giovedì 30 marzo 2017

Schiaffo sul sedere: condannato a dieci mesi di reclusione

Dura sanzione per un giovane che ha preso di mira una ragazza, avvicinandola in motorino per palpeggiarle i glutei e poi scappare via. Respinte le obiezioni mosse dal difensore. Per i giudici il comportamento tenuto dal ragazzo è oggettivamente sessuale.
Blitz in motorino: avvicina una ragazza che sta passeggiando, le dà uno schiaffo sul sedere e poi scappa a tutta velocità. Condotta non solo censurabile moralmente ma anche punibile penalmente. Per il ragazzo autore del palpeggiamento, difatti, arriva una condanna a 10 mesi di reclusione (Cassazione, sentenza n. 15245, sez. III Penale, depositata il 28 marzo 2017).
Violenza sessuale. Ricostruito l’episodio, i giudici hanno catalogato il comportamento tenuto dal ragazzo come violenza sessuale. Ecco spiegata la sanzione decisa dal GUP del Tribunale e confermata dai giudici d’appello, cioè «dieci mesi di reclusione».
Il legale del giovane, però, prova a ridimensionare i fatti, sostenendo che il suo cliente «non intendeva compiere un atto di libidine» e «si era limitato a uno schiaffo sul sedere». Questo gesto, sempre ragionando in ottica difensiva, pur essendo inammissibile, «non aveva determinato alcuna soddisfazione sessuale».
Le obiezioni proposte in Cassazione però si rivelano inutili. Innanzitutto perché, annotano i magistrati, «la condotta» contestata «si era concretizzata in un palpeggiamento, sia pure di breve durata, di zone erogene» e non era limitata a un semplice «schiaffo». Allo stesso tempo, viene esclusa la rilevanza del «conseguimento di una soddisfazione erotica».
Ciò che conta, sanciscono i giudici del ‘Palazzaccio’, è «la natura oggettivamente sessuale» del comportamento posto in essere volontariamente.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Schiaffo sul sedere: condannato a dieci mesi di reclusione - La Stampa

Niente licenziamento per l’operatrice telefonica scontrosa

Sotto accusa la dipendente di un’azienda di telecomunicazioni. A metterla nei guai è il reclamo presentato da un cliente, lamentatosi per le frasi irriguardose rivoltegli durante una telefonata in cui aveva chiesto dei chiarimenti. Il comportamento tenuto non costa alla donna il posto di lavoro.
Sfogo verbale nei confronti del cliente. Sotto accusa la dipendente dell’azienda che si occupa di telecomunicazioni. Nonostante il turpiloquio utilizzato, però, viene ritenuto eccessivo il licenziamento (Cassazione, sentenza n. 7346, depositata il 22 marzo).
Cliente maltrattato. A dare il ‘la’ alla vicenda è il reclamo presentato da un cliente di Telecom Italia spa. L’uomo si lamenta per il trattamento subito da una dipendente dell’azienda, che ha risposto in malo modo alle «sue richieste telefoniche di chiarimenti». Durissima la reazione della società che ritiene censurabile il «comportamento irriguardoso» tenuto dalla lavoratrice, punita di conseguenza col provvedimento più duro, il licenziamento.
A sorpresa, però, per i Giudici d’appello non vi sono i presupposti per ritenere «irrimediabilmente leso» il «vincolo fiduciario» tra azienda e dipendete. E questa considerazione spiega la decisione con cui viene riconosciuto il diritto della donna a ritornare operativa.
Vincolo fiduciario. E ora, nonostante le obiezioni mosse dai legali della Telecom, la lavoratrice può cantare definitivamente vittoria, avendo salvato il posto.
Secondo i magistrati della Cassazione non rappresenta una forzatura il ragionamento con cui la Corte d’appello ha ritenuto illegittimo il licenziamento deciso dall’azienda. Ciò perché le condotte della lavoratrice, seppur gravi – come testimoniato dalle «espressioni irriguardose» rivolte a un cliente –, non sono state comunque sufficienti a rompere in modo irrecuperabile «il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro». E in questa ottica è stato significativo anche il richiamo alla permanenza della donna «nell’ufficio per oltre tredici anni senza demerito».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Niente licenziamento per l’operatrice telefonica scontrosa - La Stampa

mercoledì 29 marzo 2017

Contrasto alla povertà: la legge che istituisce il reddito di inclusione

Dopo l’approvazione da parte del Senato, la legge 15 marzo 2017, n. 33 «Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali» è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 24 marzo 2017, n. 70.
Le deleghe. Il Governo ha ora sei mesi di tempo per introdurre il cd. reddito di inclusione, una misura nazionale di contrasto alla povertà, «intesa come impossibilità di disporre dell’insieme dei beni e dei servizi necessari a condurre un livello di vita dignitoso». In particolare, il reddito di inclusione dovrà essere articolato in un beneficio economico e in una componente di servizi alla persona. I beneficiari saranno individuati in base alla residenza italiana, tenendo conto della condizione economica del nucleo familiare e della prossimità alla soglia di riferimento per l’individuazione della condizione di povertà.
Viene inoltre previsto il riordino delle prestazioni di natura assistenziale finalizzate al contrasto alla povertà, nonché il rafforzamento del coordinamento degli interventi in materia di servizi sociali in modo da garantire livelli essenziali di prestazioni omogenei su tutti il territorio nazionale.
I decreti legislativi di attuazione della delega dovranno essere adottati entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge delega.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Contrasto alla povertà: la legge che istituisce il reddito di inclusione - La Stampa

domenica 26 marzo 2017

Omicidio di identità, pene oltre i 12 anni per chi sfregia le donne

"Parlare con le vittime, leggere le dichiarazioni dei loro aguzzini, mi ha convinto che si debba fare di tutto perché la legge sull'omicidio di identità sia approvata al più presto". La senatrice Laura Puppato, prima firmataria del disegno di legge trasversale per l'istituzione dell'omicidio di identità, non nasconde un po' di emozione nell'anticipare il contenuto della nuova norma. E ci tiene a sottolineare che l'Introduzione nel codice penale degli articoli 577-bis, 577-ter e 577-quater in materia di omicidio d'identità è stata sottoscritta da tutti i gruppi parlamentari con una unanimità che in questa legislatura non ha precedenti.
A chiedere di individuare un reato e sanzioni specifiche era stata Carla Caiazzo, la donna bruciata dall'ex mentre era incinta. Caiazzo lo scorso novembre aveva scritto al presidente della Repubblica, Mattarella, chiedendogli "di sollecitare il nostro legislatore a individuare, sulla scorta di quanto sta tristemente accadendo, una nuova figura di reato che punisca severamente coloro che, nel loro intento delittuoso, colpiscono le donne e, soprattutto, le cancellano dalla società civile".
L'appello di Carla Caiazzo è stato raccolto da un gruppo bipartisan di senatrici e, come spiega Puppato, "il disegno di legge colma un vuoto normativo e rappresenta un unicum anche in campo europeo. Il volto distrutto e volutamente sfregiato per sempre ha il valore di una morte civile, inferta con inaudito cinismo e frutto o causa, sopra ogni cosa, della volontà violenta di restare unici padroni dell'io profondo della vittima che si sarebbe voluta possedere. Per tali atti non bastano le pene previste per la lesione grave o gravissima subita in qualunque altre parte del corpo umano. Non perché, ovviamente, non sia grave ogni atto lesivo di una persona, ma perché lo sfregio del volto va a incidere profondamente sull’identità fisica, sociale e psicologica".
"Il disegno di legge è stato scritto in collaborazione con le vittime, i loro avvocati, psicologi e criminologi. Gli autori dell'omicidio di identità oggi agiscono consapevoli di produrre il massimo del danno e andare incontro a pene minime rispetto a quanto causano - spiega Puppato - la nuova norma, punendo con la reclusione non inferiore a 12 anni fornisce ai magistrati gli strumenti per comminare pene adeguate in modo rapido". Il disegno di legge presentato oggi sottolinea, come avvenuto per il reato di femminicidio, che l'avere una relazione affettiva con la vittima è un'aggravante, punta a ribadire insomma che "chi dice di amarti e ti causa danni deve essere punito di più". "La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi dall'ascendente o dal discendente, dal coniuge, anche legalmente separato, dalla parte dell'unione civile o da persona legata alla persona offesa da relazione affettiva o con essa stabilmente convivente" anticipa la senatrice Pd. Come avvenuto di recente con la legge per la tutela degli orfani di femminicidio si pensa anche a garantire economicamente le vittime e i figli perché "Nei casi di condanna si applicano quali pene accessorie l'interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all'amministrazione di sostegno, la perdita del diritto agli alimenti e l'esclusione dalla successione della persona offesa, nonché la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte".
All'obiezione che, come è avvenuto nel dibattito sull'introduzione dell'ergastolo per i femminicidi, insieme alle nuove leggi è indispensabile fare prevenzione, Puppato chiarisce: "Abbiamo pensato anche a questo: l'articolo 3 istituisce l'Osservatorio permanente per le azioni di monitoraggio, prevenzione e contrasto al fenomeno, del quale fanno parte rappresentanti del ministero dell'Interno e del Ministero dell'Istruzione. La titolare del Miur; Fedeli, ha avuto parte attiva nel disegno di legge e sono convinta che, nel rispetto dell'autonomia delle istituzioni scolastiche, definirà al meglio le linee guida per l'educazione alla legalità e all'integrità delle persone".
Puppato si dice anche ottimista sui tempi di approvazione della legge: "Come me, in molti sono rimasti sconvolti nel sentire Lucia Annibali o Carla Caiazzo parlare degli innumerevoli interventi necessari dopo le aggressioni, hanno provato orrore nel leggere le affermazioni dei colpevoli che nello sfregiarle dicevano 'Vediamo se adesso andrai a divertirti'. La nostra è una iniziativa talmente condivisa che credo la sua approvazione si possa dare per acquisita".

“Soldi sì, ma con giudizio” La guida con le regole d’oro per la paghetta ai figli

A volte, lo sa bene Paperon de’ Paperoni, tutto può cominciare da una sola moneta da 10 centesimi. L’importante è iniziare da bambini a comprendere il valore del denaro, a capire che il risparmio non è una specie di tortura, ma una strada verso la possibile realizzazione di un desiderio. Perché i soldi non sono né buoni né cattivi, ma è il modo in cui li si usa a fare la differenza.
Ben venga allora il vecchio salvadanaio, quel maialino che chiunque, almeno una volta nella vita, ha fatto a pezzi con gli occhi luccicanti di aspettative. Una piccola cassaforte in cui possono prendere forma i sogni: un giocattolo, la bicicletta nuova, un videogame. Se un salvadanaio non basta, per capire come formare i risparmiatori di domani ora c’è una guida: «Paghetta&COnsigli. Conoscerla, capirla, sperimentarla»: un volumetto realizzato dal Museo del Risparmio di Torino, che spiega come comportarsi per mettere i figli nella condizione di maneggiare correttamente il denaro. La parola d’ordine è «pianificare»: l’obiettivo è insegnare ai più piccoli come farlo, ma, prima ancora, far capire ai genitori che l’argomento non è un tabù. «Molti pensano che sia sempre troppo presto per parlare di soldi e posticipano il più possibile il momento in cui affidare piccole somme ai figli - spiega la direttrice del museo, Giovanna Paladino -. In realtà attraverso la paghetta i piccoli imparano a identificare i loro bisogni prioritari e a risparmiare per un progetto».
E imparare può essere anche divertente. Una sezione della guida, che oggi sarà distribuita ai visitatori ma che è online sul sito del museo, presenta alcuni giochi a tema: un esercizio per riconoscere le monete e capire «quanto costano i desideri», un «Cruciverba del risparmiatore» con domande ad hoc e un test per capire se si è cicale o formiche. Le ultime pagine sono dedicate a uno strumento che ricorda i quadernetti sui quali le nonne appuntavano entrate e uscite, gli stessi al centro della mostra «Quel genio di mia nonna» che si conclude oggi. La versione più attuale di quei quadernetti è il kakebo giapponese, che da qualche tempo sta prendendo piede anche in Italia. Qui ne hanno fatto una versione per bambini e l’hanno chiamata «Mikebo», dal nome della formichina Mika, la mascotte del museo che insegna ai bimbi a tenere d’occhio le spese ma anche a pensare agli altri: una sezione del libro è infatti riservata alla solidarietà.

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sabato 25 marzo 2017

Veneto, anche il giudice getta la spugna “Lo Stato è inaffidabile, girerò armato”

Fino ad ora era conosciuto soprattutto per il presunto record di udienze: pare che in poco più di tre ore, un giorno, riuscì a celebrarne 69. Una ogni tre minuti.
Da oggi il giudice trevigiano Angelo Mascolo sarà ricordato per le accuse nei confronti di uno Stato, «che ha perso completamente il controllo del territorio, nel quale, a qualunque latitudine, scorrazzano impunemente delinquenti di tutti i colori, nonostante gli sforzi eroici di poliziotti anziani, mal pagati e meno ancora motivati dall’alto e, diciamolo pure, anche dallo scarso rigore della Magistratura». Di fronte all’assenza delle istituzioni, per il Gip del Tribunale veneto resta solo la legittima difesa, con una pistola in tasca a garantirla.
Tutto nasce da un inseguimento notturno che il giudice ha subito da un paio di individui poco raccomandabili dopo un sorpasso. Una minaccia che non si è tramutata in qualcosa di più solo grazie all’incrocio con una “Gazzella” dell’Arma.
«D’ora in poi girerò armato - ha fatto sapere Mascolo, in una lettera aperta al quotidiano “La Tribuna” -, ma il vero quesito è cosa sarebbe successo se, senza l’intervento dei Carabinieri, quei due mi avessero fermato e aggredito, come chiaramente volevano fare, e io quella pistola l’avessi già avuta con me? Se avessi sparato avrei subito l’iradiddio dei processi - eccesso di difesa, la vita umana è sacra e via discorrendo - da parte di miei colleghi che giudicano a freddo e difficilmente – ed è qui il grave errore - tenendo conto dei pesanti stress di certi momenti».
Poi l’affondo al sistema considerato lassista: «La scarsa severità nei confronti di questi gentiluomini - e gentildonne se no mi danno del sessista - è diventata, a dir poco, disdicevole, tante sono le leggi e le leggine che provvedono a tutelarli per il processo e per la detenzione e che ti fanno, talvolta, pensare: ma cosa lavoro a fare? Oggigiorno il processo sembra fatto più per gli imputati che per la persona offesa».
In conclusione evoca Golda Meir: “Dopo i fatti di Monaco ’72, disse che ci sono dei momenti in cui uno Stato deve venire a compromessi coi suoi valori e fece inseguire e uccidere uno per uno gli attentatori. E noi, quando potremo finalmente dire: l’Italia s’è desta?».
Parole aspre da cui si è immediatamente dissociata la Giunta veneta dell’Associazione nazionale magistrati, che le ritiene «gravi, inaccettabili e disfattiste, contrarie alla sobrietà e all’equilibrio che deve caratterizzare ogni magistrato, il quale è credibile, ed è degno della sua funzione, solo quando valuta in modo imparziale vicende a cui non è personalmente interessato».
«I magistrati veneti - rileva l’Anm, che non esclude provvedimenti disciplinari -, credono profondamente nello Stato, che esiste e controlla il territorio, e si impegnano ogni giorno a difenderlo e a difendere tutti i cittadini senza ricorrere alla violenza o alle forme di vendetta e omicidio che il collega Mascolo richiama a sproposito e pare anzi auspicare; lo fanno, ogni giorno, nel rispetto delle leggi e dei principi di civiltà giuridica che connotano il nostro Paese e che hanno consentito di debellare il terrorismo politico e ridimensionare la mafia».

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venerdì 24 marzo 2017

Ok del governo alla proroga: per rottamare le cartelle di Equitalia c’è tempo fino al 21 aprile

Il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto ad hoc per prorogare dal 31 marzo al 21 aprile la scadenza per fare domanda di rottamazione delle cartelle esattoriali e dare tempo a Equitalia e agli altri enti della riscossione di rispondere ai contribuenti non più entro il 31 maggio ma entro il 15 giugno.
Chi aderisce alla rottamazione deve pagare l’importo residuo del debito senza sanzioni né interessi di mora. Per le multe stradali, invece, non si devono pagare gli interessi di mora e le maggiorazioni previste dalla legge. Alla sanatoria hanno aderito già oltre 400mila contribuenti allettati da risparmi che possono arrivare al 50% e oltre.
La definizione agevolata, introdotta con il decreto fiscale collegato alla manovra, è partita il 4 novembre, anche se è entrata nel vivo solo all’inizio di dicembre con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del testo definitivo, che ha portato diverse novità, a partire dalla possibilità di sanare con lo sconto anche i debiti col fisco affidati agli enti di riscossione in tutto il 2016.
A quasi 5 mesi dall’avvio della definizione agevolata, sono circa 600mila le istanze di definizione agevolata presentate ad Equitalia. Si tratta, sottolinea l’agenzia, di una «operazione straordinaria e senza precedenti che vede impegnate tutte le strutture della società di riscossione in particolare i 200 sportelli dove, per far fronte alle numerose richieste dei contribuenti, da alcune settimane sono state previste ulteriori 500 risorse per dare supporto, soprattutto nelle città a grande affluenza, al personale del front office».
Delle 598.988 domande presentate (dato aggiornato al 23 marzo), il 49,6% dei contribuenti lo ha fatto utilizzando il portale di Equitalia, l’email o la posta elettronica certificata, mentre il 48,9% si è rivolto alla rete degli sportelli, e il residuo 1,5% ha preferito canali tradizionali quali, ad esempio raccomandata o posta ordinaria.

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Anche l’ombrello può essere un’arma

L’uso, anche solo temporaneo e senza giustificato motivo, di uno strumento a fini di offesa alla persona può configurare una circostanza aggravante del reato. Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13071/17 depositata il 17 marzo.
Il caso. Il Tribunale di Asti aveva escluso l’aggravante dell’uso di un’arma, relativamente al reato di lesioni personali volontarie, nei confronti di un soggetto che aveva aggredito quattro soggetti con un ombrello.
Il Procuratore della Repubblica di quel Tribunale propone ricorso in Cassazione, sostenendo la configurabilità dell’ombrello come «oggetto utilizzabile per l’offesa alla persona in determinate circostanze di tempo e di luogo».
L’aggravante dell’uso di un’arma. Secondo la Corte di Cassazione tale ricorso è fondato.
L’aggravante di cui si discute ( prevista dall’art. 585 cod. pen.), sussiste in tutti i casi in cui la condotta sia stata posta in essere con uno strumento che risponda alla nozione di “arma lì presente”.
La Suprema Corte ha ritenuto che si configurasse l’aggravante anche in casi in cui era stato utilizzato un bastone ricavato dalla gamba di un tavolino. Ciò a dimostrazione del fatto che non serve che lo strumento utilizzato sia un’arma in senso proprio, ma basta che esso «venga portato ed usato anche in modo soltanto temporaneo per l’offesa alla persona e dunque senza giustificato motivo».
Per questo motivo il ricorso va accolto e la sentenza annullata.

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Negoziazione assistita: notaio non più indispensabile

Per la prima volta in Italia, il Tribunale di Pordenone ha accolto il ricorso di due legali che hanno chiesto l'autorizzazione alla trascrizione nei registri immobiliari di un passaggio di proprietà nell'ambito di una pratica di negoziazione assistita tra due coniugi in fase di separazione. Il provvedimento, giudicato 'epocale', estromette di fatto la figura del notaio, non più indispensabile per questi atti. A redigere il ricorso sono state le avvocatesse Maria Antonia Pili e Graziella Cantiello, entrambe dell'Aiaf.
Il caso, che farà giurisprudenza, è relativo a due ex coniugi di Fontanafredda (Pordenone) che hanno scelto l'istituto della negoziazione assistita per procedere con la separazione. Dopo essere giunti a un accordo, la pratica per la cessione di un immobile dal marito in favore della moglie si era fermata alla Conservatoria dei registri immobiliari dove era ritenuta indispensabile la garanzia o l'autenticazione del notaio. Proposto ricorso, il Tribunale di Pordenone, presieduto da Gaetano Appierto, in seduta collegiale ha accolto la richiesta: ora il Conservatore sarà obbligato a trascrivere il passaggio di proprietà nei registri immobiliari senza coinvolgere un notaio.
“Una rivoluzione copernicana” - Così le avvocatesse Maria Antonia Pili e Graziella Cantiello, rispettivamente presidente Aiaf Fvg (Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori) e componente del direttivo nazionale della stessa organizzazione, hanno definito il provvedimento. “Deflazioniamo compiutamente il contenzioso per portarlo quanto più possibile fuori dai Tribunali. Con la negoziazione assistita evitiamo ulteriori sofferenze per chi è in situazioni familiari e psicologiche già precarie - hanno illustrato – e scongiuriamo altri esborsi economici: il passaggio di proprietà è esente da tributi ed ora non è più nemmeno soggetto a ulteriori costi notarili”, hanno concluso”.
Aiga, tempi maturi - «I tempi sono maturi per l'allargamento delle competenze degli avvocati», scrive l'Aiga in una nota commentando la notizia, definita “dirompente”. «Questa sentenza apre la strada ad una nuova consapevolezza degli avvocati, ed attesta la sussistenza di tutte le condizioni per riconoscere ai legali potestà certificative, nell'interesse della concorrenza e quindi dei cittadini» afferma il presidente dell'AIGA, Michele Vaira
Notai, nostro ruolo essenziale - Vito Guglielmi, segretario del Consiglio nazionale del Notariato, ha invece affermato che: “Il Notariato attende di conoscere le motivazioni che hanno determinato il Tribunale di Pordenone ad assumere la decisione in oggetto, a fronte di un dettato normativo che chiaramente attribuisce solo ai pubblici ufficiali, e quindi al Notaio, la competenza a regolamentare i trasferimenti immobiliari nell'ambito della procedura della negoziazione assistita”.
“L'affidabilità dei pubblici registri immobiliari – afferma Guglielmi - rappresenta una eccellenza del sistema giuridico italiano riconosciuta a livello mondiale sia in termini economici sia sociali. La figura del notaio, pubblico ufficiale soggetto a continui controlli da parte dello Stato, è essenziale e imprescindibile per garantire e preservare la completezza e la correttezza dei dati contenuti nei detti registri. La stessa Corte Europea con la sentenza del 9 marzo 2017 – conclude Guglielmi - ha sottolineato la specificità della professione di notaio e il suo ruolo quale soggetto cui sia riservato il potere di autentica degli atti destinati alla pubblicità immobiliare”.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Negoziazione assistita: notaio non più indispensabile

Registrazione della conversazione telefonica: non utilizzabile nel processo se l'altra parte la disconosce

Il Giudice del Lavoro di Lodi ha dichiarato inutilizzabile nel processo la registrazione di una conversazione telefonica effettuata da una "presunta" ex dipendente all'insaputa dell'altrettanto "presunto" datore di lavoro.
Nel caso che ci occupa, Tizia asseriva di aver lavorato "in nero" presso un'azienda e di essere stata licenziata oralmente senza una giusta causa.
Per tale motivo impugnava il licenziamento chiedendo la reintegrazione.
A supporto di tale tesi produceva in giudizio la registrazione di una conversazione intrattenuta con il presunto datore di lavoro a sua insaputa, in cui quest'ultimo veniva sottoposto con vari pretesti ad una serie di domande sul rapporto asserito.
Costituitosi in giudizio, il datore di lavoro disconosceva la registrazione in quanto la telefonata non sarebbe realmente avvenuta nei termini descritti, apparendo palesemente capziosa, nonché basata su una serie di domande maliziosamente volte ad "imboccarlo" di frasi equivoche.
Pertanto, disconosceva espressamente la registrazione, osservando:
"Come si evince dalla lettura dell'art. 2712 c.c. l'efficacia probatoria delle registrazioni è subordinata, in ragione della loro formazione fuori dal processo e senza le garanzie dello stesso, all'esclusiva volontà della parte contro la quale esse sono prodotte in giudizio".
All'esito della fase istruttoria, con decreto del 24 marzo 2017, il Giudice di Lavoro di Lodi dichiarava l'inutilizzabilità della suddetta registrazione, così motivando:
" Come statuito dalla Suprema Corte, il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 cod. civ. si sottrae ai termini e alle modalità stabiliti per le scritture private dagli artt. 214 e seguenti cod. proc. civ. poiché l'efficacia probatoria delle riproduzioni meccaniche – relativa a documenti costituenti dei supporti illustrativi e confermativi di deduzioni o allegazioni della parte producente – è subordinata (in ragione delle modalità della loro formazione al di fuori del processo e, quindi, senza le garanzie dello stesso) all'esclusiva volontà della parte contro la quale esse sono prodotte e all'ammissione che siano realmente accaduti i fatti di cui si tendono a provare le effettive modalità e la rispondenza a quanto sostenuto dalla parte producente."
Si può quindi sostenere che, in assenza del consenso della parte, la registrazione non può considerarsi una prova del processo.
Infatti sul punto il Giudice del Lavoro di Lodi concludeva ribadendo che "le registrazioni fonografiche possono assurgere a dignità di fonte di prova limitatamente all'ipotesi in cui la parte contro la quale sono prodotte non contesti che le conversazioni o le dichiarazioni, con il tenore che le suddette registrazioni tendono a comprovare, siano realmente accadute. ".
La pronuncia in esame afferma la necessità di garantire il rispetto del contraddittorio tra le parti, ossia un principio di diritto che fonda il nostro ordinamento.
Di contro, fondare una decisione su una prova formatasi fuori dal processo, quindi senza le garanzie di legge, costituisce una forte limitazione del diritto di difesa che (correttamente) non può essere ammessa.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Registrazione della conversazione telefonica: non utilizzabile nel processo se l'altra parte la disconosce

giovedì 23 marzo 2017

Vittime di stalking sempre ammesse al gratuito patrocinio

L’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato proposta dalla vittima dei reati di maltrattamenti in famiglia, mutilazioni genitali, atti persecutori ovvero di un reato sessuale deve essere accolta anche in assenza dei limiti di reddito richiesti dal Testo Unico spese di giustizia.
Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. IV, sentenza n. 13497 depositata il 20 marzo 2017.
Dovere del giudice. Il Collegio ha ritenuto che, anche se la norma prevede che la persona offesa da uno dei suddetti reati “può” essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito […], e non “deve” essere ammessa, il termine può deve intendersi come dovere del giudice di accogliere l’istanza presentata dalla persona offesa da uno dei suddetti reati.
Questa conclusione, secondo i Giudici di legittimità, discende dalla costatazione che la finalità della legge è quella di assicurare alle vittime di quei reati un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità dell’assistenza legale.

Fonte: www.ilpenalista.it/Vittime di stalking sempre ammesse al gratuito patrocinio - La Stampa

Maestra d’asilo violenta: è maltrattamento in famiglia e non abuso di mezzi di correzione

Gli atti di violenza esercitati da un’insegnante di scuola materna nei confronti di infanti di tre anni devono essere qualificati come delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e non come abuso dei mezzi di correzione e di disciplina (art. 571 c.p.), atteso peraltro che le dichiarazioni dei bimbi, per quanto da valutarsi con particolare attenzione, non possono ritenersi aprioristicamente inaffidabili.
Il caso
L’imputata, insegnante presso una scuola materna, viene condannata in primo grado per maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) per specifici e reiterati atti di sopraffazione, anche violenti, posti in essere nei confronti degli infanti a lei affidati. La Corte di appello ha confermato la condanna, ma qualificando il fatto come abuso dei mezzi di correzione e di disciplina (art. 571 c.p.) e rideterminando la pena in mesi quattro di reclusione con la conseguente sanzione accessoria di interdizione dai pubblici uffici di pari durata.
Il difensore ricorre per Cassazione lamentando, fra l’altro, come l’accusa si sia basata sulle dichiarazioni provenienti da bimbi di tre anni d’età senza alcun riscontro.
La Suprema Corte respinge il ricorso, ma qualifica nuovamente il fatto come maltrattamenti e non come abuso dei mezzi di correzione.
Le dichiarazioni degli infanti
Sul punto la Corte afferma che non può sostenersi la preconcetta inaffidabilità delle dichiarazioni dei bambini in tenera età (nello stesso senso: Cass. pen. Sez. III, 30 settembre 2014, n. 45920), vero semmai che esse impongono un vaglio particolarmente attento e circostanziato (cfr. Cass. pen. Sez. III, 6 ottobre 2011, n. 12283): il che nella fattispecie non era proprio mancato. Da un lato le dichiarazioni dei bimbi erano state raccolte anche assieme alla puntigliosa disamina delle deposizioni dei genitori degli stessi, ed in assenza di elementi atti a farne dubitare la credibilità. D’altro lato, sintomatico il disagio da questi evidenziato durante le lezioni dell’imputata e subito scomparso in sua assenza. Infine, molto chiaro tale riferimento effettuato tramite i giochi, in cui, come è fin troppo noto, il minore trasferisce i propri vissuti traumatici o non proprio positivi al fine di elaborarli e comunicarli.
La diversa qualificazione giuridica
La Corte, prima di dare al fatto una diversa qualificazione giuridica rispetto a quella del giudice del gravame, afferma che tale possibilità, sancita dall’art. 521 c.p.p. in ordine alla correlazione fra accusa e sentenza, deve rispettare i princìpi del contraddittorio anche ai sensi dell’art. 6 della C.E.D.U., come interpretato dalla Corte di Strasburgo e, prima ancora, dall’art. 111 della Costituzione (Cass. pen. Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617; Cass. pen. Sez. II, 24 ottobre 2014, n. 46786; Cass. pen. Sez. V, 6 giugno 2014, n. 48677).
L’importante è che tale difforme inquadramento giuridico non avvenga “a sorpresa”, ma in modo che la diversa qualificazione giuridica del fatto possa apparire come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, ove l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario rimedio del gravame (così anche Cass. pen. Sez. V, 24 settembre 2012, n. 7984; Cass. pen. Sez. III, 14 giugno 2011, n. 36817; Cass. pen. Sez. Un., 15 luglio 2010, n. 36551; Cass. pen. Sez. VI, 19 febbraio 2010, n. 20500; Cass. pen. Sez. I, 18 febbraio 2010, n. 9091; Cass. pen. Sez. II, 16 settembre 2008, n. 38889).
Maltrattamenti e non abuso dei mezzi di correzione
Ciò premesso, sulla base dei fatti ritenuti nella decisione di merito, la Corte ritiene di qualificarli come delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), come aveva fatto il giudice di prime cure, e non come abuso dei mezzi di correzione e disciplina, alla stregua della sentenza della Corte d’Appello (art. 571 c.p.).
Da tempo la giurisprudenza si interroga sui rapporti o, rectius, sulla linea di discrimine fra le due fattispecie criminose, prescindendo dal fatto che, come è noto, quello di maltrattamenti in famiglia è un reato necessariamente abituale. Tale linea va riscontrata sul piano oggettivo e non già dall’intenzione dell’agente: come dire che l’animus corrigendi non è idoneo a far rientrare nella meno grave fattispecie di abuso una condotta di maltrattamenti (ex plurimis: Cass. pen. Sez. VI, 30 giugno 2015, n. 30436; Cass. pen. Sez. VI, 10 maggio 2012, n. 36564).
Invero, è la visione stessa dell’”abuso dei mezzi di correzione e disciplina” che è venuta a modificarsi e ad evolversi nel tempo, per cui, anche nel contesto del riformato diritto famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151), è emersa sempre più l’esigenza di bandire la violenza come mezzo correzionale, passando, quasi per gradi, ad ammettere prima solo la vis modica, poi quella modicissima, e, infine, per escluderla del tutto. Infatti, anche in riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la l. 27 maggio 1991, n. 176, la Corte di Cassazione ebbe ad affermare nitidamente, in una basilare decisione, cui la sentenza in commento fa ampio riferimento, che “con riguardo ai bambini il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti, sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza, utilizzando il mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l’eccesso dei mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 cod. pen. (abuso dei mezzi di correzione) giacché intanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l’uso” (così Cass. pen. Sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904; nello stesso senso: Cass. pen. Sez VI, 22 ottobre 2014, n. 53425; Cass. pen. Sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45647).
Una giurisprudenza proprio non lineare
Invero, la richiamata, fondamentale sentenza della Sez. VI, n. 4904/1996, a nostro avviso (Pittaro, Il delitto di abuso dei mezzi di correzione: una fattispecie “senza più fondamento”?, in Famiglia e diritto, 1996, p. 324 ss.) avrebbe potuto portare ad uno “svuotamento” della fattispecie dell’art. 571 c.p. in presenza di una sia pur minima violenza, anche psichica (con il relativo inquadramento sotto altre norme incriminatrici).
Peraltro, così non è proprio stato, in quanto si è anche continuato ad affermare che integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che faccia ricorso a qualsiasi forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima ed orientata a scopi educativi (Cass. pen. Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 9954; nello stesso senso, in riferimento ad atti dell’insegnante che violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute: Cass. pen. Sez. V, 16 luglio 2015, n. 47547; Cass. pen. Sez. VI, 14 giugno 2012, n. 34492).
Maltrattamenti rivolti ad una comunità
Alla diversa qualificazione giuridica operata dalla pronuncia in commento non può ostare il dato, tratta dalla sentenza oggetto del ricorso, circa il carattere non ripetitivo, sistematico ed abitudinario delle condotte di sopraffazione. Al contrario, la Corte rileva che dagli atti risulta la presenza di violenze fisiche e morali ripetute, connotate da abitualità a danno di minori affidati all’imputata per ragioni di educazione, e viene ad affermare che tale abitualità non deve essere valutata alla stregua del limitato numero di violenze cui ciascun bambino, isolatamente considerato è stato oggetto, poiché ciascuna di queste azioni costituisce un piccolo segmento della serie che, considerata nel suo complesso, integra la condotta descritta dalla norma incriminatrice.
Illuminante la conclusione della Corte: le angherie e le violenze consumate in danno del singolo individuo si ripercuotono necessariamente anche nei confronti dei componenti della stessa comunità, affidata all’imputata per ragioni di educazione ed istruzione, generando quello stato di disagio psicologico e morale, a sua volta causativo di una condizione di abituale e persistente sofferenza, riscontrabile negli atti, la quale costituisce l’in sé della nozione di maltrattamenti e che il minore non ha alcuna possibilità, né materiale, né morale di risolvere da solo.
Conclusione
L’aver ripristinato l’originale qualificazione ai sensi dell’art. 582 c.p., e pur considerando che la pena edittale ex art. 581 c.p. è inferiore rispetto a quella prevista per il delitto di maltrattamenti, e preso atto che l’appello era della sola imputata e non anche della parte pubblica, il noto principio processuale (art. 597, comma 3, c.p.p.) impedisce alla Corte di Cassazione di formulare l’annullo con rinvio al fine di modificare il quantum della pena.
Donde, qualificato il fatto ai sensi dell’art. 582 c.p., il rigetto del ricorso.

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/Maestra d’asilo violenta: perché è maltrattamento in famiglia e non abuso di mezzi di correzione | Quotidiano Giuridico

lunedì 20 marzo 2017

Prova a rubare una bottiglia di sambuca: 40 giorni di carcere

Respinta la tesi difensiva, secondo cui il gesto è stato causato da seri problemi di alcolismo. Per i giudici sarebbe stato necessario, piuttosto, dimostrare l’esistenza di una cronica intossicazione da alcool.
Impossibile dunque parlare di raptus. Il tentativo di portar via una bottiglia di sambuca dal supermercato non è reso meno grave dall’aver agito sotto i fumi dell’alcool. Confermata perciò la condanna nei confronti di un uomo, sanzionato con 40 giorni di reclusione e 40 euro di multa (Cassazione, sentenza n. 11727 del 10 marzo 2017).
Supermercato. Linea di pensiero comune per i giudici del Tribunale e della Corte d’appello: nessuna giustificazione per un uomo, affetto da alcolismo, beccato all’uscita da un supermercato con una bottiglia di sambuca nascosta sotto la giacca. Secondario anche il valore minimo del prodotto, cioè appena 7 euro e 50 centesimi.
Consequenziale, quindi, la condanna per il tentativo di furto e pena fissata in 40 giorni di reclusione e 40 euro di multa.
Alcolismo. L’avvocato propone però ricorso in Cassazione. Obiettivo è vedere ridotta la sanzione, alla luce della precaria condizione psico-fisica del suo cliente, costretto ad affrontare seri problemi di alcolismo.
La visione difensiva, secondo cui il tentativo di rubare la bottiglia di sambuca è legato all’alcolismo che affligge l’uomo, viene respinta dai magistrati del Palazzaccio. Ciò alla luce di una semplice considerazione: «solo la cronicità dell’intossicazione da alcool può comportare la compromissione della capacità di intendere e di volere», ed essa non è certamente assimilabile alla mera «abitualità dell’assunzione di alcool».
Su questo fronte i giudici ribadiscono che «la dipendenza da alcool» per «essere causa d’infermità mentale» deve «necessariamente tradursi in un’intossicazione grave, tale da determinare un vero e proprio stato patologico psico-fisico», così «incidendo profondamente sui processi intellettivi e volitivi» della persona.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Prova a rubare una bottiglia di sambuca: 40 giorni di carcere - La Stampa

L’Unione delle Camere Penali Italiane delibera un’ulteriore astensione, dal 10 al 14 aprile 2017

Nonostante le molteplici e convergenti critiche sollevate nei confronti del voto di fiducia in Senato, sul disegno di legge di riforma in materia penale, il Governo si appresta a  riproporre il voto di fiducia anche alla Camera. Occorre, dunque, richiamare il Governo alla responsabilità politica di tale scelta, che finirebbe con il ribadire in maniera definitiva e irreversibile un atteggiamento di inammissibile disprezzo nei confronti  del dibattito parlamentare, su interventi normativi che, non solo deprimono le garanzie del processo, ma comprimono i diritti degli accusati e rendono i processi interminabili. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, pertanto, delibera un’ulteriore astensione, nel rispetto del codice di autoregolamentazione, dal 10 al 14 aprile 2017. Laddove venissero ingiustificabilmente superati i profili di metodo e di merito segnalati nella presente e nella precedente delibera, lo stato di agitazione della avvocatura penale sarà inevitabilmente mantenuto per tutto il periodo di tempo previsto dal DDL per l’effettiva entrata in vigore della nuova normativa sul processo a distanza.

GIUNTA DELL’UNIONE DELLE CAMERE PENALI ITALIANE
RILEVATO
che con la precedente delibera di astensione in data 4 marzo 2017 si è voluto denunciare il preannunciato uso dello strumento della fiducia ai fini della approvazione del DDL da parte del Governo sottraendo al Parlamento ogni possibile confronto su di una riforma che incide in profondità sul processo e sull’intero ordinamento penale;
che, tuttavia, nonostante le molteplici e convergenti critiche sollevate nei confronti di tale iniziativa, si è proceduto in Senato al voto di fiducia, impedendo che sul disegno di legge si sviluppasse la necessaria discussione sulle molteplici questioni tuttora controverse ed in particolare sulla riforma della prescrizione e sulla estensione dell’istituto del processo a distanza;
che, di fronte a questa modalità autoritaria ed antidemocratica con la quale si è inteso chiudere ogni possibile spazio di confronto ed ogni pur necessaria interlocuzione politica con riferimento a riforme che incidono in maniera diretta e penetrante sulla natura stessa del processo penale, distorcendo gravemente il modello accusatorio del giusto ed equo processo, appare necessario adottare ogni opportuna iniziativa di contrasto;
che tali riforme sono contrarie, non solo agli interessi e ai diritti dei singoli imputati, ma anche alle legittime aspettative delle persone offese e della intera collettività, che esige, in un Paese civile, moderno e democratico, che i procedimenti penali abbiano una ragionevole durata e che la fase dell’accertamento dibattimentale torni ad essere il baricentro del processo, sottraendo la fase delle indagini preliminari all’attuale enfatizzazione e mediatizzazione;
che occorre svelare la evidente contraddizione di un disegno governativo che, nonostante il proclamato intento e le formali intitolazioni, anziché aumentare le garanzie processuali ed abbreviare la durata dei processi, comprime con tali riforme i diritti degli accusati e rende i processi interminabili;
che la norma che estende la applicazione del processo a distanza ad un numero elevatissimo di procedimenti con detenuti, lungi dal costituire un risparmio di risorse, rappresenta invece, come più volte stigmatizzato, la più evidente ed aperta violazione dei principi costituzionali e convenzionali del contraddittorio e della immediatezza, nonché della presunzione di innocenza;
che il termine di un anno previsto ora dal DDL per l’effettiva entrata in vigore della nuova normativa sul processo a distanza, evidentemente necessario al fine di realizzare gli straordinari adeguamenti tecnici e strutturali che ne consentano l’operatività, non giustifica affatto una modificazione del radicale giudizio negativo formulato nei confronti di tale riforma, e rende evidente come la norma risulti contraria ad ogni criterio di economicità e razionalità;
che, pertanto, laddove venissero ingiustificabilmente superati i profili di metodo e di merito segnalati nella presente e nella precedente delibera, lo stato di agitazione della avvocatura penale sarà inevitabilmente mantenuto per tale intero periodo di tempo, nel corso del quale saranno deliberate, in ogni sede e sull’intero territorio nazionale, tutte le iniziative giurisdizionali, politiche e culturali che abbiano ad oggetto le gravissime violazioni che l’applicazione della norma comporterebbe ed i suoi conseguenti devastanti effetti sull’intero sistema processuale;
CONSIDERATO
che il Governo deve essere richiamato alla responsabilità politica della scelta di riproporre il voto di fiducia anche davanti alla Camera, che finirebbe con il ribadire in maniera definitiva ed irreversibile un atteggiamento di inammissibile disprezzo nei confronti del dibattito parlamentare, unica garanzia di una approfondita e meditata valutazione di una riforma che contiene al suo interno interventi normativi decisamente positivi ed in linea con le aspettative di riforma convergenti con i principi della Costituzione (quale ad esempio la legge delega per la riforma dell’esecuzione penale), assieme ad altri che non solo deprimono le garanzie del processo ma non rendono affatto i procedimenti penali più rapidi ed efficaci, disincentivando il ricorso ai riti speciali, e che pertanto esigerebbe una valutazione disgiunta ed accurata di ogni singola norma;
DELIBERA
nel rispetto del codice di autoregolamentazione, l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale nei giorni 10, 11, 12, 13, 14 aprile 2017, invitando le Camere Penali territoriali ad organizzare in tali giorni manifestazioni ed eventi dedicati ai temi della riforma e del denunciato contrasto con i principi costituzionali e convenzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata, riservandosi di indire ulteriori manifestazioni nazionali sul tema delle garanzie e dei diritti processuali di tutti i cittadini, mantenendo pertanto lo stato di agitazione dell’avvocatura penale ed attivando ogni strumento comunicativo ed ogni interlocuzione volta alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle forze politiche sul metodo e sul merito della riforma.

Fonte:www.camerepenali.it/L’Unione delle Camere Penali Italiane delibera un’ulteriore astensione, dal 10 al 14 aprile 2017. - Camere Penali sito ufficiale

Responsabilità medica: al via la nuova legge sul rischio clinico e la sicurezza delle cure

All’esito di un complesso e travagliato percorso legislativo, ha finalmente visto la luce – in data 17 marzo 2017 G.U. n°64 – la Legge n. 24, recante il seguente titolo “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”.
Si tratta di un intervento legislativo destinato a chiudere e razionalizzare, finalmente in modo organico e con un apprezzabile bilanciamento degli interessi in gioco, un processo di elaborazione normativa che aveva preso inizio qualche anno orsono attraverso alcuni decreti legge di sicuro rilievo storico ma di frammentaria e dubitevole chiarezza testuale. Ci riferiamo al cd. “decreto Balduzzi” (D.L 13 settembre 2012, n. 158, conv. con modif. dalla L. 8 novembre 2012, n. 189) ed al suo “impressionistico” riferimento all’art. 2043 c.c., relativo alla responsabilità del medico (un riferimento tanto ambiguo da divenire oggetto di opposte linee interpretative persino nell’ambito di uno stesso Ufficio giudiziario (vedasi il contrasto registrato tra due sezioni civili del Tribunale di Milano, con le sentenze Trib. Milano, sez. I, n. 9693 del 17 luglio 2014, est. Patrizio Gattari e Trib. Milano, sez. V, n. 13574 del 18 novembre 2014, est. Borrelli). Ma il pensiero corre anche al cd. “decreto Madia” (D.L. 24 giugno 2014, n. 90, conv. con modif. dalla L. 11 agosto 2014, n. 114), che, contrariamente ai suoi pur nobili intenti chiarificatori, ha in realtà disorientato interpreti ed operatori quanto all’individuazione dei medici effettivamente assoggettati all’obbligo di assicurazione.
Orbene, l’impianto strutturale della legge “Gelli/Bianco” è, rispetto alle esperienze normative che l’hanno preceduta, di tutt’altra consistenza, mirando con ambizione alla costruzione di un sistema di responsabilità sanitaria obbligatoriamente assicurata ed economicamente sostenibile, all’insegna di una nuova calibratura delle tutele, soltanto apparentemente contrapposte, su cui tale sistema si fonda: quella dei pazienti, da un lato, e quella dei medici, dall’altro.
Sullo sfondo (ed anzi in primo piano) si staglia – fondamentale e granitica – l’affermazione di una finalità di base: quella della sicurezza delle cure e della persona assistita, affermata proprio nella rubrica della legge e riproposta solennemente nell’incipit della sua articolazione di dettaglio (art. 1, secondo la cui declinazione “La sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività”).
Il fuoco, dunque, si concentra sulla “sicurezza delle cure”, nozione che presuppone e completa (e contribuisce ad attuare) il monumentale riferimento costituzionale (art. 32) al diritto alla salute, e che in questo nuovo contesto mira, tra l’altro, a sancire – con bella rotondità – l’idea che quel diritto non sia presidiato dal sistematico ricorso alla lite ma, al contrario, trovi sua massima espressione nel concetto stesso di prevenzione.
Questa prospettiva di lettura è corroborata dai due commi successivi dell’art. 1: “2. La sicurezza delle cure si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative.3. Alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle aziende sanitarie, pubbliche e private, è tenuto a concorrere tutto il personale, compresi i liberi professionisti che vi operano in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale”.
La norma vuole chiaramente indicare la necessità che alla “prevenzione” e “gestione del rischio” si provveda mediante l’implementazione di veri e propri modelli organizzativi improntati ai principi aziendali di Risk Management e con il concorso di ogni soggetto coinvolto nell’organizzazione ed erogazione dei servizi (“tutto il personale”).
Si tratta di spostare l’angolo visuale, provando a depotenziare il ruolo del rimedio postumo risarcitorio (con tutto quanto ne consegue in termini di costi ed oneri sul già precario sistema sanitario nazionale); e correlativamente ad enfatizzare il momento della prevenzione del rischio, che dovrebbe intercettare l’errore, evitandolo e relegando il risarcimento al rango di extrema ratio.
All’affermazione di doveri istituzionali di governo del rischio e delle correlate responsabilità strutturali fa, peraltro, da pendant l’affievolimento delle responsabilità individuali di chi – gli esercenti della professione sanitaria – operi all’interno di quei più ampi presidi sanitari, costituendo un semplice (sia pur fondamentale) anello di una catena organizzativa eterogestita.
Se, quindi, il fine primario della disposizione è quello di imporre alle strutture ed al loro “personale” una politica di gestione efficace dei rischi, ben si comprende la soluzione chiaramente adottata dal legislatore di concentrare l’attenzione della disciplina del rischio clinico (e delle relative responsabilità) sulle strutture stesse e di attenuarla in relazione al singolo medico, eventualmente responsabile dell’errore.
Con ciò siamo introdotti nel secondo tema di portata generale sopra accennato, ossia quello dei criteri di allocazione dei rischi in caso di danni derivanti dall’esercizio delle attività medico-sanitarie e del corrispondente regime di tutela del danneggiato.
La nuova normativa è, sul punto, perentoria, quanto a declinazione degli obiettivi:
- da un lato, si è voluto concentrare la responsabilità in capo alle strutture, agevolando i medici che vi operano (con esclusione dei medici che erogano prestazioni in base a rapporti contrattuali direttamente intervenuti con i pazienti) e consentendo loro di attendere alla loro attività con maggior serenità; ciò anche al fine di porre un argine al c.d. fenomeno della “medicina difensiva”, ravvisabile in quella distorsione operativa che vede gli esercenti della professione sanitaria più preoccupati di difendere la loro posizione (davanti a possibili attacchi risarcitori) che di curare. Di qui l’esigenza di porre un freno ad alcune derive giurisprudenziali, tese ad equiparare, sul piano della responsabilità, il cd. medico “strutturato” al libero professionista (attraverso l’elaborazione di modelli di imputazione civilistica di matrice germanistica); il tutto, come detto, spostando la lente sulla responsabilità delle strutture, chiamate a rispondere in quanto titolari del potere di governo del rischio e, in quanto tali, tenute a rimuovere tutte quelle storture organizzative che, assai frequentemente, costituiscono il terreno fertile di errori materialmente commessi dal singolo operatore;
- dall’altro lato, si è voluto costruire un sistema di tutela efficace dei danneggiati, presidiato - oltre che dalla stessa realizzazione di un efficiente sistema di sicurezza delle cure e di prevenzione dei rischi - dall’introduzione di un sistema assicurativo obbligatorio, globalmente strutturato, assistito dall’azione diretta mutuata dall’ambito della rc auto (con i suoi corollari, tra cui la non opponibilità al terzo delle eccezioni contrattuali) ed affiancato da un Fondo di Garanzia deputato ad intervenire laddove la tutela assicurativa risulti insufficiente.
Se tanto vale per le coordinate civilistiche del tema (e di queste sole ci occuperemo nel presente intervento), non va dimenticato come altra pietra angolare della legge 24/2017 sia da individuarsi nella franca erosione della responsabilità penale degli esercenti la professione sanitaria. Ci riferiamo all’art. 6, nella parte in cui ridisegna le fattispecie di omicidio colposo (art. 589 c.p.c.) e di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) ove verificatesi “in ambito sanitario”, prevedendo ipotesi di non punibilità qualora tali eventi si siano verificato nonostante il rispetto di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali (così il nuovo art. 590 sexies c.p., introdotto dall’art. 6 della legge in commento).
Il tutto, ancora una volta, onde restituire al medico quella serenità di azione così frequentemente compromessa, in tempi recenti, dalla legittima apprensione di vedere il proprio lavoro trasformato in occasione di aggressione giudiziale, anche in sede penale.
Queste le coordinate di fondo della nuova normativa, che dovranno trovare ulteriore sviluppo nella futura decretazione attuativa, a cui è affidato, tra l’altro, il difficile compito di definire nel dettaglio il contenuto delle coperture assicurative obbligatorie.
Ciò posto in termini generali, passiamo ad una veloce rassegna degli snodi principali attorno ai quali la disciplina civilistica della riforma si articola.
La responsabilità civile del medico e della struttura
Uno dei fulcri della nuova normativa è senza dubbio rappresentato dall’art. 7, rubricato “Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria”.
La norma si pone chiaramente in continuità con gli obiettivi del “Decreto Balduzzi”, di cui costituisce uno sviluppo teso, tra l’altro, a superarne le ambiguità mediante una formulazione testuale decisamente più chiara e tale da non generare nuovi equivoci.
Come ricordato in apertura, il riferimento va al richiamo all’art. 2043 c.c., contenuto nel primo comma dell’art. 3, D.L. n. 158/2012, che da taluni era stato (inopinatamente…) ritenuto troppo labile per fondare un regime di responsabilità diverso da quello di creazione giurisprudenziale e basato sulla nozione del “contatto sociale”.
L’art. 7 della Legge Gelli scioglie qualsiasi dubbio: essa, infatti, prevede un doppio regime di responsabilità civile, che, da un lato, assoggetta alla responsabilità contrattuale “ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile” soltanto le strutture sanitarie e sociosanitarie (pubbliche o private) ed i medici liberi professionisti; dall’altro, assoggetta alla responsabilità ex art. 2043 c.c. i medici che svolgano la loro attività all’interno di una struttura, in qualità di dipendenti o ad altro titolo (ma comunque “per conto terzi” e non in forza di un rapporto contrattuale diretto con il paziente).
Il “sistema” risulta orientato in modo piuttosto razionale, ponendo il (più gravoso) regime della responsabilità contrattuale in capo a chi quella responsabilità debba ontologicamente assumersela, vuoi perché legato al paziente da un vero e proprio rapporto negoziale, vuoi in forza della propria posizione di gestore dell’attività in forma di impresa e con assunzione del potere/dovere di governo del rischio clinico (in aderenza al principio ubi commoda ibi incommoda…).
E’ peraltro opportuno rilevare come l’impostazione scelta dal legislatore sia tutt’altro che una “novità” per il nostro ordinamento. Essa, infatti, si limita a ristabilire le ordinare regole di responsabilità civile delineate dalla legislazione vigente e di fatto ribaltate da un’intensa opera di elaborazione giurisprudenziale per cui il medico dipendente, non legato al paziente da alcun contratto, dovrebbe verso quest’ultimo rispondere comunque secondo le regole della responsabilità contrattuale in virtù di un “contatto sociale”, di dubbia cittadinanza nel sistema giuridico e di ancor più dubbia tenuta sul piano fenomenologico.
Non sembra quindi azzardato dire che la riforma Gelli null’altro faccia se non ricondurre la materia all’ordinario regime della responsabilità per come scritto nei codici: contrattuale per chi agisce in forza di un contratto e/o nell’adempimento di un obbligo direttamente assunto verso il paziente; extracontrattuale negli altri casi.
Ed è proprio in quest’ottica che la legge ricorda come la regola aquiliana non si applichi alla responsabilità del medico che, pur operando all’interno di una struttura, abbia agito in forza di un rapporto contrattuale fiduciario con il paziente. D’altro canto, il professionista convenzionato con il SSN, impegnerà la responsabilità del Servizio Sanitario medesimo (in linea con l’orientamento elaborato da Cass. 27 marzo 2015, n. 6243) senza rispondere a titolo contrattuale (questo, almeno, è quanto sembra potersi ricavare dall’art. 7 comma 3).
A chiudere il punto, ci sia consentita una breve considerazione. Non crediamo che l’obiettivo (cristallino) perseguito dalla norma possa esser messo in discussione da nuovi vezzi interpretativi, tesi a “lasciar tutto com’era” ed mantenere il medico dipendente prigioniero delle antiche mistificazioni contrattualistiche. Abbiamo invero, letto, su questa stessa rivista, l’opinione di chi (ci riferiamo all’articolo dell’ 1 marzo 2017 a firma Nicola Todeschini) contesta tanto le intenzioni quanto il risultato a cui l’art. 7 tende e vorrebbe approdare (in malcelato ossequio, secondo l’autore, agli interessi della classe assicurativa…). Ebbene, secondo tale voce, il mantenimento dello status quo ante (e quindi l’affermazione di una perdurante responsabilità contrattuale del medico “strutturato”) sarebbe reso possibile dal fatto che il legislatore non avrebbe affermato “…pur potendolo fare, che d'ora innanzi la responsabilità dell'esercente sarà “solo” extracontrattuale, ma che lo sarà se non sarà possibile individuare quel qualificato rapporto giuridico rilevante che la suprema corte ritiene - sempre - presente nel rapporto medico paziente, qualsiasi sia l'inquadramento giuridico del rapporto di lavoro del sanitario con il suo eventuale datore di lavoro. Ma allora, cosa cambia? Viene semmai meno l'automatico riconoscimento anche del titolo contrattuale ed aggravato l'onere, del paziente, di allegazione: dovrà spiegare, attingendo a piene mani gli argomenti dalla teoria del contatto sociale, perché nel caso di specie il medico non si sia comportato come un passante indifferente e quindi per quali ragioni si sia perfezionato, come avviene nella stragrande maggioranza dei casi, anche un rapporto contrattuale”.
Tale tesi riposerebbe sulla lettura testuale del terzo comma dell’art. 7, in cui si legge che la responsabilità dell’esercente che opera all’interno della struttura è regolata dall’art. 2043 del codice civile “salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”. Il che lascerebbe al giudice mano libera di continuare a qualificare in fatto il rapporto col paziente come “contrattuale in fatto”, anche in assenza di alcun vero e proprio rapporto negoziale.
Non riteniamo che un tale - ci sia perdonato l’ossimoro - slancio conservativo meriti, per quanto apprezzabile, di trovar seguito: la ratio legis, per nulla pasticciata e netta, quanto ad intenzioni, non corre il rischio di esser equivocata attraverso letture extravaganti di una disposizione che non legittima, sull’argomento, seri dubbi ermeneutici; il rapporto contrattuale a cui l’art. 7 si riferisce è quello che potrebbe intercorrere tra un medico libero professionista ed il proprio cliente/paziente, quando la prestazione di cura sia effettuata all’interno di una struttura ospedaliera con la quale il medico è in qualche modo convenzionato. Diversamente opinare equivarrebbe a privar la disposizione di qualsiasi senso sostanziale…
Quanto alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private nulla sembra variare rispetto al passato, venendo riaffermata la loro responsabilità contrattuale ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c. Resta semmai da comprendere se, e in che termini, il rafforzamento degli obblighi istituzionali in tema di sicurezza e prevenzione del rischio implichi nuovi ed ulteriori aggravi di responsabilità, in qualche modo connessi all’omessa predisposizione di modelli organizzativi adeguati alla bisogna. Ciò sia nei rapporti esterni con terzi (pazienti od altri potenziali danneggiati) che nelle relazioni interne con i propri dipendenti, collaboratori e, più in generale, con tutti i quali operano in concorso con la struttura.
E proprio con riferimento al rapporto interno struttura/esercente, l’enfatizzazione dei compiti di presidio della sicurezza posti in capo alla prima sembra riverberarsi sul regime di ripartizione interna delle eventuali responsabilità, in caso di danno risarcibile.
E’, questo, il tema trattato dall’art. 9, che limita il diritto di regresso (definito “rivalsa”) della struttura, tanto privata quanto pubblica, nei confronti dell’esercente la professione sanitaria del cui fatto la struttura medesima debba rispondere, ai soli casi di dolo o di colpa grave del responsabile. Nell’ambito delle strutture pubbliche, inoltre, la quantificazione del compendio risarcitorio esigibile dall’esercente la professione sanitaria in struttura pubblica, oltre che dei principi dettati in tema di determinazione del danno erariale, dovrà tener conto anche “delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa della struttura” (art. 9, comma 5): previsione che, a nostro avviso, pur confondendo i piani della criteriologia liquidativa con quelli della concorsualità nella causazione dell’illecito, attesta l’autonoma rilevanza di quelle carenze organizzative che, in qualche modo, possono ricondursi ad una violazione delle disposizioni di cui all’art. 1 della legge. E non solo: pone in emersione la questione, in realtà valevole anche per le strutture private, della responsabilità individuale delle cariche apicali, nella parte in cui le inefficienze strutturali (che possano aver condotto ad una contrazione della rivalsa) siano imputabili ad omissioni nella predisposizione di modelli organizzativi/preventivi adeguati. Il che rileva anche tenendo conto del fatto che, in ogni caso, l’azione di rivalsa in ipotesi di colpa grave non potrà mai essere esercitata per importi superiori al triplo della retribuzione lorda annuale o comunque del reddito professionale conseguiti dal responsabile nell’anno di commissione della condotta o (se maggiore) nell’anno immediatamente successivo o precedente.
Occorre peraltro evidenziare come il danneggiato, in base a valutazioni sue proprie, possa agire direttamente nei confronti del medico strutturatoex art. 2043 c.c.: in tal caso, superate le maggiori difficoltà probatorie gravanti sull’attore (difficoltà che, salvi casi particolari, vengono frequentemente superate in sede di consulenza tecnica), il medico potrebbe vedersi condannare ad un risarcimento integrale ad anche in caso di colpa lieve. Evidente – qui sì – la zoppia dell’impostazione seguita dal legislatore: a seconda da chi lo aggredisca (la struttura in via di rivalsa o il danneggiato direttamente, specie ove mosso da istanze di revanchismo personale…) l’esercente si troverà diversamente esposto: per dolo o colpa grave e con limiti quantitativi nel primo caso, senza limiti ed anche per colpa lieve, nel secondo. Il differente regime di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, non basta, di per sé, ad attenuare tale incongruenza, che certamente sarà oggetto di futuri approfondimenti, studi e prove rimediali.
Non a caso – in guisa di rimedio palliativo e sempre nell’ottica di costruire un sistema il più possibile e bilanciato - l’art. 10, comma 1, impone alle strutture di coprire (con idonea polizza od altre misure analoghe) il rischio di responsabilità dei “propri” esercenti, per tutte le ipotesi in cui questi ultimi siano resi oggetto di richieste risarcitorie dirette da parte dei pazienti. Disposizione, tale ultima, che, di fatto, eleva ad impegno di legge doveri sino ad ora assunti dalle aziende sanitarie in sede di contrattazione collettiva. Non è chiaro – e sarebbe da indagare - se nel disegno del legislatore tale copertura debba essere intesa come estensibile al caso di colpa grave; eventualità che, almeno per quel che riguarda gli enti pubblici, potrebbe non armonizzarsi con il principio apparentemente sotteso alla previsione di cui all’art. 3, comma 59, della L. 24 dicembre 2007, n. 244 (Legge finanziaria 2008).
Risarcimento del danno e linee guida
Sempre l’art. 7 interviene sul tema della quantificazione del danno risarcibile, stabilendo la seguente regola: “Il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo”.
La disposizione è di applicazione generale, senza distinzione tra danni verificatisi nell’ambito di una struttura sanitaria e quelli cagionati da un medico libero professionista.
La norma è chiaramente pensata in relazione all’obbligo di assicurarsi e, nel riprendere una disciplina sorta per regolare i risarcimenti connessi alla rc auto, costituisce uno strumento funzionale sia a consentire una corretta assunzione dei rischi da parte delle imprese di assicurazioni, sia a contenere i risarcimenti/indennizzi entro misure standardizzate e, per l’effetto, ad evitare lievitazioni di premi insostenibili da parte degli assicurati. Di più, costituisce il primo – e non ultimo - punto di aggancia della disciplina assicurativa obbligatoria del rischio clinico a quella della rc auto.
Ancora ai fini della quantificazione del risarcimento, l’art. 7 obbliga il giudice a tener conto “della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’art. 5 della presente legge e dell’art. 590 sexies del codice penale, introdotto dall’art. 6 della presente legge”, valorizzando – almeno per quel che appare – il grado della colpa dell’esercente nella causazione del danno in ambito liquidativo.
In argomento, mette conto segnalare taluni dubbi di carattere interpretativo.
L’art. 5 definisce le modalità di elaborazione e pubblicazione delle linee guida, a cui “salve le specificità del caso concreto” gli esercenti le professioni devono attenersi (in mancanza di linee guida, il riferimento è “alle buone pratiche clinico-assistenziali”).
Non è però chiaro quale sia il “peso” delle linee guida nella formulazione di un giudizio di responsabilità civile (e quindi anche senza voler marcare la rilevanza attribuita al livello di colpevolezza a fini quantificatori, che sembra contrastare con la logica del codice civile, segnatamente quella delineata dall’art. 1223 c.c.).
Anzitutto, il riferimento alle “specificità del caso concreto” dovrebbe permettere di sostenere che la mera applicazione delle linee guida non valga, di per sé, ad esonerare dall’obbligo risarcitorio: in altri termini, posto che le linee guida consistono in strumenti dotati di un certo grado di astrattezza, occorre che il medico ne valuti l’applicabilità in concreto, a fronte delle peculiarità del caso sottopostogli, ed eventualmente se ne discosti ove la loro meccanica applicazione fosse ritenuta inadeguata al fine terapeutico.
La norma peraltro può risultare poco chiara se si considera che, nella prassi, le linee guida sono spesso intese come espressione delle leges artis e dunque codificazioni di principi la cui esatta osservanza da parte del medico dovrebbe escludere in radice la possibilità di ascrivergli inadempienze.
Vien dunque da chiedersi: posto che, per definizione, la “colpa” consiste nella inosservanza delle “regole dell’arte”, come è possibile che il medico che ha applicato le linee guida (pertinenti al caso di specie) risponda comunque?
Una prima ipotesi potrebbe essere quella del professionista che abbia seguito alla lettera le “prescrizioni” astratte e, tuttavia, abbia commesso un errore materiale nella loro esecuzione; si potrebbe sostenere che, in questo caso, egli si è comunque “attenuto” alle linee guida, salvo aver sbagliato nella loro concreta “messa in opera”. O, ancora, si può pensare a quelle (frequenti) situazioni in cui la linea guida lasci al sanitario margini, spazi di discrezionalità e scelta (ad es. tra più strumenti/percorsi) ed egli opti per la soluzione in concreto meno idonea.
In definitiva: nella logica dell’art. 7, comma 3 sembra che le linee guida/buone pratiche (laddove il caso di specie ricada perfettamente entro il loro ambito) non si identifichino necessariamente con le regole dell’arte, non le “esauriscano” perché, altrimenti, la loro attuazione dovrebbe condurre a negare qualsivoglia addebito. Ed allora: in via teorica, perché possa profilarsi una “colpa” (nonostante la loro osservanza) occorre che il medico abbia “infranto” un altro precetto (ovverosia, le leges artis). Ed ove ancora si negasse che tali fattispecie rientrino nell’art. 2236 c.c. (perché non eccezionali o poco studiate o nuove), si potrebbe sostenere che al chirurgo che si è attenuto alle linee guida e, tuttavia, nella esecuzione pratica ha commesso degli errori potrà essere (civilisticamente) mosso un addebito in termini di (sola) colpa lieve.
Resta poi da chiedersi cosa accada nell’ipotesi in cui il medico non abbia seguito le linee guida: anche qui si aprono due diversi scenari. Se erano controindicate in ragione delle peculiarità della fattispecie (o se erano addirittura espressione di esigenze economiche, non compatibili con la tutela del paziente) nulla quaestio: non si potrà muovere al medico nessun rimprovero (sempreché, ovviamente, la sua condotta non sia stata per altro verso comunque negligente, diligente o imperita). Ma se esse erano confacenti al caso? Si potrebbe addirittura ipotizzare una colpa grave ex se? Certo, dovranno essere oggetto di interessanti approfondimenti e delicati incroci della nuova disciplina delle linee guida con quella dell’art. 2236 c.c., norma che - sterilizzata da una deriva giurisdizionale sostanzialmente abdicativa – potrebbe oggi ritrovare nuovi significati e linfa.
Vi è da chiedersi, infine, se la regola secondo la quale il risarcimento debba tener conto della condotta vuol forse alludere alla possibilità, in consimili casi, di adottare un meccanismo “para punitivo”, tale da aggravare la portata risarcitoria ordinaria. In attesa che la cassazione a sezioni Unite si pronunci sul tema, può essere interessante osservare come la ratio legis, sostanzialmente mirata ad abbattere, piuttosto che aumentare, la misura della responsabilità dell’esercente possa autorizzare un’interpretazione riduttiva, tesa a sostenere che la graduazione del risarcimento sia solo in diminuzione e non in aumento.
L’assicurazione obbligatoria
L’altro snodo fondamentale della nuova legge è rappresentato dall’introduzione di un complesso sistema di assicurazione disciplinato in termini generali dall’art. 10 e la cui specifica determinazione è in larga misura rimessa alla successiva decretazione attuativa.
Si tratta dell’obbligo di assicurazione posto a carico di tutti i soggetti che, a diverso titolo, rispondono dei danni eventualmente cagionati nell’esercizio dell’attività sanitaria e che ha il precipuo scopo di realizzare il duplice obiettivo di tutelare:
da un lato il patrimonio di coloro della cui responsabilità si discorre;
dall’altro i danneggiati, ai quali deve essere garantita la miglior realizzazione del loro diritto risarcitorio attraverso la previsione di una “tasca” capiente e solvibile alla quale rivolgersi.
Dovranno perciò assicurarsi le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche o private, i liberi professionisti indipendenti nonché gli esercenti la professione sanitaria che operano all’interno della struttura per il rischio di rivalsa in caso di colpa grave, con oneri a loro carico. Questi ultimi, come detto, dovranno obbligatoriamente essere garantiti dalla struttura per tutte le ipotesi in cui siano direttamente aggrediti dai pazienti danneggiati. Il dolo potrà essere assicurato soltanto nell’ambito della garanzia in proprio della struttura per fatto doloso dei propri dipendenti, fermi i limiti di cui all’art. 1900 c.c.
A differenza di quanto accade nella rc auto – nei cui confronti la legge Gelli è indubbiamente debitrice – l’obbligo assicurativo è unilaterale: non è stato infatti introdotto quello speculare “obbligo a contrarre” caratteristico del contesto auto (obbligo la cui introduzione richiederebbe una rivisitazione dei rami assicurativi, non essendo previsto uno specifico ramo dedicato alla responsabilità medica: senza tale rivisitazione, la previsione di un obbligo a contrarre avrebbe come destinatari tutte le imprese di assicurazioni attive nel ramo 13, dedicato alla responsabilità civile generale).
Senza entrare in valutazioni extra-giuridiche, occorre comunque domandarsi se, con riferimento alle strutture sanitarie, sarà davvero possibile (o agevole) reperire soluzioni assicurative adeguate, tenuto conto del fatto che, in base alle nuove norme, esse diverranno il centro elettivo delle attenzioni risarcitorie e, per contro, avranno possibilità assai limitate di rivalersi sui medici responsabili.
A mitigare questo rischio, la legge ammette la possibilità di ricorrere a strumenti di tutela alternativi rispetto alla tutela assicurativa (le “altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera, ai sensi dell’articolo 27, comma 1-bis, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114”). Si tratta della possibilità di “autoassicurarsi”,ossia di assumere in proprio il rischio di responsabilità ed il costo della messa in sicurezza di adeguati meccanismi di riserva utili a consentire la soddisfazione delle richieste di risarcimento.
Tematica controversa e non semplice, questa, che dovrà essere valutata una volta compresi quali saranno, in sede attuativa, gli effettivi contorni delle analoghe misure a cui fa riferimento la norma. L’impressione è, comunque, che la possibilità di ricorrere a strumenti diversi dall’assicurazione sia stata prevista tenendo conto del fatto che, ad oggi, taluni enti sono già “autoassicurati”; ma a tendere, ciò a cui mira il legislatore, è un sistema di responsabilità che sia effettivamente assicurato: in questo senso è lecito attendersi che la decretazione attuativa finisca per regolamentare le “misure analoghe” in modo tanto stringente dall’equipararle in tutto e per tutto – sotto il profilo gestionale e delle garanzie di solvibilità – all’assicurazione in senso stretto. Il che potrebbe finire per disincentivarne, nel medio termine, l’utilizzo.
Procedendo con una sommaria descrizione dei contenuti dei nuovi obblighi assicurativi occorre anzitutto evidenziare che l’obbligo di assicurazione delle strutture riguarda sia la responsabilità civile verso terzi ma anche verso i prestatori d’opera, e riguardi in generale i “danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche e private, compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica. La disposizione del primo periodo si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina”. Qui si prospetta un dubbio interpretativo: la norma si riferisce ai soli danni di indole “sanitaria” o a qualsiasi possibile danno causato da soggetti operanti all’interno della struttura, magari in base ad incarichi meramente amministrativi?
Quanto invece agli esercenti la professione sanitaria che svolgano la loro attività “al di fuori di una delle strutture di cui al comma 1 del presente articolo o che presti la sua opera all’interno della stessa in regime libero-professionale ovvero che si avvalga della stessa nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente ai sensi dell’articolo 7, comma 3”, resta fermo l’obbligo di assicurarsi in proprio, di cui all’art. 3, comma 5, lett. e), D.L. 13 agosto 2011, n. 138 e all’art. 3, comma 2, D.L. 13 settembre 2012, n. 158.
Segue: l’azione diretta, l’inopponibilità delle eccezioni contrattuali e altri profili processuali
Il sistema assicurativo previsto dalla nuova legge si completa con la previsione – chiaramente derivata dal comparto auto - dell’azione diretta nei confronti dell’impresa assicurativa e della regola dell’inopponibilità delle eccezioni contrattuali (art. 12).
La novità è senz’altro notevole, sol che si consideri che le attuali polizze assicurative in commercio sono, per lo più, caratterizzate dalla presenza di importanti ipotesi di esclusione o di franchigia e scoperti (spesso necessarie per abbassare il livello di un premio che altrimenti sarebbe assai meno sostenibile).
Occorrerà tuttavia attendere, anche in questo caso, la decretazione attuativa per sapere entro quali limiti le coperture obbligatorie della responsabilità sanitaria potranno essere declinate dall’assicuratore; e quali saranno le eccezioni non opponibili ai terzi danneggiati.
E’, infatti, rimesso ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico, da emanarsi entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge, la definizione dei “requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie, prevedendo l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati”. Il medesimo decreto stabilirà inoltre i “requisiti minimi di garanzia e le condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure, anche di assunzione diretta del rischio, richiamate dal comma 1; disciplina altresì le regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione nonché la previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati”.
La definizione dei limiti contrattuali di copertura avrà all’evidenza duplice portata, trattandosi anzitutto di stabilire quale sia il perimetro minimo di garanzia al di sotto del quale l’interesse assicurativo dell’esercente (e della struttura) finisce per non essere soddisfatto, almeno nei termini essenziali che il legislatore aveva in mente dando vita all’obbligo assicurativo. Ma anche, e soprattutto, sotto il profilo esterno, l’individuazione del catalogo delle eccezioni non opponibili servirà a stigmatizzare l’ambito di intangibilità dell’aspettativa risarcitoria del terzo danneggiato. Al riguardo, il mercato assicurativo esprime sin d’ora alcuni timori in ordine all’eventuale possibilità di considerare inopponibili le clausole (essenziali per la sostenibilità economica dell’impianto assicurativo) che pongono a carico dell’assicurato un contributo al risarcimento del danno (franchigie, scoperti, SIR…). Il parallelismo con la disposizione – gemella ma non identica – dell’art. 144 del CAP in tema di rc auto sembra scongiurare tale rischio.
Ancora in argomento occorre rilevare che l’azione diretta prevede un regime litisconsortile necessario, verosimilmente giustificato anche dall’esigenza di favorire l’esercizio simultaneo dell’azione di rivalsa esercitabile dall’impresa in relazione ai risarcimenti erogati nonostante la non operatività della garanzia (per effetto di eccezioni di polizza non opponibili al terzo).
L’azione diretta non assiste, peraltro, l’assicurazione (ex art. 1891 c.c.) del medico dipendente né quella posta a copertura del rischio di rivalsa/responsabilità amministrativa.
L’art. 8, per parte sua, prevede una condizione di procedibilità delle azioni relative ad una “controversia di risarcimento del danno da responsabilità sanitaria”: colui che intenda proporla è tenuto preventivamente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente, “salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28”.
L’introduzione della mediazione ben si giustifica pensando ad alcune ipotesi, quali i contenziosi in materia di consenso informato, che non paiono in alcun modo calzare allo schema dell’art. 696 bis. Sennonchè, la previsione di una secca alternativa sembra dar corso ad una seconda zoppia dispositiva, dal momento che l’accesso alla mediazione non sembra compatibile con il resto della disposizione, nella parte in cui prevede scansioni procedurali ritagliate solo sullo schema dell’ATP e del successivo giudizio a cognizione sommaria.
La norma specifica, infatti, che, ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento per ATP, il ricorso di cui all’art. 702 bis c.p.c.
Vi è dunque il dubbio se le controversie in oggetto debbano essere sempre e comunque trattate nell’ambito di procedimenti sommari di cognizione; così come non è chiaro - ed anzi parrebbe da escludersi - se il termine di 90 giorni per la (eventuale….) presentazione del ricorso valga anche nel caso in cui le parti, in luogo dell’accertamento tecnico preventivo, abbiano prescelto la mediazione conciliativa.
Sempre l’art. 8 prevede che la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva, sia “obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione di cui all’articolo 10, che hanno l’obbligo di formulare l’offerta di risarcimento del danno ovvero comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla. In caso di sentenza a favore del danneggiato, quando l’impresa di assicurazione non ha formulato l’offerta di risarcimento nell’ambito del procedimento di consulenza tecnica preventiva di cui ai commi precedenti, il giudice trasmette copia della sentenza all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza”.
La norma, infine, stabilisce che “In caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione”.
Come anticipato, l’art. 10 introduce di poi un ulteriore obbligo assicurativo in relazione alla responsabilità erariale e da rivalsa dell’esercente nei confronti della struttura: “Al fine di garantire efficacia alle azioni di cui all’articolo 9 e all’articolo 12, comma 3, ciascun esercente la professione sanitaria operante a qualunque titolo in strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private provvede alla stipula, con oneri a proprio carico, di un’adeguata polizza di assicurazione per colpa grave”. Il comma 4 della medesima disposizione prevede, poi, che le strutture debbano render nota “mediante pubblicazione nel proprio sito internet, la denominazione dell’impresa che presta la copertura assicurativa della responsabilità civile verso i terzi e verso i prestatori d’opera di cui al comma 1, indicando per esteso i contratti, le clausole assicurative ovvero le altre analoghe misure che determinano la copertura assicurativa”.
Merita, davvero in ultimo, di far menzione dell’istituzione di un Fondo di Garanzia destinato ad intervenire nel risarcimento:
- qualora il danno sia di importo eccedente rispetto ai massimali previsti dai contratti di assicurazione stipulati dalla struttura ovvero dall’esercente la professione sanitaria;- qualora la struttura sanitaria o socio-sanitaria pubblica o privata ovvero l’esercente la professione sanitaria risultino assicurati presso un’impresa che al momento del sinistro si trovi in stato di insolvenza o di liquidazione coatta amministrativa o vi venga posta successivamente;- qualora la struttura sanitaria o socio- sanitaria pubblica o privata ovvero l’esercente la professione sanitaria siano sprovvisti di copertura assicurativa per recesso unilaterale dell’impresa assicuratrice ovvero per la sopravvenuta inesistenza o cancellazione dall’albo dell’impresa assicuratrice stessa.
Il fondo è alimentato dal versamento di un contributo annuale dovuto dalle imprese “autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile per i danni causati da responsabilità sanitaria”; il che merita di essere chiarito in sede attuativa, non essendo previsto, nel sistema delle autorizzazioni amministrative all’esercizio dell’attività assicurativa, un ramo specificamente dedicato alla r.c. sanitaria.

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/Responsabilità medica: al via la nuova legge sul rischio clinico e la sicurezza delle cure | Quotidiano Giuridico

domenica 19 marzo 2017

“Bene demaniale”, la sentenza che trasforma la filatelia in reato

Case d’asta, rivenditori, collezionisti di francobolli e di corrispondenza in generale, lungi dall’essere considerati inoffensivi amatori di antiche carte, sono tutti potenziali briganti. Così almeno secondo una recentissima sentenza del tribunale di Torino, depositata in cancelleria il 22 febbraio a cura del giudice Roberto Arata, che ha condannato un commerciante di francobolli di Rivoli.
La sentenza ha fissato un principio apparentemente astruso, ma rivoluzionario per chiunque maneggi pezzi di corrispondenza tra un privato e un ente pubblico, dal 1840 a oggi: «La procedura di scarto non legittima la libera commercializzazione dei beni “scartati”, ma al contrario i documenti “scartati” all’esito della procedura devono essere distrutti».
La rivoluzione
Il principio è davvero rivoluzionario perché il tribunale stabilisce un assioma che può mettere in ginocchio l’intero commercio filatelico, circa 120 milioni di euro all’anno di fatturato, e soprattutto gettare nello sconforto migliaia di appassionati: secondo il tribunale, tutti i documenti che nel corso del tempo siano stati indirizzati a un ente pubblico sono bene demaniale storico e appartengono allo Stato, perciò il loro posto è negli archivi pubblici; se sono stati “scartati” per le ordinarie procedure di spoglio, vanno distrutti. Ergo, se sono nelle mani di un privato non può che essere per via di un atto illecito. Chi ne faccia commercio, è un ricettatore. Chi li acquisti, commette quantomeno «acquisto incauto».
A questo punto qualunque busta porti l’indirizzo di un Comune, di una Provincia, di una Prefettura, persino di un Priorato o di una parrocchia è sospetta. E siccome nel corso dell’Ottocento erano soprattutto gli ecclesiastici a scrivere perché erano tra i pochi ad essere acculturati, molta parte delle buste che vengono vendute nelle aste italiane con i relativi francobolli sono teoricamente fuorilegge.
Le collezioni
Il gran problema delle collezioni filateliche discende da un Decreto legislativo del 2004, che ha stabilito il principio che i documenti indirizzati a un ente pubblico - Stato, regioni, enti territoriali, enti o istituti pubblici, persone giuridiche private senza fine di lucro, enti ecclesiastici, compresi Stati ed enti dell’Italia preunitaria - sono «beni culturali inalienabili». Ne erano discesi molti dubbi interpretativi, che il ministero dei Beni culturali riteneva di aver sciolto nell’ottobre 2013 con una circolare della Direzione generale per gli Archivi. La circolare stabilisce alcuni elementi di buon senso. Primo, le semplici buste, quelle che portano l’agognato francobollo e l’annullo, non possono essere considerati documenti meritevoli di tutela, a differenza del documento che contenevano; non se ne può presumere «in via generale l’appartenenza al demanio pubblico». Secondo, può essere considerata la «demanialità intrinseca» soltanto per quei documenti che dovevano essere necessariamente conservati, tipo atti legislativi, provvedimenti giurisprudenziali, contratti; per tutti gli altri, prima di definirli «di necessaria appartenenza pubblica», occorre una prova che siano stati sottratti ad un archivio.
E invece no. Il tribunale di Torino ha rovesciato il ragionamento: tutti questi documenti appartenevano a un ente pubblico, perciò se sono sul mercato privato occorre una pezza d’appoggio, ossia il documento di «spoglio» che certifica il non-trafugamento. «L’esistenza delle procedure di “sdemanializzazione” non può, di per sé, essere invocata a decisiva giustificazione del possesso in capo ai privati... per effetto di una sorta di presunzione d’avvenuto scarto». Se il privato non è in grado di esibire la pezza d’appoggio, «deve concludersi che il documento è stato illecitamente sottratto».
Il sequestro
Quanto alle buste, il giudice afferma che «la questione dell’inquadramento giuridico è particolarmente controversa... non può prescindere da una specifica e mirata analisi di ciascun singolo documento».  Al commerciante di Rivoli è stato sequestrato l’intero stock in deposito. E ora sta ai carabinieri del Nucleo Tutela patrimonio culturale di identificarli uno per uno e stabilire in quale archivio vadano collocati.

Fonte: www.lastampa.it/“Bene demaniale”, la sentenza che trasforma la filatelia in reato - La Stampa

Ultimatum dell'Ue a Facebook, Google+ e Twitter: basta con truffe e frodi sui social network

Truffe e frodi, ultimatum dell’Europa a Facebook, Google Plus e Twitter. Un mese di tempo per adeguarsi alle regole a tutela dei consumatori della Ue o dovranno pagare multe. Le condizioni sono state dettate ieri alle tre società nel corso di un incontro con le autorità della Ue per la tutela dei consumatori e la Commissione europea. Al centro della posizione europea, grantire il diritto di recesso per gli acquisti online e la possibilità di presentare denuncia anche nel proprio Stato di residenza. Gli operatori dovranno predisporre entro un mese misure dettagliate su come conformarsi al quadro normativo europeo: se non risulteranno soddisfacenti le autorità potrebbero ricorrere in ultima istanza a misure coercitive. Da parte loro, gli operatori hanno proposto di agire su clausole e condizioni abusive; frodi e truffe che inducono in errore i consumatori. Le autorità a tutela dei consumatori avevano già inviato avvisi alle aziende nel mese di dicembre sostenendo che alcuni dei loro termini di servizio violavano le regole di tutela degli utenti dell'Unione europea. I termini in questione includono l'obbligo per gli utenti di chiedere un risarcimento in tribunale in California, dove hanno sede le società, invece del loro paese di residenza e un potere giudicato “eccessivo” per le società nel determinare l'idoneità di contenuti generati dagli utenti. “Le social media company devono assumersi più responsabilità su truffe e frodi sulle proprie piattaforme – dice Vera Jourová Commissaria Ue alla Giustizia, consumatori e Gender Equality - È l’ora di garantire che in questo settore ci si conformi alle solide norme UE, elaborate appositamente per tutelare i consumatori dalle pratiche sleali. Non è concepibile che i consumatori dell'UE possano solo ricorrere a un tribunale della California per risolvere una controversia, né possiamo accettare che gli utenti siano privati del diritto di recedere da un acquisto online. Gli operatori di social media devono inoltre cominciare ad occuparsi con maggior senso di responsabilità del problema delle truffe e delle frodi perpetrate sulle loro piattaforme". Le richieste europee si inseriscono all’interno della direttiva sulle clausole contrattuali abusive. Che stabilisce fra l'altro che i social non possono privare il consumatore del diritto di rivolgersi a un tribunale dello Stato di residenza; i social media non possono chiedere al consumatore di rinunciare al diritto di recedere da un acquisto online; le clausole di utilizzo non possono limitare la responsabilità del social in relazione alla prestazione del servizio stesso; i contenuti sponsorizzati non possono essere occultati, ma devono essere identificabili in quanto tali; le reti di social media non possono modificare unilateralmente le clausole e le condizioni di utilizzo, senza informare chiaramente il consumatore.

Fonte: www.italiaoggi.it/Ultimatum dell'Ue a Facebook, Google+ e Twitter: basta con truffe e frodi sui social network - News - Italiaoggi

venerdì 17 marzo 2017

Crimini domestici, stop all’eredità per i condannati

Nessuna eredità e diritto alla pensione di reversibilità per chi si macchia di crimini domestici. La Camera ha approvato la proposta di legge che tutela i figli rimasti orfani in seguito a violenze commesse tra le mura di casa. Il provvedimento, che ora passa all’esame del Senato, garantisce tutele maggiori ai figli delle vittime: il patrocinio a spese dello stato, la determinazione di una provvisionale di risarcimento del danno da parte del giudice penale, ma anche il subentro nella titolarità della pensione di reversibilità del genitore ucciso al posto del genitore rinviato a giudizio e, soprattutto, la dichiarazione automatica dell’indegnità a succedere in caso di condanna. La proposta di legge punta a colmare un vuoto normativo che provoca amare beffe nei confronti delle vittime ultime, i figli, che si trovavano a doversi districare nelle maglie della giustizia civile per veder riconosciuta l’in- degnità a succedere del genitore assassino. Attualmente la dichiarazione di indegnità a succedere per l’uccisore del marito o della moglie deve essere pronunciata da un giudice civile, alla conclusione del giudizio penale. Con la proposta, invece, l’obiettivo è di attribuire la competenza allo stesso giudice penale che, in sede di condanna ma anche di patteggiamento della pena.
L’iter è stato avviato grazie agli sforzi di una vittima, Vanessa Mele, giovane di Nuoro che nel 1998 è rimasta orfana di madre, uccisa dal padre. Quando l’uomo ha finito di scontare la pena, infatti, ha ottenuto il riconoscimento della pensione di reversibilità della moglie, togliendola alla figlia, per la quale rappresentava l’unica fonte di reddito.
Il disegno di legge, inoltre, prevede l’inserimento nel codice di procedura penale dell’articolo 537 bis, in base al quale il giudice penale può dichiarare l’indegnità a succedere dell’imputato, qualora ricorra uno dei casi previsti dall’articolo 463 del codice civile ( l’omicidio o il tentato omicidio di coniuge, discendente o ascendente; la calunnia o la falsa testimonianza ai danni degli stessi; l’induzione con dolo o violenza a fare o a modificare il tertamento; la falsificazione di testamento e l’uso di testamento falso). Non solo, oltre all’automatismo nell’esclusione dalla procedura successoria, il provvedimento prevede anche la sospensione del diritto alla pensione di reversibilità nel caso di un imputato di crimine domestico rinviato a giudizio. In questo caso, infatti, a subentrare nella titolarità saranno i figli della vittima minorenni.

Fonte: www.ildubbio.news/Crimini domestici, stop all’eredità per i condannati - Il Dubbio

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