sabato 21 gennaio 2017

Spaccio di lieve entità: le linee guida della Procura di Bologna

Si ricorderà come, poco meno di un triennio addietro, all’indomani della nota sentenza della Corte costituzionale che dichiarò illegittime le previsioni della legge cd. Fini-Giovanardi, si rese necessario l’intervento del legislatore al fine di porre rimedio alla situazione normativa, caotica e di scarsa intelligibilità, originata dalla suddetta pronuncia caducatoria e, insieme, dalla reviviscenza della normativa previgente (id est, la legge cd. Jervolino-Vassalli), reviviscenza che i giudici costituzionali ebbero ad indicare, espressamente, quale effetto scaturente dalla loro decisione. L’intervento legislativo in questione riguardò, tra le altre, anche la disposizione di cui all’art. 73, co. 5, del T.U. stup., concernente i “fatti di lieve entità”, giusto qualche mese prima trasformati in reati “autonomi” dal d.l. n. 146 del 2013, conv., con modif. dalla l. n. 10 del 2014.
In particolare, ad essere interessati dalla riforma furono i limiti edittali contemplati dal comma 5, nell’occasione ulteriormente ridotti: dalle pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da 3.000 a 26.000 euro si è passati, in tal modo, alle vigenti pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da 1.032 a 10.329 euro.
Il carattere compromissorio di tale scelta – che non scontentava i fautori della equiparazione tra droghe pesanti e droghe leggere e che, al contempo, recepiva le istanze di una maggiore mitigazione del trattamento sanzionatorio riservato a queste ultime – ha altresì comportato l’ennesimo affievolimento dello statuto punitivo relativo alle condotte aventi ad oggetto droghe pesanti. Circostanza che – come si ipotizzava in sede di commento all’allora recentissima legge n. 79 del 2014 – avrebbe rischiato di dare l’abbrivio a torsioni interpretative intese a cauterizzare le importanti ricadute che, da lì in avanti, ne sarebbero derivate sul versante delle misure pre-cautelari e cautelari a causa dell’impossibilità – per effetto dei nuovi delta punitivi - di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza e/o di disporre la custodia cautelare in carcere in presenza di fatti sussumibili nel perimetro applicativo dell’art. 73, co. 5, T.U. stup. in vigore.
È in un contesto quale quello appena delineato che paiono inscriversi le recenti direttive operative per l’Ufficio requirente e la polizia giudiziaria - recanti “Oggetto: La disciplina delle sostanze stupefacenti. Problematiche operative e linee di indirizzo” - impartite dalla Procura distrettuale di Bologna lo scorso 3 novembre con l’obiettivo di fare chiarezza in merito alla normativa vigente in materia di stupefacenti e, in particolare, all’esercizio dei poteri “cautelari” da parte delle forze dell’ordine e/o della magistratura, in specie in relazione ai fatti di cd. lieve entità.
Nello specifico – a seguito di un rapido schizzo della disciplina sanzionatoria penale delle sostanze stupefacenti – il documento:
i) illustra le conseguenze che la riduzione dei limiti edittali per i fatti lievi ha recato in termini di (in-)comprimibilità della libertà personale;
ii) si sofferma a dettagliare i presupposti di sussistenza della fattispecie delittuosa dell’art. 73, co. 5, T.U. stup., fornendo istruzioni operative puntuali al fine incoraggiare prese di posizione omogenee;
iii) per poi affrontare la questione – solo apparentemente eccentrica rispetto al tema divisato – della ravvisabilità o meno della circostanza aggravante dell’art. 80, co. 1, lett. g), T.U. stup. nell’ipotesi di spaccio di sostanze stupefacenti che abbia avuto luogo all’interno o in prossimità di una sede universitaria.
Fatti di lieve entità e misure cautelari personali e pre-cautelari
Come si accennava, innanzitutto, il documento si preoccupa di precisare quali misure pre-cautelari e cautelari personali possano essere legittimamente adottate in presenza di fatti di spaccio di cd. lieve entità.
In tal modo, le Linee guida provano a fugare le perplessità – affiorate in una parte dell’opinione pubblica bolognese – circa la pretesa inerzia di polizia giudiziaria e /magistratura a fronte di reiterati episodi di piccolo spaccio in talune note zone della città, tra le quali, in particolare, quella universitaria adiacente a piazza Verdi.
Viene pertanto chiarito come – al cospetto di fatti sussumibili nell’ambito dell’art. 73, co. 5, T.U. stup. – la massima misura coercitiva sia preclusa in ragione del chiaro disposto dell’art. 280, co. 2, c.p.p., potendo essa essere disposta, semmai, solo nel caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti ad altra misura cautelare eventualmente applicata (ex art. 280, co. 3, c.p.p.).
Prima ancora, tuttavia, a risultare impraticabile – salve rare ipotesi - sarebbe lo stesso arresto in flagranza.
E in effetti, da un lato, il legislatore del 2014 ha inciso il testo dell’art. 380, co. 2, c.p.p. – disposizione che, come noto, elenca nominativamente i delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza – escludendo expressis verbis i delitti di cui all’art. 73, co. 5, T.U. stup. dalla sfera di operatività della norma codicistica; dall’altro, l’art. 381 c.p.p., che disciplina i presupposti per l’arresto facoltativo in flagranza di reato, ne subordina in ogni caso la procedibilità alla ricorrenza dei presupposti di cui al comma 4 del medesimo articolo e cioè alla gravità del fatto o alla pericolosità del soggetto, desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto. Requisiti, questi ultimi, difficilmente conciliabili con i tratti caratterizzanti l’ipotesi criminosa di cui all’art. 73, co. 5, T.U. stup. e che, laddove ravvisati, schiuderebbero piuttosto la prospettiva di un’incriminazione ex art. 73, co. 1 o co. 4, del d.P.R. n. 309 del 1990.
In proposito, la circolare della Procura distrettuale, riconosciuta la marginalità dei casi in cui il fatto di reato possa esibire, al contempo, caratteristiche di lievità significative per la sua sussumibilità nella fattispecie del comma 5 e di gravità tali da ritenere passibile di arresto (facoltativo) chi ne sia stato l’autore, propone comunque un’esemplificazione di elementi in grado di deporre nel senso della gravità del fatto/pericolosità del soggetto a fini giustificativi di un arresto facoltativo in flagranza, lasciando immutata la qualificazione del fatto come fatto di lieve entità ai sensi e per gli effetti dell’art. 73, co. 5, T.U. stup. Il riferimento è, in particolare, all’eventuale condizione di ‘pluripregiudicato’ del soggetto colto in flagranza di reato, condizione da intendere soddisfatta – sulla base di quanto è dato inferire dalle indicazioni contenute nel documento – tanto in presenza di precedenti non specifici - non ostativi alla configurabilità del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, co. 5, del d.P,R. n. 309 del 1990 - quanto in presenza di precedenti specifici, ma incapaci di essere dimostrativi di un coinvolgimento strutturato del soggetto nel mercato della droga e della continuità dell’attività illecita perpetrata. In effetti, come si vedrà nel prosieguo, secondo la circolare, laddove i precedenti specifici dell’autore del fatto avessero una tale capacità dimostrativa, la loro contestazione condurrebbe ad una qualificazione della condotta come non lieve, per il qual caso l’arresto in flagranza sarebbe obbligatorio.
Fatti di lieve entità: condizioni di configurabilità della fattispecie
A fronte della rilevata divaricazione degli effetti conseguenti alla qualificazione del fatto come di lieve entità o meno, la Procura distrettuale si premura di fornire talune istruzioni operative in merito alle condizioni in presenza delle quali sarà da ritenere integrata la fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990.
In particolare, sulla premessa che il fatto di lieve entità debba essere apprezzato considerando i mezzi, le modalità e le circostanze dell’azione nonché la qualità e quantità delle sostanze stupefacenti e sull’assunto della replicabilità, in relazione alla nuova fattispecie autonoma, dei principi cardine della valutazione congiunta dei citati parametri e dell’attitudine ostativa della “esorbitanza” anche di solo uno degli stessi - principi, questi, attestatisi con riferimento alla previgente ipotesi circostanziale -, il documento offre importanti indicazioni concrete in ordine:
1) al parametro della quantità;
2) alla controversa questione della eventuale decisività del carattere non episodico della condotta illecita al fine di escludere la lievità del fatto;
3) alla rilevanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 73, co. 5, T.U. stup., delle circostanze relative alla persona del colpevole.
Quanto al primo aspetto, in chiave marcatamente pragmatica ed ispirata dall’esigenza di prevenire disparità di trattamento, la circolare si spinge al punto di indicare – in relazione alle principali sostanze stupefacenti - i quantitativi di droga alla cui presenza sia dato configurare il fatto di lieve entità. Tali quantitativi vengono ricavati all’esito di un ragionamento analogo e speculare a quello sviluppato dalle Sezioni Unite del 2012, che, nella sentenza Biondi, ebbero a concludere per l’impossibilità di reputare integrata l’aggravante della ingente quantità di cui all’art. 80, co. 2, T.U. stup. in presenza di quantitativi inferiori alle 2000 volte la cd. Q.M.D. di sostanza stupefacente oggetto della condotta.
In effetti, recependo un’indicazione che era già nella pronuncia delle citate Sezioni Unite (cfr. Cass., SS.UU., 24 maggio-20 settembre 2012, n. 36258, par. 14.2), la Procura distrettuale felsinea ha indicato in un multiplo di 20 volte la Q.M.D. il valore-soglia idoneo a discriminare, sotto il profilo ponderale “netto” - ovverosia valutato in termini di principio attivo di sostanza -, i fatti di reato di cui al comma 1 da quelli di cui al comma 5 dell’art. 73 del T.U. stup. Tale moltiplicatore però riguarderebbe soltanto le cc.dd. droghe pesanti, la Procura avendo ritenuto di dover raddoppiare il moltiplicatore in relazione ai derivati della cannabis, siccome inclusi tra le cc.dd. droghe leggere. Tale raddoppio del fattore moltiplicativo – sebbene non manchi di suscitare delle perplessità, poichè operato in relazione ad una fattispecie, quale quella di cui all’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990, rispetto alla quale il legislatore avrebbe ribadito la volontà di non tributare importanza alla tabella di appartenenza della sostanza – si allineerebbe alle precisazioni formulate di recente da Cass. pen., sez. III, 28 settembre-14 novembre 2016, n. 47978 circa la “svista” in cui sarebbero incorse le Sezioni Unite nella sentenza Biondi assumendo a riferimento, per hashish e marijuana, la Q.M.D. di 1000 mg. piuttosto che quella di 500 mg.
Accanto ai quantitativi di principio attivo, espressi in grammi, le Linee guida fissano poi le quantità di sostanza “lorda” (id est, il cd. peso lordo complessivo) in grado di contenere gli indicati quantitativi di principio attivo e calcolate - per quanto è dato leggere nel documento in commento - assumendo a valore percentuale di riferimento la concentrazione media di principio attivo rintracciabile nelle “dosi di strada” delle sostanze stupefacenti interessate.
Sul punto, ci limitiamo ad osservare che, in merito all’indicazione dei quantitativi lordi, i quali, come si intuisce sono quelli immediatamente apprezzabili dagli operanti, la circolare, sebbene contribuisca a rendere più fruibili le istruzioni operative fornite, evidenzierebbe taluni elementi di incongruità nella misura in cui ricava le quantità lorde in parola da concentrazioni medie diverse - talvolta più basse, talaltra più alte - rispetto a quelle (pari a oltre il 50% per la cocaina, al 25% per l’eroina, al 5% per l’hashish) prese in considerazione dalle citate Sezioni Unite Biondi per l’enucleazione del fattore moltiplicativo (20 volte la Q.D.M.), che la medesima Procura distrettuale, come si è visto sopra, fa proprio, quantomeno in relazione alle cc.dd. droghe pesanti.
In merito alla cennata questione della non occasionalità della condotta illecita e della sua eventuale attitudine ostativa alla ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, del T.U. stup., il documento in commento - tratteggiate le due antitetiche opzioni esegetiche rinvenibili nella giurisprudenza – conclude, in linea con la giurisprudenza di legittimità, per la conciliabilità – in linea di principio – del carattere non episodico della condotta con l’ipotesi delittuosa divisata, la quale, in ogni caso, alla stregua di una doverosa valutazione grandangolare di tutte le circostanze di specie, dovrà considerarsi esclusa – questa nello specifico l’indicazione operativa offerta dalla Procura bolognese - quando, nonostante il numero modesto di dosi “spacciato” di volta in volta, risulti l’inserimento del soggetto nell’ambiente dei traffici illeciti ovvero le modalità di approvvigionamento e di custodia delle sostanze o quelle di contatto con gli acquirenti denotino la presenza di una struttura organizzata (sulla compatibilità dell’ipotesi di lieve entità con l’esercizio in forma organizzata, cfr., però, tra le altre, Cass. pen., sez. III, 27 marzo–18 maggio 2015, n. 20410; sez. VI, 18 luglio-4 ottobre 2013, n. 41090).
In ultimo, venendo rapidamente al terzo profilo problematico, attinente, come già accennato, alla questione della rilevanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 73, co. 5, T.U. stup., delle circostanze concernenti la persona del colpevole, la circolare, in sintonia con un consolidato orientamento giurisprudenziale, ribadisce la necessità di valorizzare, oltre a quelli di ordine oggettivo e a patto che esibiscano una immediata correlazione con l’attività criminosa contestata, tutti gli elementi di ordine soggettivo, attribuendo rilievo, in particolare, alla finalità dell’attività delittuosa (cessione con finalità di lucro vs. cessione senza finalità di lucro), alla condizione soggettiva del reo (tossicodipendente, tossicodipendente-spacciatore o esclusivamente spacciatore), alla mancanza, se del caso, di precedenti specifici.
L’indicazione operativa che ne viene fatta derivare è quella per cui «è utile soffermare l’attenzione sulla personalità del soggetto, quando questa riverberi i propri effetti sulla gravità della condotta [recidiva specifica, in grado di dimostrare il coinvolgimento strutturato del soggetto nel mercato illecito e la continuatività dell’attività illecita], sia sulle motivazioni della condotta [valorizzando negativamente sia la finalità di lucro sia il fatto che non si tratti di tossicodipendente “indotto” cioè a smerciare per soddisfare il proprio fabbisogno personale].
Corrisponde poi ad un’esigenza immediatamente pratica l’ulteriore istruzione relativa alla riconosciuta possibilità per la polizia giudiziaria - che nell’immediato non disporrebbe dei precedenti penali della persona – di soffermarsi, dandone opportuna indicazione nella denuncia e/o nel verbale di arresto, sui precedenti specifici di polizia, i quali potranno contribuire a qualificare il fatto, specie laddove reiterato ed abituale, in termini di gravità, a prescindere dai quantitativi di sostanza stupefacente.
Fatto di lieve entità e aggravante dell’offerta o cessione effettuata all'interno o in prossimità di scuole di ogni ordine o grado o di comunità giovanili
La terza questione affrontata dalla Procura distrettuale concerne il controverso tema della ravvisabilità o meno dell’aggravante dell’art. 80, co. 1, lett. g), T.U. stup. nell’ipotesi di spaccio di sostanze stupefacenti verificatosi in prossimità di una sede universitaria.
In proposito, la soluzione abbracciata è quella favorevole alla configurabilità dell’aggravante, considerate, ad opinione della Procura, la ratio di tutela e il dato testuale della previsione ex art. 80, co. 1, lett. g). Quest’ultimo, in effetti, mirerebbe a preservare dal fenomeno della diffusione degli stupefacenti comunità notoriamente più vulnerabili perché costituite da persone maggiormente a rischio a motivo della giovane età o di peculiari condizioni soggettive; inoltre, dal punto di vista letterale, pur a voler trascurare il fatto che il sintagma «scuole di ogni ordine e grado» non possa non ricomprendere anche l’Università, quest’ultima – secondo la tesi espressa – sarebbe «una [la] tipica comunità giovanile» cui la disposizione farebbe riferimento.
L’opzione ricostruttiva accolta nel documento della Procura distrettuale, tuttavia, non ha ricevuto – a quanto è dato di sapere – consensi unanimi.
Nella magistratura giudicante, in effetti, si sono date due letture antitetiche della disposizione in parola.
In particolare, all’orientamento giurisprudenziale che ha reputato condivisibile un’impostazione accusatoria declinata secondo quanto affermato nella circolare se ne è contrapposto un altro, in base al quale l’università non potrebbe essere ricondotta né al novero delle “scuole di ogni ordine e grado”,né essere considerata una comunità giovanile (così, in particolare, G.I.P. Bologna, ord. 17 novembre 2016, giud. Magliaro).
Le ragioni di un tale approdo interpretativo risiederebbero nella inidoneità dello stesso dato letterale a supportare conclusioni di tenore diverso. In effetti, quanto alla irriducibilità dell’università ad una scuola, si è osservato come l’ordinamento, nel suo complesso, sia incardinato sulla distinzione tra “scuole” (di ogni ordine e grado) e “università”: in tal senso, l’art. 33 Cost., che, nei suoi primi quattro commi, farebbe riferimento alle scuole, mentre, solo nel quinto comma, alle università, evidentemente considerate diverse (rectius: non ricomprese) nelle prime; il d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, recante l’“Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado”, che non ha riguardo all’università, disciplinando solamente le scuole, dalle materne alle medie superiori; la nomenclatura ministeriale, la quale, nel definire i nomi dei dicasteri, ha sempre tenuto distinti i concetti di istruzione e di università.
Per converso, quanto alla impossibilità di parlarne come di comunità giovanile, mancherebbe all’università - si è sostenuto - la natura di “entità collettiva presente - in modo stabile, residenziale o comunque non estemporaneo - in un luogo ad essa esclusivamente dedicato”, natura propria, invece, di una comunità giovanile; inoltre, l'istituzione universitaria consterebbe di una complessità e di un’articolazione di sedi, di compiti e, persino, di attività di tipo amministrativo, che richiedono l'impiego di persone di svariate età e non solo giovani.
Ci sembra che entrambe le posizioni, per come espresse, sollevino delle perplessità.
Quella da ultimo riportata, probabilmente più condivisibile negli esiti, accentuerebbe in maniera incongrua - rispetto al concetto di comunità giovanile e, diremo, di comunità in generale – il requisito – reputato persino dirimente - della presenza non estemporanea di una molteplicità di giovani persone in un luogo ad esse dedicato in via esclusiva.
Quella sostenuta dalla Procura, viceversa, si dimostrerebbe apodittica nella parte in cui reputa sussistenti, a supporto della tesi “estensiva”, «inequivoche indicazioni letterali», che davvero inequivoche, in effetti, non sono poi risultate.
Conclusioni
Nella presente sede, non è possibile sviluppare le pur numerose suggestioni offerte dalla lettura delle istruzioni operative fornite dalla Procura distrettuale bolognese in merito alle fattispecie di cui agli artt. 73, co. 5, e 80, co. 1, lett. g), d.P.R. n. 309 del 1990.
Ci limitiamo pertanto a qualche fugace considerazione.
La prima si riconnette a quanto veniva detto in ordine alla mitigazione – ad opera del legislatore nel 2014 - del limite edittale massimo previsto per l’ipotesi di lieve entità e alle sue conseguenze in termini di ostatività all’adozione della misura pre-cautelare obbligatoria e di quella cautelare più restrittiva e concerne l’ulteriore rivisitazione del trattamento sanzionatorio riservato alla fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, T.U. stup., in una prospettiva de iure condendo, dal cd. d.d.l. “Giachetti”, recante “Disposizioni in materia di legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis e dei suoi derivati” (3235). In effetti, l’art. 3, co. 1, lett. b), di tale disegno di legge punterebbe a reintrodurre, anche per l’ipotesi lieve, un doppio binario sanzionatorio che, per le droghe pesanti, vedrebbe il limite edittale innalzato a sei anni di reclusione e, per le leggere, ridotto a tre. Con conseguente sdrammatizzazione, per le prime, e acutizzazione, per le seconde, delle implicazioni di cui si è dato conto in precedenza. In effetti, in relazione alle cc.dd. droghe pesanti, ferma l’impossibilità di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza, si darebbero tuttavia i presupposti per l’adozione della misura cautelare custodiale carceraria; in relazione alle cc.dd. droghe leggere, per effetto dell’ulteriore riduzione del limite edittale massimo, non solo verrebbe confermata l’impossibilità di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza e all’adozione della massima misura cautelare custodiale, ma ne conseguirebbe il più radicale divieto di adozione di qualsivoglia misura cautelare personale coercitiva.
La seconda osservazione riguarda il carattere non isolato del tentativo, operato dalla Procura bolognese, di “standardizzare” i quantitativi – espressi sia in termini di principio attivo che di peso complessivo lordo della sostanza – compatibili con una caratterizzazione del fatto come di lieve entità. In merito, si segnala l’analoga e precedente iniziativa della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 13 maggio 2016, che nel documento recante “Direttive in materia di stupefacenti”, ha giudicato «essere ragionevole apprezzare, salva la valutazione di tutte le altre circostanze, la sussistenza dell'ipotesi di cui al quinto comma, in presenza di quantitativi calcolati moltiplicando per 5 la Q.M.D. (quantità massima detenibile) per le droghe pesanti e per 10 per le droghe leggere», pervenendo a risultati sensibilmente disomogenei rispetto alle indicazioni fornite sul punto nelle istruzioni operative della Procura bolognese anche in relazione ai quantitativi cc.dd. lordi.
La terza riflessione concerne la circostanza che le Linee guida della Procura distrettuale felsinea, pur muovendo dal presupposto della compatibilità – in linea teorica - tra l’ipotesi circostanziale dell’offerta o cessione effettuata all'interno o in prossimità di scuole di ogni ordine o grado o di comunità giovanili con la fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, T.U. stup., ammettono che la ricorrenza della prima – poichè in grado di riflettersi sulle “modalità” e “circostanze” dell’azione – ben possa rappresentare oggetto di quell’apprezzamento congiunto di cui si è parlato nei paragrafi precedenti e condurre alla esclusione della stessa lievità del fatto, con conseguente ravvisabilità, a quel punto, dei presupposti sia per l’arresto obbligatorio in flagranza che per l’applicabilità della misura custodiale.
Ebbene, una volta aderito alla tesi della configurabilità, nell’ipotesi di spaccio nei pressi o all’interno di una sede universitaria, dell’aggravante di cui all’art. 80, co. 1, lett. g), T.U. stup., a nostro sommesso avviso, andrebbero poi forse meglio meditate le affermazioni della Corte di cassazione, in base alle quali, in via generale, «in materia di reati concernenti le sostanze stupefacenti, […] il principio di specialità impedisce che gli elementi considerati» ai fini del riconoscimento (o meno) dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, «possano essere identificati in quelle altre situazioni valutate astrattamente dal legislatore come autonome circostanze attenuanti o aggravanti» (così Cass. pen., sez. VI, 29 novembre 1993, n. 10947, Cappelli, rv. 195891).

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/Spaccio di lieve entità: le linee guida della Procura di Bologna | Quotidiano Giuridico

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