, alla fine, ad «abbandonare l’istituto professionale» e a trasferirsi in un’altra scuola per proseguire gli studi.

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martedì 6 giugno 2017

Detenuto ai domiciliari esce in pigiama per gettare l’immondizia: assolto

Ai fini dell’applicabilità del’art. 131-bis c.p., l’esiguità del disvalore della condotta deve essere adeguatamente accertata in esito alla valutazione di tutti gli indici afferenti alla condotta, al danno e alla colpevolezza dell’agente.
Così la sentenza della Corte di Cassazione n. 26867/17 depositata il 29 maggio.
Il caso. Il Tribunale assolveva l’imputato dal delitto di evasione contestato per essersi allontanato dall’abitazione dove scontava gli arresti domiciliari, fatto giudicato non punibile per particolare tenuità. La Procura Generale della Repubblica ricorre per la cassazione della sentenza con un unico motivo di ricorso che invoca l’erronea applicazione dell’art. 131-bis c.p..
Evasione. La Corte di legittimità ritiene infondata la doglianza richiamando il principio secondo cui ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, il giudice deve valutare in modo complessivo e congiunto tutte le peculiarità del caso concreto tenendo conto delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza e dell’entità del danno o del pericolo. L’esiguità del disvalore della condotta deve dunque essere adeguatamente accertata in esito alla valutazione di tutti gli indici afferenti alla condotta, al danno e alla colpevolezza dell’agente.
Sulla base di tali principi, si rivela dunque adeguata la valutazione del giudice che ha dedotto la minima offensività del fatto dalle concrete modalità della condotta posto che l’imputato era stato colto nei pressi della propria abitazione mentre in pigiama gettava l’immondizia.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Detenuto ai domiciliari esce in pigiama per gettare l’immondizia: assolto - La Stampa

Camere penali, raccolte 34mila firme per separazione carriere magistrati

“La nostra proposta di legge sulla separazione delle carriere nasce dalla volontà di dare vera attuazione non solo al principio del giusto processo presente in Costituzione ma anche alle norme del codice di procedura penale il cui modello accusatorio, senza separazione delle carriere, è destinato a rimanere lettera morta. La proposta delle Camere Penali non è altro che la via maestra per ottenere, semplicemente, il rispetto delle regole previste dalla Costituzione e dal Codice. Il raggiungimento di oltre 34.000 firme in poco più di trenta giorni dimostra come questo tema sia sentito non solo in ambito forense ma anche tra la cittadinanza” così ha dichiarato Anna Chiusano, componente della Giunta nazionale dell'Unione delle Camere Penali Italiane e Vicepresidente del Comitato promotore per la separazione delle carriere a Nola per il convegno 'La separazione delle carriere tra pm e giudici per l'attuazione della costituzione' Organizzato dalla Camera Penale di Nola, la Scuola Bruniana e l'Università Parthenope.
“La terzietà del giudice, la cui carriera è distinta dal Pm, garantisce non solo un giudizio imparziale ma anche l'effettività della difesa grazie ad una carriera indipendente da quella di chi accusa e da quella di chi difende. Non è intenzione dell'Ucpi snaturare il Pm dal suo ruolo di magistrato né, tantomeno, sottoporlo al controllo dell'esecutivo: tutto ciò non appartiene alla nostra cultura e, ricordiamolo, non è affatto un passaggio previsto nella nostra proposta di legge” ha dichiarato Daniele Ripamonti, componente del Comitato promotore per la separazione delle carriere. “La necessità della separazione delle carriere è una esigenza sorta già prima dell'introduzione del 'nuovo' codice di procedura e che si sarebbe dovuta introdurre già allora. Oggi c'è uno sbilanciamento di poteri evidente nei confronti di chi conduce le indagini e di chi promuove l'accusa. Il nostro disegno di legge non intende intaccare l'indipendenza della magistratura inquirente ma semplicemente sanare uno squilibrio: l'obbligatorietà dell'azione penale va esercitata all'interno di una cornice disegnata dal legislatore come accade in gran parte d'Europa e senza che vengano intaccate le guarentigie proprie della magistratura” ha dichiarato Fabio Ferrara, componente della Giunta nazionale dell'Unione delle Camere Penali Italiane e Segretario del Comitato promotore per la separazione delle carriere.
Al convegno hanno preso parte Giuseppe Guida, componente della Giunta Ucpi e già presidente della Camera Penale di Nola, Francesco Urraro, presidente COA Nola, Vincenzo Maiello, avvocato e docente all'università di Napoli, i presidenti delle camere penali della Campania e rappresentanti dell'Unione delle camere civili, dell'AIGA e dei giuristi cattolici.

Fonte:www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoPenale/2017-06-06/camere-penali-raccolte-34mila-firme-separazione-carriere-magistrati-181954.php

Particolare tenuità anche per i reati punibili con ammenda

La non punibilità per la particolare tenuità del fatto si applica anche ai reati che prevedono ipotesi attenuate punibili solo con l'ammenda. La Cassazione (sentenza 27752), accoglie il ricorso contro la decisione del Tribunale di negare l'applicazione dell'articolo 131-bis, introdotto dal Dlgs 28/2015, sulla particolare tenuità del fatto, in favore dell'imputato, colpevole di aver portato un coltello in un luogo pubblico, senza alcuna “giustificazione” plausibile.
Un contravvenzione (articolo 4 della legge 110/1975) che era stata punita con un'ammenda di 667 euro.
L'imputato chiedeva invece di essere prosciolto in base all'articolo 131-bis del codice penale per la particolare tenuità del fatto.
La Cassazione, pur confermando la responsabilità per il fatto contestato, accoglie il ricorso per quanto riguarda la non punibilità.

Fonte:www.ilsole24ore.com/Particolare tenuità anche per i reati punibili con ammenda

Diritto ad una morte dignitosa: accolto il ricorso di Riina

La Corte di Cassazione, Sez. I, con sentenza n. 27766, depositata il 5 maggio 2017, ha accolto il ricorso presentato da Salvatore Riina avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di sorveglianza di Bologna aveva rigettato le sue richieste di differimento dell’esecuzione della pena e, in subordine, di esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare.
Stato di salute. La Suprema Corte motiva che, in presenza di patologie implicanti un significativo scadimento delle condizioni generali e di salute del detenuto – nel caso specifico plurime patologie che interessano vari organi vitali e sindrome di Parkinson –, il giudice di merito è tenuto a verificare, e motivare adeguatamente, se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza nonché un’afflizione di intensità tali da superare il livello insito nella legittima esecuzione della pena. Il Tribunale di sorveglianza avrebbe ritenuto non sussistere alcuna incompatibilità tra l’infermità fisica del ricorrente con il regime carcerario basandosi unicamente sulla trattabilità delle patologie del detenuto anche in ambiente carcerario, senza dunque alcuna valutazione complessiva dello stato di logoramento fisico in cui si trova il ricorrente aggravato, oltretutto, dall’avanzata età.
Le motivazioni della Corte. Ritiene invece la Cassazione che «affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 27, comma 3, Cost. e 3 Cedu, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria»; inoltre esiste «un diritto a morire dignitosamente che […] deve essere assicurato al detenuto ed in relazione al quale, il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare, deve adeguatamente motivare».
Pur concordando sull’altissima pericolosità del detenuto in questione, nonché sul suo indiscusso spessore criminale, la Cassazione osserva come il giudice di merito non abbia però chiarito come tale pericolosità possa definirsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico dello stesso. Per tali ragioni annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per un nuovo esame al tribunale di sorveglianza di Bologna.

Fonte: www.ilpenalista.it/Diritto ad una morte dignitosa: accolto il ricorso di Riina - La Stampa

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...