domenica 29 gennaio 2017

Italicum: no al ballottaggio, sì al premio di maggioranza

La Corte Costituzionale si è espressa in merito alle questioni di costituzionalità della legge elettorale per la Camera dei Deputati (cd. "Italicum", legge 6 maggio 2015, n. 52), sollevate dai tribunali di Messina, Torino, Genova, Perugia e Trieste.
In particolare, sono stati bocciati ballottaggio e scelta discrezionale del collegio di elezione in caso di candidatura plurima (sopravvive quindi il criterio residuale del sorteggio), mentre la Consulta ha salvato il premio di maggioranza.
È questa la decisione della Corte Costituzionale i cui giudici spiegano in una nota: "All'esito della sentenza la legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione".
Con un comunicato precedente la Consulta aveva elencato tutte le censure proposte da ciascuno dei cinque tribunali rimettenti; questi i nodi principali affrontati dalla Corte:
Premio di maggioranza e ballottaggio: l'attribuzione del premio di maggioranza (340 seggi), al primo turno di votazione, alla lista che ha ottenuto il 40%, calcolando tale percentuale sui votanti e non sugli aventi diritto al voto o, al secondo turno di ballottaggio tra le prime due liste del primo turno, esclusa ogni forma di collegamento tra liste o di apparentamento tra i due turni di votazione; altra censura riguarda la clausola di sbarramento che esclude dall’attribuzione dei seggi le liste che non abbiano superato la soglia del 3% dei voti validi.
Liste bloccate: il sistema prevede la composizione delle liste con un candidato bloccato e gli altri scelti con voto di preferenza.
Soglia di sbarramento: altra contestazione riguardava la previsione di soglie di sbarramento diverse per le elezioni tra Camera e Senato.
Scelta del collegio da parte del candidato eletto: una norma censurata da più tribunali era quella che consente al candidato capolista eletto in più collegi plurinominali di scegliere il collegio in cui essere proclamato eletto in base ad una mera valutazione di opportunità e non in base a a criterio oggettivo e predeterminato.
Si ricorda inoltre che la Corte Costituzionale, con la sentenza 13 gennaio 2014, n. 1, aveva bocciato la precedente legge elettorale per la Camera ed il Senato (legge 21 dicembre 2005, n. 270, altrimenti nota come "Porcellum") essenzialmente per due motivi: l'eccessivo premio di maggioranza e il sistema delle liste bloccate.

Fonte: www.altalex.com/Italicum: no al ballottaggio, sì al premio di maggioranza | Altalex

Danno da insidia stradale: per il risarcimento la testimonianza di un familiare è sufficiente

Il Comune, in base al principio della responsabilità oggettiva, risponde dei danni provocati a pedoni ed automobilisti dalle insidie stradali dovute all’inadeguata o mancata manutenzione.
Chi ad esempio cade a causa di una buca o di un tombino riportando rilevanti lesioni fisiche può chiedere il risarcimento del danno al Comune dimostrando la presenza di alcune circostanze quali l’inadeguata segnalazione dell’insidia, l’impossibilità di evitarlo o prevederlo con l’ordinaria diligenza, e ancora il cosiddetto nesso di causalità ovvero che l’infortunio sia stato provocato unicamente dall’insidia stradale e non da altre circostanze.
Per ottenere la liquidazione del risarcimento è necessario, inoltre, dimostrare e quantificare l’entità del danno riportato attraverso ad esempio un referto del pronto soccorso o, meglio ancora, di un medico legale.
La citazione di eventuali testimoni è consigliabile, anche se una recente sentenza della Corte di Cassazione – la n.14706 del 19 luglio – ha chiarito un aspetto particolarmente significativo sottolineando che la mancata indicazione del teste nella citazione non preclude la domanda di risarcimento del danno.
Gli Ermellini si sono pronunciati in merito alla vicenda di un cittadino che dopo esser inciampato in un tombino, riportando dei danni fisici, ha citato in giudizio il comune per chiedere il risarcimento. Il cittadino ha deciso di ricorrere in Corte di Cassazione dopo che la Corte d’Appello aveva rigettato il suo ricorso ritenendo non adeguatamente dimostrato il verificarsi della caduta nel tombino.
In secondo grado di giudizio i giudici avevano infatti ritenuto inattendibile, in assenza di una decisiva prova documentale, la testimonianza di un familiare, peraltro non indicato da subito dal ricorrente nell’atto di citazione.
La Suprema Corte ha evidenziato che la circostanza che il testimone fosse il fratello dell’infortunato non rendesse di per sé inattendibile la testimonianza. Infatti una volta che viene meno il divieto di testimoniare previsto dall’articolo 247 c.p.c. il giudice del merito non può di certo inficiare la credibilità dalla testimonianza del parente, proprio in quanto tale.
I giudici di legittimità hanno inoltre hanno ritenuto che in tali casi non è necessaria la prova documentale, consistente magari nel referto del pronto soccorso, in quanto la testimonianza non presuppone necessariamente dei riscontri esterni a suo supporto, salvo che si tratti di ‘testimonianza de relato’.
Infine la Cassazione ha statuito che se nell’istanza istruttoria di prova testimoniale non viene indicato subito il nome del teste, lo stesso può essere successivamente indicato entro i termini previsti, per il completo espletamento delle istanze istruttorie, dall’articolo 183, VI comma, secondo termine del codice di procedura civile.

Fonte: www.responsabilecivile.it/Danno da insidia stradale, risarcimento anche se il teste non è indicato in citazione - Responsabile Civile

Uccise la moglie e i due figli, rinuncia all’appello e scrive ai giudici: “Giusto l’ergastolo”

Nel 2014 uccise moglie e figli a Motta Visconti (Milano), poi andò a vedere la partita dell’Italia al bar. Condannato in primo grado all’ergastolo, ora Carlo Lissi ha scritto alla Corte d’Appello di Milano dal carcere di Pavia dove è detenuto per dire che rinuncia all’appello e che merita la pena.
Il 34enne perito informatico - che all’epoca si era invaghito di una giovane collega, che non lo corrispondeva - il 14 giugno 2014 uccise la moglie Maria Cristina Omes e accoltellò i figli Giulia, di 5 anni, e Gabriele, di 20 mesi.
Il 18 gennaio 2016 la sentenza di primo grado lo aveva condannato al carcere a vita. Rinunciando all’appello ha anche chiesto scusa ai giudici «per la perdita di tempo».
«Non può che lasciarci soddisfatti» perché dimostra che la condanna è servita «per portare Lissi ad un reale pentimento» hanno detto Domenico Musicco, legale della mamma di Cristina, Giuseppina Redaelli. La lettera «è stata scritta spontaneamente e non l’ha concordata con il suo avvocato», spiega Musicco. Evidentemente, aggiunge, lui stesso ha maturato «quello che avevamo detto in primo grado, e cioè che per dimostrare un reale pentimento Lissi avrebbe dovuto chiedere per sé l’ergastolo, anche in contrasto con il suo difensore. La condanna che ha ricevuto gli è servita a farlo pentire». Ma «è anche la prova che quando le pene vengono comminate in modo giusto, servono non solo come deterrente, ma anche al recupero dell’imputato». Questa notizia «alleggerirà i famigliari del loro grande dolore» conclude l’avvocato.

Fonte: www.lastampa.it/Uccise la moglie e i due figli, rinuncia all’appello e scrive ai giudici: “Giusto l’ergastolo” - La Stampa

sabato 28 gennaio 2017

Autovelox: la mancata segnalazione è sufficiente per non pagare la multa

Tra i requisiti di legittimità di una sanzione amministrativa per eccesso di velocità comminata a seguito di rilevamento tramite sistema autovelox, vi è anche l'indispensabile preventiva segnalazione dello stesso. Ciò, sia nel caso in cui il dispositivo sia fisso che nel caso in cui sia mobile.
La segnalazione, poi, deve rispettare determinate prescrizioni.
Innanzitutto, anche se non importa che i cartelli siano fissi o temporanei, è fondamentale che essi siano sempre ben visibili.
La loro dicitura, inoltre, deve essere chiara e indicare, senza possibilità di equivoci, che la zona è sottoposta a "controllo elettronico della velocità".
La distanza minima dell'avvertimento dal dispositivo infine, basandosi sulla velocità usuale del particolare tratto di strada, deve essere tale da permettere all'automobilista di avvistare l'autovelox con tempestività ed è quindi di almeno 250 metri sulle autostrade e le strade extraurbane principali, di almeno 150 metri sulle strade extraurbane secondarie e sulle strade urbane di scorrimento con limiti di velocità superiori a 50 km/h e di almeno 80 metri su tutte le altre strade. La distanza massima, invece, è di 4 chilometri.
Purtroppo, però, nella prassi tali prescrizioni non sempre sono rispettate, con la conseguenza che molte delle multe elevate agli automobilisti a seguito di accertamento tramite autovelox sono illegittime.
In alcuni casi, almeno, ci pensano i giudici ad annullarle.
Recentemente lo ha fatto anche il Giudice di pace di Alba che, con la sentenza numero 415/2016, si è pronunciato sul ricorso presentato da un cittadino avverso un verbale di polizia locale notificatogli per superamento dei limiti di velocità, nel quale l'automobilista eccepiva sia la carenza di regolare notifica, sia l'illegittima mancata contestazione immediata, sia l'omessa segnalazione della postazione di rilevamento.
Per il Giudice di Pace basta la mancata prova, da parte dell'ente accertatore, circa l'apposizione di segnaletica mobile prima della postazione autovelox predisposta per poter accogliere l'opposizione al verbale impugnato.
Le spese, però, sono compensate.

Fonte: www.StudioCataldi.it/Autovelox: la mancata segnalazione è sufficiente per non pagare la multa

“Quando lo spazzolino non c’è” la gomma non risolve il problema: la pubblicità è ingannevole

L’AGCM sanziona una famosa società che accomuna il consumo dei suoi prodotti all’igiene orale e dentale, proponendo uno scenario in cui questi ultimi sarebbero sostituibili completamente ai normali strumenti di pulizia, se non addirittura alle visite odontoiatriche. Rivisitando il panorama normativo in tema di pubblicità ingannevole e pratica commerciale scorretta, il TAR conferma la legittimità del provvedimento dell’Autorità (sentenza n. 62/17 depositata il 3 gennaio).
Il caso. Una nota società di produzione e distribuzione di caramelle e gomme da masticare veniva condannata dall’AGCM per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette ed ingannevoli, punite con due sanzioni pecuniarie ammontanti, in totale, a 180.000 €.
Meritevole di sanzione, a parere dell’Autorità, era stata la diffusione di vari messaggi pubblicitari, sia tramite media tradizionali che tramite internet, che descrivevano alcuni particolari benefici derivanti dalla consumazione dei loro prodotti dolciari. La società, infatti, nei suoi spot sembra suggerire che masticare gomme quali le Daygum Protex, le Vivedent Xyilit, le Daygum XP e le Mentos comporti dei benefici salutistici e favorenti l’igiene orale e dentale, al punto tale esser presentate come «assimilabili o sostituibili alle normali pratiche di pulizia orale» e alla necessità di recarsi negli studi odontoiatrici.
Il chewing gum al posto del dentista. Avverso il provvedimento dell’Autorità proponeva ricorso la società. Secondo il ricorrente l’AGCM non avrebbe accertato in maniera corretta i profili di ingannevolezza censurati, né avrebbe compiutamente motivato le ragioni di scorrettezza della pratica, «avendo in sostanza utilizzato argomentazioni generiche e omnicomprensive». In realtà, secondo il TAR, gli esempi di spot dedotti in giudizio e singolarmente analizzati dall’AGCM contengono «quella sostanziale equiparazione dell’assunzione della gomma da masticare all’utilizzo dello spazzolino da denti». Ciò è rinvenibile anche nei vari slogan utilizzati, nei quali non si sottolinea l’eccezionalità della sostituzione della gomma da masticare agli ordinari strumenti di igiene.
Poiché per le violazioni summenzionate, punite dal codice del consumo, è prevista una forbice sanzionatoria che va dai 5.000 ai 500.000 € parametrata alla durata e gravità della condotta, secondo il Tribunale non appare manifestamente irragionevole né ingiusta la sanzione comminata alla società ricorrente.
Per questi motivi il ricorso deve essere respinto.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/“Quando lo spazzolino non c’è” la gomma non risolve il problema: la pubblicità è ingannevole - La Stampa

Unioni civili, validi in Italia i matrimoni all'estero

Il matrimonio celebrato all'estero tra cittadini italiani dello stesso sesso trova riconoscimento in Italia, per quanto non come un matrimonio vero e proprio, perché nel nostro Paese il matrimonio tra persone dello stesso sesso non esiste, ma come unione civile. Viene così superata quella situazione paradossale per cui due persone legate da un matrimonio perfettamente valido in un Paese straniero risultavano giuridicamente dei perfetti estranei nel nostro Paese. Se due persone dello stesso sesso si sposano all'estero, quindi, per l'ordinamento italiano costituiscono una unione civile e alla loro unione si applica la legge italiana. Il che non realizza il cosiddetto “matrimonio egualitario” che alcuni speravano ma, secondo lo spirito della legge sulle unioni civili, rappresenta il compromesso politico che ne ha consentito l'approvazione da parte del Parlamento.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Unioni civili, validi in Italia i matrimoni all'estero

venerdì 27 gennaio 2017

Al via lo sciopero dei giudici di pace: rinviati oltre 100.000 processi

In concomitanza con l’inaugurazione dell’anno giudiziario è cominciato lo sciopero dei giudici di pace. È il terzo sciopero consecutivo della categoria da novembre 2016. «Ne seguiranno altri con cadenza mensile sin quando il Governo ed il ministro Orlando non declineranno dalla loro incostituzionale ed inaccettabile volontà demolitrice della Giustizia di Pace, ossia gli unici uffici giudiziari in Italia che, almeno sinora, hanno garantito un giusto processo nel rispetto dei termini di ragionevole durata stabiliti dalla legge Pinto e dalla giurisprudenza della Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo (i processi civili e penali dinanzi al giudice di pace durano, in media, meno di un anno, in linea con i Paesi europei più all’avanguardia nella tutela dei diritti, come Francia, Germania, Regno Unito)». Lo dichiara l’associazione nazionale giudici di pace (Unagipa).
Lo sciopero si protrarrà per una settimana sino al 1° febbraio. Le adesioni sull’intero territorio nazionale sono superiori al 90%, con punte in numerosi uffici sino al 100%. In conseguenza dello sciopero slitterà la trattazione di circa 150.000 processi civili e penali, «un disservizio inevitabile dinanzi all’irragionevolezza del ministro della Giustizia Orlando», sostiene l’Unagipa.
Le organizzazioni dei giudici di pace «hanno già predisposto una denuncia diretta alla Commissione Europea ed alla Corte di Giustizia Europea contro il governo italiano in quanto il ministro Orlando si rifiuta di dare attuazione alla sentenza del Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, che riconosce i diritti rivendicati dai giudici di pace, decisione che nell’ordinamento internazionale, comunitario ed interno ha la stessa efficacia delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo».

Fonte: www.masterlex.it/Al via lo sciopero dei giudici di pace: rinviati oltre 100.000 processi - Masterlex

martedì 24 gennaio 2017

Agenzia delle Entrate: Le successioni debuttano online

Anche la dichiarazione di successione passa dal mondo analogico a quello digitale. È infatti online, sul sito dell'agenzia delle Entrate, il software per compilare in forma telematica questo modello: e se fino al 31 dicembre 2017 sarà indifferente l'utilizzo del modello cartaceo o di quello digitale, con il 1° gennaio 2018 il vecchio modulo di carta non si potrà più utilizzare, se non per le successioni apertesi in data anteriore al 3 ottobre 2006, nonché per le dichiarazioni integrative, sostitutive o modificative di una dichiarazione presentata con il sistema cartaceo. È quanto stabilito da un provvedimento del direttore dell'agenzia delle Entrate del 27 dicembre 2016.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Le successioni debuttano online

Omesso mantenimento del figlio. Non è reato se i genitori sono conviventi

La norma secondo cui, in caso di violazione degli obblighi di natura economica in tema di mantenimento dei figli si applicano le pene previste per il reato di violazione degli obblighi di assistenza famigliare, non può applicarsi quando non sia stato posto in essere il matrimonio ma sussista solo un legame di convivenza tra i genitori.
Il caso. La Corte di Cassazione ha così annullato senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato, la sentenza con cui la Corte d’appello di Trieste condannava a mesi due di reclusione e € 200 di multa l’imputato al quale veniva contestato il fatto di aver versato, nel periodo da marzo 2010 a dicembre 2011, alla ex convivente la somma di euro 150 mensili, anziché quella di euro 350 fissata dal Tribunale per i minorenni, per il mantenimento del figlio minorenne, oltreché per aver omesso di versare la quota del 50% delle spese mediche e straordinarie (quota sempre stabilita dal giudice).
Nelle motivazioni si legge che la norma in esame, in forza della quale «in caso di violazione degli obblighi di natura economica si applica l’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898», deve essere letta nel contesto delle disciplina dettata dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 e, in particolare, l’art. 4, comma 2, che recita «le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio».
Genitori non coniugati. La norma introdurre dunque una distinzione tra le diverse classi di ipotesi: precisamente, le disposizioni della legge n. 54 del 2006 sono indicate come da applicare non «in caso di figli di genitori non coniugati» – come, invece, in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio – ma «ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati».
Conclude quindi la Corte che, se in caso di separazione dei genitori coniugati, ovvero di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio si applicano tutte le disposizioni previste dalla legge 54 del 2006, per i figli di genitori non coniugati il riferimento ai procedimenti relativi agli stessi assolve alla funzione di circoscrivere l’ambito delle disposizioni applicabili esclusivamente a quelle concernenti i procedimenti indicati nella citata legge, ossia quelli civili di cui all’art. 2, e non alle norme di diritto penale sostanziale.

Fonte: www.ilpenalista.it/Omesso mantenimento del figlio. Non è reato se i genitori sono conviventi - La Stampa

domenica 22 gennaio 2017

Capacità e diritti delle persone fisiche nel diritto internazionale privato

La capacità di porre in essere un negozio giuridico è la prima cosa che va analizzata. Spesso si affrontano situazioni giuridicamente complesse ma ci si dimentica di controllare se le persone, fisiche, per quel che ci interessa ora, abbiano la capacità per porre legalmente in essere ciò che stanno facendo o di assumersi le responsabilità che ne conseguono.
In Italia è il Codice Civile ad indicare le due tipologie di capacità esistenti e a disciplinarle, e precisamente l’articolo 1 in merito alla capacità giuridica e l’articolo 2 in merito alla capacità di agire.
Secondo l’art. 1 cod. civ. la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita.
L’art. 2 cod. civ., disciplinando la capacità d’agire, dispone che la maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno, e che con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa, come ad esempio per il maggiore emancipato.
Il codice civile fa salve le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro.
La legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) disciplina nel capo II del titolo III il diritto applicabile relativamente a Capacità e diritti delle persone fisiche, nel caso venissero riscontrati elementi di estraneità nella situazione in oggetto.
Gli articoli 20 e 23 della L. 218/1995 dispongono, quale criterio generale per determinare il diritto applicabile, in relazione a capacità giuridica e d’agire delle persone fisiche, la legge nazionale del soggetto, ovvero la nazionalità, come altresì per i diritti della personalità.
La capacità giuridica delle persone fisiche, comprese le condizioni speciali di capacità, è regolata dalla loro legge nazionale (art. 20).
La capacita' di agire delle persone fisiche e' regolata dalla loro legge nazionale. Lo stesso vale quando la legge regolatrice di un atto prescrive condizioni speciali di capacita' di agire.
In relazione a contratti tra persone che si trovano nello stesso Stato, la persona considerata capace dalla legge dello Stato in cui il contratto e' concluso puo' invocare l'incapacità derivantedalla propria legge nazionale solo se l'altra parte contraente, al momento della conclusione del contratto, era a conoscenza di tale incapacita' o l'ha ignorata per sua colpa; in relazione agli atti unilaterali, la persona considerata capace dalla legge dello Stato in cui l'atto e' compiuto puo' invocare l'incapacita' derivante dalla propria legge nazionale soltanto se cio' non rechi pregiudizio a soggetti che senza loro colpa hanno fatto affidamento sulla capacita' dell'autore dell'atto. Dette due ultime eccezioni non si applicano agli atti relativi a rapporti di famiglia e di successione per causa di morte, ne' agli atti relativi a diritti reali su immobili situati in uno Stato diverso da quello in cui l'atto e' compiuto.
In relazione alla “commorienza”, quando occorre stabilire la sopravvivenza di una persona ad un'altra e non consta quale di esse sia morta prima, il momento della morte si accerta in base alla legge regolatrice del rapporto rispetto al quale l'accertamento rileva.
Pertanto se, ad esempio, è necessario analizzare la successione di Tizio e Caio, deceduti insieme in un incidente stradale, bisognerà far riferimento alla legge regolatrice del rapporto di cui si tratta. Se fosse la legge italiana, si applica il disposto di cui all’art. 4 del codice civile, secondo il quale “quando un effetto giuridico dipende dalla sopravvivenza di una persona a un'altra e non consta quale di esse sia morta prima, tutte si considerano morte nello stesso momento”.
Presupposti ed effetti di scomparsa, assenza e morte presunta di una persona sono regolati dalla sua ultima legge nazionale.
L'esistenza ed il contenuto dei diritti della personalità sono regolati dalla legge nazionale del soggetto; tuttavia i diritti che derivano da un rapporto di famiglia sono regolati dalla legge applicabile a tale rapporto. Le conseguenze della violazione di detti diritti sono regolate dalla legge applicabile alla responsabilità per fatti illeciti.
Il primo elemento da verificare, in qualsiasi situazione, è l’età del soggetto. Può innanzitutto trarre in inganno il fatto che nella maggior parte del mondo la maggiore età, ovvero l’età in cui si acquista la capacità d’agire, è 18 anni, ma ciò non è così ovunque. La conseguenza di un omesso semplicissimo controllo può essere molto grave, con il rischio di inficiare l’intera validità del contratto.
In Spagna ad esempio la maggiore età è prevista a 18 anni dall’articolo 12 della Costituzione, ma vi sono eccezioni, con innalzamento di età in alcuni casi in materia di adozione.
In alcuni stati, come ad esempio nel Stati Uniti d’America, non vi è la stessa differenza tra capacità giuridica e capacità di agire. Inoltre negli U.S.A. la “capacità di agire” (ovvero la loro equivalente) dipende dalla legislazione di ogni singolo stato federale, seppur in generale l’età sia mediamente quella dei 18 anni.
Ultimo consiglio è porre attenzione alla religione. Vi sono stati che mischiano legge e religione e ciò crea una serie di confusioni, alle quali stare molto attenti. Mentre Secondo le regole internazionali, tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo, la piena responsabilità penale e la maggiore età si acquistano con il compimento dei 18 anni, in IRAN ad esempio, la legge rimanda alla Shari'a islamica. Le leggi iraniane definiscono un bambino come un individuo che non ha raggiunto l'età della maturità sotto Shari'a islamica, fissando l'età della maturità a 9 anni lunari per le ragazze e 15 anni lunari per i ragazzi.

Fonte: www.altalex.com/Capacità e diritti delle persone fisiche nel diritto internazionale privato | Altalex

Nordio: Il giudice sbaglia? Va rimosso più che multato

Dopo soli due mesi dalla sua promulgazione, la legge sulla responsabilità civile dei magistrati finisce già davanti alla Corte Costituzionale. Lo ha deciso un giudice civile di Verona, lamentandone l’indeterminatezza e il rischio che possa condizionare il corso e l’esito dei processi. È presumibile che questa iniziativa sia seguita dalle inevitabili polemiche dovute alla singolarità del problema. Si dirà che i giudici contestano una legge che li riguarda personalmente, e che il conflitto sarà risolto in famiglia, cioè da altri giudici. Al che sarà facile rispondere che solo un giudice può giudicare un altro giudice, o una legge che riguarda i giudici, esattamente come solo un chirurgo può operare un altro chirurgo. E la querelle continuerà.
Il problema è serio perché l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui esista un potere senza responsabilità. Prendiamo il pubblico ministero. È il capo della polizia giudiziaria, e quindi dirige le indagini con una discrezionalità che può sconfinare nell’arbitrio, conferendogli attribuzioni impensabili. Ad esempio, solo spedendo un’informazione di garanzia, può condizionare la vita politica di un parlamentare, di un governo e magari di una legislatura. Una simile forza dovrebbe essere bilanciata da una responsabilità equivalente; negli Stati Uniti, ad esempio, è controllata dalla volontà popolare, perché il District Attorney viene eletto dai cittadini.
Invece da noi il Pm gode delle stesse garanzie di indipendenza e autonomia del giudice, e quindi non risponde a nessuno. Può imbastire processi lunghi, costosi e fantasiosi. Alla fine dirà che l’azione penale è obbligatoria, e che ha solo fatto il suo dovere.
Se dal pubblico ministero passiamo al giudice, il problema è anche più serio. L’Italia è l’unico Paese con un processo accusatorio dove un cittadino assolto possa essere riprocessato e condannato in una sequenza infinita. I casi sono noti, e sarebbe doloroso farne i nomi. Questa è una follia logica, perché se la condanna può intervenire solo quando le prove a carico resistono a ogni ragionevole dubbio, bisognerebbe ammettere che i magistrati che avevano assolto erano degli imbecilli. A parte questo, in una simile catena di sentenze, che negli anni hanno coinvolto decine di magistrati, chi avrà sbagliato e chi no? Difficile dirlo. Ancor più difficile distinguere tra responsabilità dei giudici togati e di quelli popolari, che, in corte d’assise, hanno gli stessi poteri dei primi. Faremo causa anche a loro? Chissà.
Di fronte a problemi così complessi, governo e parlamento hanno risposto in modo emotivo. Condizionati dallo slogan del “chi sbaglia paga”, invece di incidere sulle cause degli errori giudiziari – come ad esempio l’irresponsabile potere dei pubblici ministeri – hanno preferito agire sull’effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie. Scelta inutile, perché ci penserà l’assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita.
L’aspetto più singolare di questa vicenda è stata tuttavia la reazione dei magistrati. Alcuni hanno minacciato lo sciopero, altri forme più blande di protesta, tutti hanno, apparentemente, mugugnato. Alla fine non è successo nulla, salvo il rinvio alla Consulta della parte più ambigua della legge: quella che appunto consente, o pare consentire, di far causa allo Stato (e quindi al giudice) prima che la causa sia definitivamente conclusa, con l’effetto automatico di paralizzare i processi. Perché il magistrato denunciato si potrà astenere, passando il fascicolo al collega, e questo a un altro, e così per l’eternità.
Era dunque ovvio che sarebbe finita come ha disposto il giudice di Verona, e come certamente nei prossimi giorni disporranno decine di tribunali. La legge sarà forse parzialmente abrogata dalla Corte, e comunque la montagna avrà partorito un topolino. I magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo. E come dice Shakespeare, quando il principe sospira, il popolo geme.
Carlo Nordio

Fonte: www.errorigiudiziari.com/Carlo Nordio e la responsabilità civile dei giudici — ErroriGiudiziari.com

sabato 21 gennaio 2017

Taglia il pallone ai bambini che giocano nel cortile condominiale: nessun reato

Il reato di violenza privata può dirsi integrato solo laddove la minaccia o la violenza posta in essere determini una perdita o una riduzione sensibile della libertà della vittima.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1786/17 depositata il 16 gennaio.
Il caso. Il Tribunale di Salerno condannava l’imputato per atti persecutori per le reiterate minacce, aggressioni ed ingiurie rivolte ad alcuni bambini mentre giocavano nel cortile condominiale, arrivando perfino a tagliare con un coltello il pallone utilizzato dai fanciulli. La Corte d’appello riqualificava il fatto come violenza privata, riducendo la pena da 4 a 2 mesi di reclusione.
L’imputato ricorre per la cassazione della sentenza in quanto la sua condotta era diretta semplicemente a far rispettare il regolamento condominiale che vieta di giocare a pallone in certe ore della giornata e, dunque, non aveva egli alcun intento di creare timore nei minori.
Violenza privata e tutela della libertà individuale. Esaminando la struttura della fattispecie della violenza privata descritta dall’art. 610 c.p., la Corte ribadisce che, ai fini della configurazione di tale reato, è necessario che la minaccia o la violenza posta in essere sia idonea ad ottenere l’effetto di «costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa». Considerando che l’oggetto tutelato dalla norma è la libertà individuale, quale possibilità di determinarsi spontaneamente, la giurisprudenza ha costantemente affermato che, ai fini della rilevanza penale, la violenza o minaccia deve determinare una perdita o una riduzione sensibile della capacità di autodeterminarsi del soggetto passivo. Non è dunque riconducibile sanzionabile ogni forma di violenza o minaccia ma solo quella concretamente idonea a limitare la libertà di movimento della vittima o ad influenzare significativamente la formazione della sua volontà.
Esclusa l’offensività della condotta. In conclusione, la Corte esclude che nel caso di specie possa essere riconosciuto il reato contestato poiché la condotta del ricorrente era motivata dalla necessità di rispettare il regolamento condominiale: i bambini infatti, seppur temporaneamente allontanati dal cortile, rimanevano liberi di tornare a giocare in altri momenti della giornata.
La sentenza impugnata viene quindi annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Taglia il pallone ai bambini che giocano nel cortile condominiale: nessun reato - La Stampa

Spaccio di lieve entità: le linee guida della Procura di Bologna

Si ricorderà come, poco meno di un triennio addietro, all’indomani della nota sentenza della Corte costituzionale che dichiarò illegittime le previsioni della legge cd. Fini-Giovanardi, si rese necessario l’intervento del legislatore al fine di porre rimedio alla situazione normativa, caotica e di scarsa intelligibilità, originata dalla suddetta pronuncia caducatoria e, insieme, dalla reviviscenza della normativa previgente (id est, la legge cd. Jervolino-Vassalli), reviviscenza che i giudici costituzionali ebbero ad indicare, espressamente, quale effetto scaturente dalla loro decisione. L’intervento legislativo in questione riguardò, tra le altre, anche la disposizione di cui all’art. 73, co. 5, del T.U. stup., concernente i “fatti di lieve entità”, giusto qualche mese prima trasformati in reati “autonomi” dal d.l. n. 146 del 2013, conv., con modif. dalla l. n. 10 del 2014.
In particolare, ad essere interessati dalla riforma furono i limiti edittali contemplati dal comma 5, nell’occasione ulteriormente ridotti: dalle pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da 3.000 a 26.000 euro si è passati, in tal modo, alle vigenti pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da 1.032 a 10.329 euro.
Il carattere compromissorio di tale scelta – che non scontentava i fautori della equiparazione tra droghe pesanti e droghe leggere e che, al contempo, recepiva le istanze di una maggiore mitigazione del trattamento sanzionatorio riservato a queste ultime – ha altresì comportato l’ennesimo affievolimento dello statuto punitivo relativo alle condotte aventi ad oggetto droghe pesanti. Circostanza che – come si ipotizzava in sede di commento all’allora recentissima legge n. 79 del 2014 – avrebbe rischiato di dare l’abbrivio a torsioni interpretative intese a cauterizzare le importanti ricadute che, da lì in avanti, ne sarebbero derivate sul versante delle misure pre-cautelari e cautelari a causa dell’impossibilità – per effetto dei nuovi delta punitivi - di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza e/o di disporre la custodia cautelare in carcere in presenza di fatti sussumibili nel perimetro applicativo dell’art. 73, co. 5, T.U. stup. in vigore.
È in un contesto quale quello appena delineato che paiono inscriversi le recenti direttive operative per l’Ufficio requirente e la polizia giudiziaria - recanti “Oggetto: La disciplina delle sostanze stupefacenti. Problematiche operative e linee di indirizzo” - impartite dalla Procura distrettuale di Bologna lo scorso 3 novembre con l’obiettivo di fare chiarezza in merito alla normativa vigente in materia di stupefacenti e, in particolare, all’esercizio dei poteri “cautelari” da parte delle forze dell’ordine e/o della magistratura, in specie in relazione ai fatti di cd. lieve entità.
Nello specifico – a seguito di un rapido schizzo della disciplina sanzionatoria penale delle sostanze stupefacenti – il documento:
i) illustra le conseguenze che la riduzione dei limiti edittali per i fatti lievi ha recato in termini di (in-)comprimibilità della libertà personale;
ii) si sofferma a dettagliare i presupposti di sussistenza della fattispecie delittuosa dell’art. 73, co. 5, T.U. stup., fornendo istruzioni operative puntuali al fine incoraggiare prese di posizione omogenee;
iii) per poi affrontare la questione – solo apparentemente eccentrica rispetto al tema divisato – della ravvisabilità o meno della circostanza aggravante dell’art. 80, co. 1, lett. g), T.U. stup. nell’ipotesi di spaccio di sostanze stupefacenti che abbia avuto luogo all’interno o in prossimità di una sede universitaria.
Fatti di lieve entità e misure cautelari personali e pre-cautelari
Come si accennava, innanzitutto, il documento si preoccupa di precisare quali misure pre-cautelari e cautelari personali possano essere legittimamente adottate in presenza di fatti di spaccio di cd. lieve entità.
In tal modo, le Linee guida provano a fugare le perplessità – affiorate in una parte dell’opinione pubblica bolognese – circa la pretesa inerzia di polizia giudiziaria e /magistratura a fronte di reiterati episodi di piccolo spaccio in talune note zone della città, tra le quali, in particolare, quella universitaria adiacente a piazza Verdi.
Viene pertanto chiarito come – al cospetto di fatti sussumibili nell’ambito dell’art. 73, co. 5, T.U. stup. – la massima misura coercitiva sia preclusa in ragione del chiaro disposto dell’art. 280, co. 2, c.p.p., potendo essa essere disposta, semmai, solo nel caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti ad altra misura cautelare eventualmente applicata (ex art. 280, co. 3, c.p.p.).
Prima ancora, tuttavia, a risultare impraticabile – salve rare ipotesi - sarebbe lo stesso arresto in flagranza.
E in effetti, da un lato, il legislatore del 2014 ha inciso il testo dell’art. 380, co. 2, c.p.p. – disposizione che, come noto, elenca nominativamente i delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza – escludendo expressis verbis i delitti di cui all’art. 73, co. 5, T.U. stup. dalla sfera di operatività della norma codicistica; dall’altro, l’art. 381 c.p.p., che disciplina i presupposti per l’arresto facoltativo in flagranza di reato, ne subordina in ogni caso la procedibilità alla ricorrenza dei presupposti di cui al comma 4 del medesimo articolo e cioè alla gravità del fatto o alla pericolosità del soggetto, desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto. Requisiti, questi ultimi, difficilmente conciliabili con i tratti caratterizzanti l’ipotesi criminosa di cui all’art. 73, co. 5, T.U. stup. e che, laddove ravvisati, schiuderebbero piuttosto la prospettiva di un’incriminazione ex art. 73, co. 1 o co. 4, del d.P.R. n. 309 del 1990.
In proposito, la circolare della Procura distrettuale, riconosciuta la marginalità dei casi in cui il fatto di reato possa esibire, al contempo, caratteristiche di lievità significative per la sua sussumibilità nella fattispecie del comma 5 e di gravità tali da ritenere passibile di arresto (facoltativo) chi ne sia stato l’autore, propone comunque un’esemplificazione di elementi in grado di deporre nel senso della gravità del fatto/pericolosità del soggetto a fini giustificativi di un arresto facoltativo in flagranza, lasciando immutata la qualificazione del fatto come fatto di lieve entità ai sensi e per gli effetti dell’art. 73, co. 5, T.U. stup. Il riferimento è, in particolare, all’eventuale condizione di ‘pluripregiudicato’ del soggetto colto in flagranza di reato, condizione da intendere soddisfatta – sulla base di quanto è dato inferire dalle indicazioni contenute nel documento – tanto in presenza di precedenti non specifici - non ostativi alla configurabilità del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, co. 5, del d.P,R. n. 309 del 1990 - quanto in presenza di precedenti specifici, ma incapaci di essere dimostrativi di un coinvolgimento strutturato del soggetto nel mercato della droga e della continuità dell’attività illecita perpetrata. In effetti, come si vedrà nel prosieguo, secondo la circolare, laddove i precedenti specifici dell’autore del fatto avessero una tale capacità dimostrativa, la loro contestazione condurrebbe ad una qualificazione della condotta come non lieve, per il qual caso l’arresto in flagranza sarebbe obbligatorio.
Fatti di lieve entità: condizioni di configurabilità della fattispecie
A fronte della rilevata divaricazione degli effetti conseguenti alla qualificazione del fatto come di lieve entità o meno, la Procura distrettuale si premura di fornire talune istruzioni operative in merito alle condizioni in presenza delle quali sarà da ritenere integrata la fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990.
In particolare, sulla premessa che il fatto di lieve entità debba essere apprezzato considerando i mezzi, le modalità e le circostanze dell’azione nonché la qualità e quantità delle sostanze stupefacenti e sull’assunto della replicabilità, in relazione alla nuova fattispecie autonoma, dei principi cardine della valutazione congiunta dei citati parametri e dell’attitudine ostativa della “esorbitanza” anche di solo uno degli stessi - principi, questi, attestatisi con riferimento alla previgente ipotesi circostanziale -, il documento offre importanti indicazioni concrete in ordine:
1) al parametro della quantità;
2) alla controversa questione della eventuale decisività del carattere non episodico della condotta illecita al fine di escludere la lievità del fatto;
3) alla rilevanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 73, co. 5, T.U. stup., delle circostanze relative alla persona del colpevole.
Quanto al primo aspetto, in chiave marcatamente pragmatica ed ispirata dall’esigenza di prevenire disparità di trattamento, la circolare si spinge al punto di indicare – in relazione alle principali sostanze stupefacenti - i quantitativi di droga alla cui presenza sia dato configurare il fatto di lieve entità. Tali quantitativi vengono ricavati all’esito di un ragionamento analogo e speculare a quello sviluppato dalle Sezioni Unite del 2012, che, nella sentenza Biondi, ebbero a concludere per l’impossibilità di reputare integrata l’aggravante della ingente quantità di cui all’art. 80, co. 2, T.U. stup. in presenza di quantitativi inferiori alle 2000 volte la cd. Q.M.D. di sostanza stupefacente oggetto della condotta.
In effetti, recependo un’indicazione che era già nella pronuncia delle citate Sezioni Unite (cfr. Cass., SS.UU., 24 maggio-20 settembre 2012, n. 36258, par. 14.2), la Procura distrettuale felsinea ha indicato in un multiplo di 20 volte la Q.M.D. il valore-soglia idoneo a discriminare, sotto il profilo ponderale “netto” - ovverosia valutato in termini di principio attivo di sostanza -, i fatti di reato di cui al comma 1 da quelli di cui al comma 5 dell’art. 73 del T.U. stup. Tale moltiplicatore però riguarderebbe soltanto le cc.dd. droghe pesanti, la Procura avendo ritenuto di dover raddoppiare il moltiplicatore in relazione ai derivati della cannabis, siccome inclusi tra le cc.dd. droghe leggere. Tale raddoppio del fattore moltiplicativo – sebbene non manchi di suscitare delle perplessità, poichè operato in relazione ad una fattispecie, quale quella di cui all’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990, rispetto alla quale il legislatore avrebbe ribadito la volontà di non tributare importanza alla tabella di appartenenza della sostanza – si allineerebbe alle precisazioni formulate di recente da Cass. pen., sez. III, 28 settembre-14 novembre 2016, n. 47978 circa la “svista” in cui sarebbero incorse le Sezioni Unite nella sentenza Biondi assumendo a riferimento, per hashish e marijuana, la Q.M.D. di 1000 mg. piuttosto che quella di 500 mg.
Accanto ai quantitativi di principio attivo, espressi in grammi, le Linee guida fissano poi le quantità di sostanza “lorda” (id est, il cd. peso lordo complessivo) in grado di contenere gli indicati quantitativi di principio attivo e calcolate - per quanto è dato leggere nel documento in commento - assumendo a valore percentuale di riferimento la concentrazione media di principio attivo rintracciabile nelle “dosi di strada” delle sostanze stupefacenti interessate.
Sul punto, ci limitiamo ad osservare che, in merito all’indicazione dei quantitativi lordi, i quali, come si intuisce sono quelli immediatamente apprezzabili dagli operanti, la circolare, sebbene contribuisca a rendere più fruibili le istruzioni operative fornite, evidenzierebbe taluni elementi di incongruità nella misura in cui ricava le quantità lorde in parola da concentrazioni medie diverse - talvolta più basse, talaltra più alte - rispetto a quelle (pari a oltre il 50% per la cocaina, al 25% per l’eroina, al 5% per l’hashish) prese in considerazione dalle citate Sezioni Unite Biondi per l’enucleazione del fattore moltiplicativo (20 volte la Q.D.M.), che la medesima Procura distrettuale, come si è visto sopra, fa proprio, quantomeno in relazione alle cc.dd. droghe pesanti.
In merito alla cennata questione della non occasionalità della condotta illecita e della sua eventuale attitudine ostativa alla ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, del T.U. stup., il documento in commento - tratteggiate le due antitetiche opzioni esegetiche rinvenibili nella giurisprudenza – conclude, in linea con la giurisprudenza di legittimità, per la conciliabilità – in linea di principio – del carattere non episodico della condotta con l’ipotesi delittuosa divisata, la quale, in ogni caso, alla stregua di una doverosa valutazione grandangolare di tutte le circostanze di specie, dovrà considerarsi esclusa – questa nello specifico l’indicazione operativa offerta dalla Procura bolognese - quando, nonostante il numero modesto di dosi “spacciato” di volta in volta, risulti l’inserimento del soggetto nell’ambiente dei traffici illeciti ovvero le modalità di approvvigionamento e di custodia delle sostanze o quelle di contatto con gli acquirenti denotino la presenza di una struttura organizzata (sulla compatibilità dell’ipotesi di lieve entità con l’esercizio in forma organizzata, cfr., però, tra le altre, Cass. pen., sez. III, 27 marzo–18 maggio 2015, n. 20410; sez. VI, 18 luglio-4 ottobre 2013, n. 41090).
In ultimo, venendo rapidamente al terzo profilo problematico, attinente, come già accennato, alla questione della rilevanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 73, co. 5, T.U. stup., delle circostanze concernenti la persona del colpevole, la circolare, in sintonia con un consolidato orientamento giurisprudenziale, ribadisce la necessità di valorizzare, oltre a quelli di ordine oggettivo e a patto che esibiscano una immediata correlazione con l’attività criminosa contestata, tutti gli elementi di ordine soggettivo, attribuendo rilievo, in particolare, alla finalità dell’attività delittuosa (cessione con finalità di lucro vs. cessione senza finalità di lucro), alla condizione soggettiva del reo (tossicodipendente, tossicodipendente-spacciatore o esclusivamente spacciatore), alla mancanza, se del caso, di precedenti specifici.
L’indicazione operativa che ne viene fatta derivare è quella per cui «è utile soffermare l’attenzione sulla personalità del soggetto, quando questa riverberi i propri effetti sulla gravità della condotta [recidiva specifica, in grado di dimostrare il coinvolgimento strutturato del soggetto nel mercato illecito e la continuatività dell’attività illecita], sia sulle motivazioni della condotta [valorizzando negativamente sia la finalità di lucro sia il fatto che non si tratti di tossicodipendente “indotto” cioè a smerciare per soddisfare il proprio fabbisogno personale].
Corrisponde poi ad un’esigenza immediatamente pratica l’ulteriore istruzione relativa alla riconosciuta possibilità per la polizia giudiziaria - che nell’immediato non disporrebbe dei precedenti penali della persona – di soffermarsi, dandone opportuna indicazione nella denuncia e/o nel verbale di arresto, sui precedenti specifici di polizia, i quali potranno contribuire a qualificare il fatto, specie laddove reiterato ed abituale, in termini di gravità, a prescindere dai quantitativi di sostanza stupefacente.
Fatto di lieve entità e aggravante dell’offerta o cessione effettuata all'interno o in prossimità di scuole di ogni ordine o grado o di comunità giovanili
La terza questione affrontata dalla Procura distrettuale concerne il controverso tema della ravvisabilità o meno dell’aggravante dell’art. 80, co. 1, lett. g), T.U. stup. nell’ipotesi di spaccio di sostanze stupefacenti verificatosi in prossimità di una sede universitaria.
In proposito, la soluzione abbracciata è quella favorevole alla configurabilità dell’aggravante, considerate, ad opinione della Procura, la ratio di tutela e il dato testuale della previsione ex art. 80, co. 1, lett. g). Quest’ultimo, in effetti, mirerebbe a preservare dal fenomeno della diffusione degli stupefacenti comunità notoriamente più vulnerabili perché costituite da persone maggiormente a rischio a motivo della giovane età o di peculiari condizioni soggettive; inoltre, dal punto di vista letterale, pur a voler trascurare il fatto che il sintagma «scuole di ogni ordine e grado» non possa non ricomprendere anche l’Università, quest’ultima – secondo la tesi espressa – sarebbe «una [la] tipica comunità giovanile» cui la disposizione farebbe riferimento.
L’opzione ricostruttiva accolta nel documento della Procura distrettuale, tuttavia, non ha ricevuto – a quanto è dato di sapere – consensi unanimi.
Nella magistratura giudicante, in effetti, si sono date due letture antitetiche della disposizione in parola.
In particolare, all’orientamento giurisprudenziale che ha reputato condivisibile un’impostazione accusatoria declinata secondo quanto affermato nella circolare se ne è contrapposto un altro, in base al quale l’università non potrebbe essere ricondotta né al novero delle “scuole di ogni ordine e grado”,né essere considerata una comunità giovanile (così, in particolare, G.I.P. Bologna, ord. 17 novembre 2016, giud. Magliaro).
Le ragioni di un tale approdo interpretativo risiederebbero nella inidoneità dello stesso dato letterale a supportare conclusioni di tenore diverso. In effetti, quanto alla irriducibilità dell’università ad una scuola, si è osservato come l’ordinamento, nel suo complesso, sia incardinato sulla distinzione tra “scuole” (di ogni ordine e grado) e “università”: in tal senso, l’art. 33 Cost., che, nei suoi primi quattro commi, farebbe riferimento alle scuole, mentre, solo nel quinto comma, alle università, evidentemente considerate diverse (rectius: non ricomprese) nelle prime; il d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, recante l’“Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado”, che non ha riguardo all’università, disciplinando solamente le scuole, dalle materne alle medie superiori; la nomenclatura ministeriale, la quale, nel definire i nomi dei dicasteri, ha sempre tenuto distinti i concetti di istruzione e di università.
Per converso, quanto alla impossibilità di parlarne come di comunità giovanile, mancherebbe all’università - si è sostenuto - la natura di “entità collettiva presente - in modo stabile, residenziale o comunque non estemporaneo - in un luogo ad essa esclusivamente dedicato”, natura propria, invece, di una comunità giovanile; inoltre, l'istituzione universitaria consterebbe di una complessità e di un’articolazione di sedi, di compiti e, persino, di attività di tipo amministrativo, che richiedono l'impiego di persone di svariate età e non solo giovani.
Ci sembra che entrambe le posizioni, per come espresse, sollevino delle perplessità.
Quella da ultimo riportata, probabilmente più condivisibile negli esiti, accentuerebbe in maniera incongrua - rispetto al concetto di comunità giovanile e, diremo, di comunità in generale – il requisito – reputato persino dirimente - della presenza non estemporanea di una molteplicità di giovani persone in un luogo ad esse dedicato in via esclusiva.
Quella sostenuta dalla Procura, viceversa, si dimostrerebbe apodittica nella parte in cui reputa sussistenti, a supporto della tesi “estensiva”, «inequivoche indicazioni letterali», che davvero inequivoche, in effetti, non sono poi risultate.
Conclusioni
Nella presente sede, non è possibile sviluppare le pur numerose suggestioni offerte dalla lettura delle istruzioni operative fornite dalla Procura distrettuale bolognese in merito alle fattispecie di cui agli artt. 73, co. 5, e 80, co. 1, lett. g), d.P.R. n. 309 del 1990.
Ci limitiamo pertanto a qualche fugace considerazione.
La prima si riconnette a quanto veniva detto in ordine alla mitigazione – ad opera del legislatore nel 2014 - del limite edittale massimo previsto per l’ipotesi di lieve entità e alle sue conseguenze in termini di ostatività all’adozione della misura pre-cautelare obbligatoria e di quella cautelare più restrittiva e concerne l’ulteriore rivisitazione del trattamento sanzionatorio riservato alla fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, T.U. stup., in una prospettiva de iure condendo, dal cd. d.d.l. “Giachetti”, recante “Disposizioni in materia di legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis e dei suoi derivati” (3235). In effetti, l’art. 3, co. 1, lett. b), di tale disegno di legge punterebbe a reintrodurre, anche per l’ipotesi lieve, un doppio binario sanzionatorio che, per le droghe pesanti, vedrebbe il limite edittale innalzato a sei anni di reclusione e, per le leggere, ridotto a tre. Con conseguente sdrammatizzazione, per le prime, e acutizzazione, per le seconde, delle implicazioni di cui si è dato conto in precedenza. In effetti, in relazione alle cc.dd. droghe pesanti, ferma l’impossibilità di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza, si darebbero tuttavia i presupposti per l’adozione della misura cautelare custodiale carceraria; in relazione alle cc.dd. droghe leggere, per effetto dell’ulteriore riduzione del limite edittale massimo, non solo verrebbe confermata l’impossibilità di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza e all’adozione della massima misura cautelare custodiale, ma ne conseguirebbe il più radicale divieto di adozione di qualsivoglia misura cautelare personale coercitiva.
La seconda osservazione riguarda il carattere non isolato del tentativo, operato dalla Procura bolognese, di “standardizzare” i quantitativi – espressi sia in termini di principio attivo che di peso complessivo lordo della sostanza – compatibili con una caratterizzazione del fatto come di lieve entità. In merito, si segnala l’analoga e precedente iniziativa della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 13 maggio 2016, che nel documento recante “Direttive in materia di stupefacenti”, ha giudicato «essere ragionevole apprezzare, salva la valutazione di tutte le altre circostanze, la sussistenza dell'ipotesi di cui al quinto comma, in presenza di quantitativi calcolati moltiplicando per 5 la Q.M.D. (quantità massima detenibile) per le droghe pesanti e per 10 per le droghe leggere», pervenendo a risultati sensibilmente disomogenei rispetto alle indicazioni fornite sul punto nelle istruzioni operative della Procura bolognese anche in relazione ai quantitativi cc.dd. lordi.
La terza riflessione concerne la circostanza che le Linee guida della Procura distrettuale felsinea, pur muovendo dal presupposto della compatibilità – in linea teorica - tra l’ipotesi circostanziale dell’offerta o cessione effettuata all'interno o in prossimità di scuole di ogni ordine o grado o di comunità giovanili con la fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, T.U. stup., ammettono che la ricorrenza della prima – poichè in grado di riflettersi sulle “modalità” e “circostanze” dell’azione – ben possa rappresentare oggetto di quell’apprezzamento congiunto di cui si è parlato nei paragrafi precedenti e condurre alla esclusione della stessa lievità del fatto, con conseguente ravvisabilità, a quel punto, dei presupposti sia per l’arresto obbligatorio in flagranza che per l’applicabilità della misura custodiale.
Ebbene, una volta aderito alla tesi della configurabilità, nell’ipotesi di spaccio nei pressi o all’interno di una sede universitaria, dell’aggravante di cui all’art. 80, co. 1, lett. g), T.U. stup., a nostro sommesso avviso, andrebbero poi forse meglio meditate le affermazioni della Corte di cassazione, in base alle quali, in via generale, «in materia di reati concernenti le sostanze stupefacenti, […] il principio di specialità impedisce che gli elementi considerati» ai fini del riconoscimento (o meno) dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, «possano essere identificati in quelle altre situazioni valutate astrattamente dal legislatore come autonome circostanze attenuanti o aggravanti» (così Cass. pen., sez. VI, 29 novembre 1993, n. 10947, Cappelli, rv. 195891).

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/Spaccio di lieve entità: le linee guida della Procura di Bologna | Quotidiano Giuridico

giovedì 19 gennaio 2017

Famiglia, ordine di protezione attuabile anche durante la separazione

L'articolo 342 bis del codice civile al primo comma definisce come abuso familiare la condotta pregiudizievole posta in essere dal coniuge o dal convivente che è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica e morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge.
La misura che può adottare il Tribunale è di natura cautelare ed ai fini dell'emissione è necessaria una condotta posta in essere nell'ambito della famiglia tale da stravolgere la vita familiare e da causare un grave pregiudizio in capo alla vittima. Le condotte “abusanti” non sono state tipizzate dal legislatore proprio per consentire al giudice di valutare caso per caso. Si ritiene che possa essere considerato rilevante ai fini dell'emissione dell'ordine di protezione il comportamento reiterato denigratorio e vessatorio in ambito familiare; non è invece stato ritenuto sufficiente ad integrare gli stremi dell'abuso il comportamento del coniuge che, nell'ambito della crisi coniugale, non corrisponda alla moglie il denaro per le esigenze primarie della famiglia, provvedendo in prima a persona alle spese primarie e a talune spese mediche (Tribunale Bari 2002).
L'abuso è configurabile anche nei confronti i dei figli minori nel caso in cui il minore sia costretto ad assistere a reiterate aggressioni e comportamenti denigratori di uno dei due genitori nei confronti dell'altro (anche se in tal caso i comportamenti possono integrare gli estremi del reato di maltrattamenti in famiglia).
A giudizio dello scrivente i comportamenti abusanti potrebbero anche consistere in atteggiamenti incompatibili con una vita familiare serena ed equilibrata quali gli episodi di infedeltà reiterati, l'abuso di droghe e di alcol, le varie dipendenze (dal gioco d'azzardo, ecc).
Affinché possa essevi “abuso” il comportamento del soggetto agente deve cagionare un grave pregiudizio nella vittima.
In caso di separazione o divorzio - Ove sia già in atto un giudizio di separazione o divorzio, e vengano posti in essere comportamenti che siano espressione di “ gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto esercizio delle modalità di affidamento”, non si applicherà l'articolo 342 bis c.c. sull'ordine di protezione ma le disposizioni di cui all'articolo 709 ter cpc essendo quest'ultima norma speciale rispetto all'ordine di protezione.
L'emissione di un ordine di protezione avrà certamente una rilevanza sostanziale nell'orientare, successivamente, il giudice della separazione verso una forma di affidamento dei minori che escluda il genitore “abusante” se non addirittura rilievo per ciò che concerne un eventuale provvedimento di sospensione o decadenza della responsabilità genitoriale.
Lo scrivente ritiene che la misura dell'ordine di protezione sia attuabile anche in pendenza di separazione e nonostante l'emissione di provvedimenti presidenziali ed urgenti che abbiano statuito su questioni connesse alle situazioni di “abuso”. Infatti, a volte il provvedimento presidenziale di autorizzazione dei coniugi a vivere separatamente non è sufficiente per far cessare la condotta violenta (coniuge che si reca sul posto di lavoro dell'altro coniuge o vada a scuola a prendere o tentare di incontrare il figlio). In queste ipotesi sarà opportuno integrare l'ordinanza presidenziale con l'ordine di protezione ex articolo 342 bis e ter c.c..
I soggetti legittimati alla presentazione del ricorso sono i coniugi, i conviventi more uxorio (purchè lo siano in modo stabile), le coppie di fatto (anche omosessuali) e i figli. Questi ultimi posso, ovviamente, anche essere autori di abusi familiari e quindi destinatari di un ordine di allontanamento che non esclude la persistenza dell'obbligo dei genitori di versare un assegno mensile di mantenimento, ex articolo 155 quinquies c.c; ove i figli minori siano vittime di abuso familiare è necessaria la segnalazione al Tribunale per i Minorenni o alla Procura della Repubblica per i provvedimenti di competenza.
Il contenuto del provvedimento - Qualora siano i genitori gli autori di abusi familiari ai danni dei figli minori in dottrina è prevalente la tesi in base alla quale la disciplina degli ordini di protezione non troverebbe applicazione, perché si colloca in un rapporto fra genere e specie rispetto a quella dettata dagli artt 330 e 333 c.c.. Sia l'articolo 330 c.c che l'articolo 342 ter c.c prevedono l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge o convivente che ha adottato la condotta pregiudizievole con la differenza che nell'articolo 330 c.c l'allontanamento dalla casa familiare è una misura accessoria alla decadenza o sospensione della potestà genitoriale che perdura sino alla durata del provvedimento ablativo, mentre nell'articolo 342 ter c.c. l'allontanamento è una misura autonoma provvisoria, direttamente funzionale alla cessazione della condotta pregiudizievole e prorogabile.
Il giudice che emette l'ordine di protezione è tenuto ad elencare i comportamenti violenti e pregiudizievoli che debbono cessare.
Oltre alla prevista misura dell'ordine di allontanamento dalla casa familiare sono previste come misure accessorie il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dal ricorrente o dai figli della coppia, l'intervento dei servizi sociali o di un centro di mediazione familiare o di associazioni istituzionalmente preposte a sostegno e tutela delle vittime di violenze domestiche; la misura patrimoniale necessaria, a volte, per consentire alla vittima di potersi mantenere in modo autonomo. Altrimenti, in caso di indigenza della vittima il suo stato di non autosufficienza economica potrebbe rappresentare un elemento scoraggiante la presentazione del ricorso ovvero uno strumento di “persuasione” o “ricatto” nelle mani dell'abusante per costringere la vittima a non porre in atto alcuna azione.
Nel caso di violazione dell'ordine di protezione è prevista la sanzione penale disciplinata dall'articolo 388 cp.
Il procedimento è di natura cautelare (artt 669 bis e ss. cpc, con la conseguenza che eventuali lacune nella disciplina specifica degli ordini di protezione possono essere colmate facendo riferimento alle norme generali sui procedimenti cautelari).
Il ricorso può essere presentato dalla parte personalmente o dall'avvocato presso il Tribunale del luogo di residenza o domicilio del ricorrente.
Se la misura è accolta, il decreto conterrà anche la determinazione della durata dell'ordine di protezione; il decreto emesso nel contraddittorio delle parti è immediatamente esecutivo e contro tale decreto è ammesso reclamo al Collegio; il reclamo non sospende l'esecutività dell'Ordine di Protezione.
Il decreto è Collegiale (di conferma o revoca del provvedimento reclamato) e non è impugnabile in Cassazione nè ricorso ordinario né con il ricorso straordinario, perché mancante dei requisiti della decisorietà e definitività).

Fonte: www.ilsole24ore.com/Famiglia, ordine di protezione attuabile anche durante la separazione

Legge sulla droga di nuovo alla Consulta

Nuova remissione alla Corte Costituzionale della travagliata legge sugli stupefacenti. Lo ha deciso ieri la Sesta sezione penale della Cassazione - ordinanza 1418/17 - sulle sorti del processo a uno spacciatore giudicato dal Tribunale di Imperia.

La questione, ancora una volta, riguarda il confine tra il comma 5 dell'articolo 73 del Dpr 309/90 (la lieve entità) e il comma 1 (norma base su produzione, trasporto, commercio etc delle droghe pesanti) in particolare sotto l'aspetto della proporzionalità dello scarto di pena tra le due fattispecie. Nello specifico, a un 37enne straniero il Gip ligure aveva riconosciuto il 13 dicembre scorso i benefici della lieve entità, a dispetto delle (potenziali) 150 dosi di eroina sequestratigli in casa dell'accertata continuità dello spaccio, con cadenze di tre o quattro volte alla settimana ai due acquirenti monitorati dalla polizia giudiziaria.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Legge sulla droga di nuovo alla Consulta

mercoledì 18 gennaio 2017

Il licenziamento della lavoratrice madre durante il periodo di puerperio è nullo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 475 dell’11 gennaio 2017, ha affermato che è nullo il licenziamento della lavoratrice durante il periodo di puerperio ed il diritto alla retribuzione è dovuto per tutto il periodo intercorrente tra la data di licenziamento e quella di riassunzione.
La vicenda. La Corte di appello dichiarava illegittimo il licenziamento di una lavoratrice e condannava il datore di lavoro alla sua riassunzione o, in mancanza, al risarcimento del danno commisurato in cinque mensilità dell’ultima retribuzione.
Avverso tale sentenza, la lavoratrice propone ricorso lamentando la mancata considerazione, da parte del giudice di appello, del fatto che si trovasse nel regime di puerperio al momento del licenziamento.
Tutela della lavoratrice madre. La Cassazione accoglie il ricorso: la Corte d’appello, infatti, non ha applicato il principio affermato dalla costante giurisprudenza secondo cui il licenziamento intimato durante il periodo di puerperio (che va dal periodo di gestazione fino al compimento del primo anno del bambino) è nullo. Il rapporto di lavoro deve considerandosi, quindi, come mai interrotto ed ancora giuridicamente pendente, con conseguente diritto alla retribuzione per la lavoratrice relativo al periodo di tempo compreso dal giorno del licenziamento fino al giorno dell’effettiva riammissione in servizio.

Fonte: www.ilgiuslavorista.it/Il licenziamento della lavoratrice madre durante il periodo di puerperio è nullo - La Stampa

martedì 17 gennaio 2017

Parte il Fondo per il coniuge privo dell'assegno di mantenimento

Un contributo a disposizione del coniuge più debole, almeno sul piano economico. Per compensare anche il mancato pagamento dell'assegno di mantenimento deciso dall'autorità giudiziaria in sede di separazione. L'intervento previsto dalla penultima legge di stabilità (la legge n. 208 del 2015) è adesso operativo dopo la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale», n. 11 del 14 gennaio 2017, del decreto del ministero della Giustizia del 15 dicembre. Il provvedimento individua nei tribunali collocati nei capoluoghi dei distretti sede di Corte d'appello le sedi giudiziarie alle quali indirizzare la richiesta di accesso al «Fondo di solidarietà al coniuge in stato di bisogno» alimentato, per ora, con 750mila euro.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Parte il Fondo per il coniuge privo dell'assegno di mantenimento

Obbligo di dimora virtuale al mago delle truffe online

Dopo aver fatto truffe a raffica on line, per i prossimi due anni non potrà utilizzare un account di posta elettronica o di social network senza informare la polizia. Ogni volta che si metterà al computer per navigare in rete, dovrà avvisare i suoi «sorveglianti». Disoccupato, nullatenente e truffatore seriale. Da anni. È questo l’identikit di Davide. È lui il nuovo sorvegliato speciale della questura di Torino, condannato, da ieri, ad una sorta di «obbligo di dimora virtuale», con un provvedimento innovativo emesso dalla sezione per le misure di prevenzione del Tribunale.
Le truffe
I suoi preferiti erano gli annunci pubblicati sui siti Ebay e Subito.it, con una passione particolare per le automobili e i quad. Contattava i venditori, esclusivamente privati, li raggiungeva senza problemi anche fuori città. Firmava puntualmente un assegno, che risultava poi scoperto, e infine spariva nel nulla. Quando i truffati se ne accorgevano, era sempre troppo tardi. Perché lui, un ragazzone torinese di 31 anni, aveva l’accortezza di utilizzare false generalità. E, anche quando veniva scoperto, aveva già rivenduto i beni ad altri acquirenti, intascandone i profitti.
La misura
Con questa decisione il Tribunale, sulla base dell’informativa della polizia, ha cercato di dare una risposta adeguata ai tempi alla diffusione virale delle truffe on line. Le misure di prevenzione, infatti, impongono ai criminali divieti «tradizionali»: non allontanarsi dall’abitazione senza preavviso, divieto di dimora, il divieto di «associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne». Prescrizioni che non tengono conto delle nuove frontiere del crimine che, grazie al web, sono pressoché illimitate. Così, Davide, oltre a non poter uscire di casa tra le 21 e le 6, per i prossimi due anni dovrà tenere al corrente gli agenti della polizia postale di tutti i suoi spostamenti via web. Dai siti internet visitati ai forum online. E soprattutto dovrà comunicare tutti i suoi account: sia quelli già utilizzati, sia quelli che attiverà o modificherà in futuro. È la prima misura preventiva di questo genere a Torino, su espressa richiesta del Questore, dopo un’attenta indagine della Divisione anticrimine sull’effettivo tenore di vita del giovane. Davide, ufficialmente, negli ultimi anni ha potuto contare soltanto su una pensione di invalidità, da poche centinaia di euro mensili. Ma i suoi proventi sono «derivati dalla sua attività illecita», e i suoi continui guai con la giustizia non «lo hanno indotto a cambiare tenore di vita».
Le indagini
Già accusato di circonvenzione di incapace, nel 2010 era stato condannato a un anno e otto mesi di reclusione. Alle spalle, poi ha diverse denunce per violenza e maltrattamenti in famiglia. Ma la sua attività di truffatore seriale è nota alle forze dell’ordine sin dal 2006. È sospettato di decine di colpi: sei quelle effettivamente riconosciute. L’ultima è stata messa a segno nel gennaio dello scorso anno.

Fonte: www.lastampa.it/Obbligo di dimora virtuale al mago delle truffe online - La Stampa

Rumori dall’appartamento vicino: niente risarcimento

Madre e figlio si lamentano per i rumori provenienti, anche di notte, dall’appartamento vicino, abitato dalla custode del palazzo. Ma, in realtà, il problema è la loro capacità di sopportazione, eccessivamente bassa. Esclusa, perciò, l’ipotesi di un risarcimento da parte del condominio (Corte di Cassazione, sentenza n. 661/2017).
Malessere. Scenario della curiosa vicenda è uno stabile a Milano. A dare il ‘la’ alla battaglia giudiziaria sono una madre e un figlio, che vivono sotto lo stesso tetto e protestano vivacemente per i rumori provenienti «dall’adiacente alloggio adibito ad abitazione della custode». Nello specifico, le lamentele sono legate ai suoni fastidiosi provocati «dall’utilizzo dei servizi igienici e del televisore» e «dalle voci, udibili anche in orario notturno, delle persone che si trovavano nella camera da letto», suoni certificati anche dalla relazione di un consulente tecnico che ha suggerito al condominio di provvedere all’insonorizzazione dell’appartamento utilizzato dalla custode.
Tutti questi elementi spingono i giudici del Tribunale a riconoscere 10mila euro di risarcimento sia alla madre che al figlio, entrambi vittime di «un malessere ansioso-depressivo» ritenuto frutto della pessima qualità di vita all’interno della propria abitazione.
Disturbo. Di parere completamente opposto, invece, i giudici d’appello, che escludono ripercussioni serie per madre e figlio. Ciò perché essi «sono individui dalla personalità disturbata, con difficoltà nelle relazioni interpersonali», difficoltà che vengono ritenute «la causa di una reazione abnorme a modeste sollecitazioni disturbanti, quali lo scorrere dell’acqua nei sanitari o i suoni provenienti dal televisore o dalle persone presenti nell’appartamento adiacente» alla loro abitazione.
Impossibile, quindi, secondo i giudici, riconoscere un risarcimento alle due persone, vittime, in sostanza, della loro paranoia persecutoria.
E questa linea di pensiero è condivisa anche dai magistrati della Cassazione. Cancellata definitivamente, quindi, l’ipotesi del danno alla salute.
Madre e figlio vengono identificati come «persone vulnerabili, sempre sulla difensiva, pronte a controbattere un attacco», incapaci di «avere fiducia negli altri» e prive del bisogno di vicinanza. Tutti questi elementi li portano ad «evitare di instaurare relazioni intime e profonde con altre persone». Di conseguenza, per i magistrati «il malessere ansioso-depressivo» lamentato dai due soggetti è frutto non di «fattori ambientali», bensì della loro «personalità disturbata, con difficoltà nelle relazioni interpersonali che sono la causa di una reazione abnorme a modeste sollecitazioni disturbanti, quali lo scorrere dell’acqua nei sanitari».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Rumori dall’appartamento vicino: niente risarcimento - La Stampa

La Corte di Strasburgo in materia di responsabilità del medico per il suicidio del paziente psichiatrico

Con questa recente pronuncia la Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata ad occuparsi, nell’ambito degli obblighi positivi scaturenti dall’art. 2 della Convenzione, di responsabilità delle autorità pubbliche per la morte di soggetti sottoposti alla loro sfera di controllo, ed in particolare dei criteri di imputazione della responsabilità medica per la morte del paziente psichiatrico.
Nel caso di specie la ricorrente, in seguito al suicidio del figlio avvenuto mentre questi si trovava ricoverato in regime di trattamento sanitario obbligatorio, si rivolge alla Corte di Strasburgo per vedere riconosciuta la violazione sostanziale dell’art. 2 della Convenzione da parte dell’Austria, ritenuta responsabile per la condotta negligente dello staff ospedaliero che avrebbe permesso il verificarsi del tragico evento.
Ancorché abbia per oggetto fatti che, in sede domestica, hanno coinvolto il solo giudizio civile, la sentenza assume una certa rilevanza anche nell’ambito del diritto penale italiano, laddove giurisprudenza e dottrina sono da tempo alla ricerca degli indici fattuali da prendere in considerazione nel vagliare la responsabilità dello psichiatra per il suicidio del paziente.
Questi i fatti. Nell’aprile 2010 un tribunale distrettuale austriaco aveva stabilito che il figlio della ricorrente venisse sottoposto a ricovero coatto in una struttura psichiatrica pubblica: al soggetto, infatti, era stata contestualmente diagnosticata una grave forma di schizofrenia paranoide, che lo rendeva pericoloso per sé e per gli altri.
Dopo una prima fase di rifiuto della malattia e della conseguente cura, il paziente era diventato più collaborativo, iniziando ad assumere spontaneamente i farmaci prescritti e mostrandosi in generale più docile; questo apparente miglioramento determinava i medici nella scelta di concedere al soggetto una maggiore libertà di movimento, come parte del suo percorso terapeutico – e ciò nonostante che si fosse da poco reso protagonista di un tentativo di fuga dall’ospedale. Tuttavia, durante una delle passeggiate intorno alla struttura autorizzate dai medici, il paziente si era allontanato, finendo poi per togliersi la vita gettandosi sui binari della metropolitana.
La madre, quindi, chiamava in giudizio la città di Vienna, quale autorità responsabile dell’ospedale, chiedendo un risarcimento per la morte del figlio, secondo l’attrice dovuta alla negligenza dello staff ospedaliero: alla luce della precaria condizione mentale del figlio, oltre che dei suoi precedenti tentativi di fuga, questi avrebbe dovuto essere ristretto nei movimenti e attentamente supervisionato da medici e infermieri, dal momento che il contratto alla base del suo ricovero prevedeva obblighi di protezione e cura.
Dal canto suo, l’autorità convenuta asseriva che lo staff ospedaliero aveva pienamente adempiuto all’obbligo di diligenza dovuta: il paziente non aveva infatti mai dato segno di intenzioni suicidarie, mostrandosi anzi sempre più incline a sottostare alla terapia; per questo motivo i medici avevano deciso di concedergli una maggiore libertà – in linea con le più recenti direttive psichiatriche, laddove viene indicato che la restrizione dei movimenti debba essere circoscritta ai soli casi “di assoluta necessità ed entro i confini della proporzionalità”.
La Corte di primo grado accoglieva la richiesta di risarcimento, ritenendo la città di Vienna responsabile per il comportamento negligente dello staff medico: il suicidio del paziente sarebbe avvenuto come conseguenza della sovrastimolazione alla quale il soggetto, ritrovatosi in un ambiente esterno all’ospedale, era stato esposto; situazione che i medici avrebbero dovuto impedire, assicurandosi che il paziente rispettasse le restrizioni alla sua libertà di movimento o, comunque, supervisionandone le passeggiate. Inoltre, se anche il soggetto sembrava non rappresentare più un pericolo per se stesso, cionondimeno continuava a costituirlo per gli altri; proprio per questo motivo, per altro, il suo ricovero forzato continuava a risultare legittimo e doveroso.
In secondo grado, tuttavia, la Corte accoglieva l’appello della Città di Vienna, ritenendo che non vi fosse alcun nesso causale tra l’inaspettato suicidio del paziente psichiatrico e la supposta violazione del dovere di supervisione dell’ospedale: il soggetto non aveva dato motivo di essere ritenuto un pericolo per se stesso; il suicidio, quindi, non poteva essere attribuito alla responsabilità dell’ospedale, non essendo stato in alcun modo prevedibile.
Questa decisione veniva, infine, confermata dalla Corte Suprema, che nelle sue motivazioni si sofferma, in particolare, sulla necessità di assicurare al paziente psichiatrico la massima libertà di movimento possibile – sia per garantirne una più rapida guarigione, sia nell’ottica di tutela degli stessi art. 3 e 5 della Convenzione.
Esauriti i rimedi interni, la madre del paziente adiva la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione, da parte dell’Austria, dell’art. 2 della Convenzione, per avere omesso di proteggere la vita di suo figlio, malato mentalmente e sottoposto coattivamente alle cure della sanità pubblica. In particolare, la donna rilevava che la persistenza del regime di ricovero coattivo si giustificava proprio sulla base della permanente situazione di pericolosità per sé e per i terzi del paziente, e della conseguente necessità di “assicurare la protezione della vita e dell’incolumità della persona ricoverata e di terze parti”, protezione in concreto non assicurata nel caso di specie.
Secondo il governo austriaco, invece, l’approccio terapeutico in concreto prescelto doveva considerarsi in linea con le più recenti direttive mediche a livello europeo: il ricovero di tipo “aperto”, comprendente anche passeggiate senza accompagnatore, permetterebbe, infatti, un più rapido recupero del paziente psichiatrico, consentendone, al contempo, un suo graduale reinserimento nella società.
La Corte ribadisce anzitutto la sussistenza di obblighi positivi scaturenti dalla prima parte dell’art. 2: lo Stato non viene chiamato solo a non uccidere, ma anche ad “adottare le misure adeguate per salvaguardare le vite dei soggetti sotto la sua giurisdizione”. E il rispetto di questo principio, sottolinea la Corte, deve essere assicurato anche nella sfera della sanità pubblica: in particolare, lo Stato deve garantire ai pazienti psichiatrici sottoposti a ricovero coatto un’adeguata protezione, soprattutto in considerazione della loro “particolare vulnerabilità”.
Altro principio generale richiamato dalla Corte riguarda eventuali “misure di protezione preventive” che lo Stato è tenuto a prendere, in determinati casi, per proteggere un soggetto da altri o da se stesso. In questa seconda ipotesi, la giurisprudenza di Strasburgo si muove nella direzione di ritenere che questi obblighi sorgano solo laddove sia provato che “le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere che la persona in questione correva un reale ed imminente rischio per la sua vita” e, ciononostante, non hanno assunto le misure da considerarsi ragionevoli per neutralizzare tale rischio.
Nel caso di specie, la Corte rileva che non vi era controversia tra le parti circa la legittimità del ricovero forzato del soggetto e circa il fatto che al momento del suo decesso il provvedimento fosse ancora in vigore. A divergere nelle prospettazioni delle parti sono, piuttosto, la prevedibilità o meno del suicidio del paziente e l’esistenza di un eventuale onere, gravante sull’ospedale, di impedirne la verificazione attraverso una più stringente restrizione della libertà di movimento del soggetto.
A tal proposito, la Corte osserva come, stando alla ricostruzione dei fatti effettuata dalle corti domestiche, tanto lo stato di salute mentale del figlio della ricorrente quanto il suo atteggiamento nei confronti della terapia da qualche tempo sembravano essere considerevolmente migliorati, sì da spingere lo staff medico a ritenere non solo opportuno, ma addirittura necessario estenderne la libertà di movimento – anche per facilitare il graduale reinserimento in società del soggetto. Come accertato in sede giudiziaria nazionale, al momento della fuga fatale, infatti, il paziente non sembrava più rappresentare un pericolo per se stesso. Queste ricostruzioni sono ritenute dalla Corte di Strasburgo “esaurienti, pertinenti e convincenti, oltre che in linea con la propria giurisprudenza in materia”. In particolare, nessun segnale di rischio suicidario era mai stato manifestato dal soggetto durante la sua permanenza nell’ospedale psichiatrico, tanto che una sua ulteriore restrizione nel reparto chiuso sarebbe stata illegittima; i medici, quindi, non avevano alcuna ragione di sospettare che il paziente fosse incline al suicidio. Esclusa la prevedibilità dell’evento, dunque, viene esclusa anche la conseguente responsabilità dell’ospedale e, di conseguenza, dello Stato austriaco.
D’altra parte, la Corte osserva come la scelta dello staff ospedaliero di autorizzare il paziente a qualche passeggiata non supervisionata non possa essere considerata sintomo di negligenza, atteso che il suo stato mentale era migliorato; anche a livello internazionale, l’approccio alla cura delle malattie mentali prevede di concedere la massima libertà possibile ai pazienti, in modo facilitarne il reinserimento nella società. Anche dalla prospettiva della Convenzione, resta auspicabile assicurare un’ampia libertà ai malati, così da preservarne nel miglior modo possibile la dignità ed il diritto di autodeterminazione. In altre parole, è sempre necessario operare un bilanciamento tra i possibili vantaggi derivanti dall’applicazione di una terapia “aperta” e gli eventuali svantaggi di un simile approccio – quali il rischio di fuga del paziente o, peggio, qualche gesto autolesionista.
Per tali ragioni, la Corte nega una qualsivoglia violazione sostanziale dell’art. 2 imputabile all’Austria, ritenendo fondate le argomentazioni dalla Corte Suprema austriaca: una più severa restrizione della libertà di movimento del figlio della ricorrente si sarebbe essa stessa scontrata con le esigenze di tutela degli artt. 3, 5 e 8 della Convenzione.
Parimenti, viene esclusa un’eventuale violazione dell’art. 2 nel suo versante processuale, posto che nessun rimprovero può essere mosso alle corti domestiche riguardo allo svolgimento di adeguate indagini.
La sentenza in commento fornisce preziose indicazioni anche al penalista italiano, in relazione alla spinosa questione della responsabilità dello psichiatra per il suicidio del paziente.
Parte delle complessità in materia sorgono dal fatto che in questo tipo di responsabilità la determinazione dei presupposti della posizione di garanzia coincide con la stessa definizione delle regole cautelari cui il medico avrebbe dovuto attenersi, nel senso che in queste ultime devono ritrovarsi i limiti della prima: come si è perspicuamente osservato in dottrina, “ogni qual volta il medico si sia attenuto al dovere oggettivo di diligenza ricavato dalla  regola cautelare – e quindi l’evento avverso non sia a lui rimproverabile – viene a mancare, già a monte, un’omissione penalmente rilevante, non trovandoci al cospetto di una azione doverosa inosservata”.
In questo quadro, carico di incertezze, l’operatore giuridico è chiamato ad operare un bilanciamento tra due valori che talvolta, purtroppo, finiscono per scontrarsi: da una parte, il corretto svolgimento dell’attività psichiatrica, dove – come in generale nella ars medica, e forse non a torto – mancano precise linee guida che dettino puntualmente le doverose cautele; dall’altra, la protezione della vita, e prima ancora dell’incolumità, del paziente sottoposto alle cure mediche. Ma la doverosa tutela (discendente anche dallo stesso art. 2 Cedu) di questi ultimi beni, d’altro canto, deve fare i conti con il rispetto di altri valori costituzionalmente protetti, quali la libertà, l’autonomia e la dignità del paziente. E, dunque, la partita non potrà che giocarsi, caso per caso, sul filo della corretta ricostruzione delle regole cautelari che vincolano il medico: in quest’ottica, dunque, ben potranno venire in soccorso del penalista italiano le considerazioni svolte dalla Corte di Strasburgo circa la necessità di riscontrare, in capo allo psichiatra, una concreta prevedibilità dell’evento suicidario e, al contempo, di riconoscere l’evoluzione della scienza psichiatrica verso un approccio terapeutico di tipo “aperto”, nel quale la restrizione della libertà del paziente – anche se sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio – sia relegata davvero ad extrema ratio.

Fonte: www.penalecontemporaneo.it/DPC | La Corte di Strasburgo in materia di responsabilità del medico per ...

Tentato omicidio della convivente: no all’aggravante ex art. 577 c.p. prevista per il coniuge

Armato di coltello aggredisce la convivente, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 808 del 10 gennaio 2017, esclude che gli possa essere applicata l’aggravante prevista dall’art. 577 c.p. quando il reato è commesso contro il coniuge. Corretto, invece, qualificare il fatto come tentato omicidio e non come lesioni, a fare la differenza l’atteggiamento psicologico del reo e la potenzialità lesiva dell’azione.
L’aggravante prevista dall’art. 577 ultimo comma c.p. che prevede la reclusione da ventiquattro a trent’anni per chi uccide il coniuge non è applicabile al convivente more uxorio. Lo ha ribadito la Corte di cassazione con la sentenza in commento relativa ad una caso di tentato omicidio, annullando la sentenza della Corte territoriale che aveva diversamente deciso.
Inappuntabili le motivazioni a sostegno della decisione. Non è possibile ritenere, come ha invece fatto la Corte di appello, che l’evoluzione del costume sociale giustifichi l’equiparazione fra coniuge e convivente more uxorio se da tale equiparazione deriva l’applicazione analogica di una circostanza aggravante, con conseguente aumento della pena edittale. La norma penale sanzionatoria, infatti, è sottoposta al principio di legalità contenuto non solo nell’art. 2 c.p., ma soprattutto nell’art. 25 della Costituzione e, dunque, è del tutto insuscettibile di estensione analogica. Per tanto, l’interpretazione analogica ed estensiva dell’art. 577 c.p. è vietata dal principio di legalità della legge penale, ovvero da uno dei principali baluardi di un sistema democratico.
Nel caso concreto l’equiparazione fra coniuge e convivente more uxorio appare improponibile anche per altre ragioni. La Corte costituzionale, infatti, ha già escluso in passato che possano applicarsi al convivente more uxorio (persino) le norme penali di favore previste dal codice penale con riguardo al coniuge. Ci si riferisce all’art. 649 c.p. e alla sentenza della Corte costituzionale numero 352 del 2000, citata anche dalla sentenza in commento. Se si esclude che il convivente more uxorio possa avvantaggiarsi della causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p. a favore del coniuge non può, a maggior ragione, sostenersi che al convivente si applichino le circostanze aggravanti previste a carico del coniuge. Infatti, al di là della incompatibilità fra tale conclusione e i corollari del principio di legalità, l’evoluzione del costume sociale invocato dalla Corte di appello non ha trovato riconoscimento presso il Giudice delle leggi, neppure relativamente alle norme penali di favore.
La differenza di trattamento fra coniuge e convivente, sotto il profilo penale, ha resistito al vaglio della Corte costituzionale sul presupposto che non è irragionevole, né arbitrario che il legislatore “adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio contemplato nell’art. 29 della costituzione e per la convivenza more uxorio”, trattandosi di scelta che rientra nella discrezionalità dell’azione legislativa.
Se la sentenza della Corte costituzionale citata non è recentissima, risalendo al 2000, e se il costume sociale può essere da allora mutato, non va dimenticato che la Legge 20/05/2016, n. 76 che reca in rubrica “Regolamentazione delle unioni civili fra persone dello steso sesso e di disciplina delle convivenze” non ha operato alcun intervento per avvicinare la situazione della persona sposata a quella del convivente more uxorio quando ci si trovi di fronte al giudice penale, mentre è intervenuta per evitare che, nella materia penale, il coniuge abbia un trattamento differente rispetto al partner di un’unione civile fra persone dello stesso sesso.
Per tanto l’art. 577 c.p. rimane non applicabile al convivente more uxorio.
La sentenza in commento ha ricordato che la Corte di cassazione, in passato, aveva già considerato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 577 comma 2 c.p. sotto il profilo della disparita di trattamento fra coniuge e convivente more uxorio escludendo che la questione dovesse essere posta all’attenzione della Corte costituzionale.
Si dubita, in ogni caso, che una eventuale nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 577 c.p. possa trovare accoglimento.
Ancora una volta sono il principio di legalità e il divieto di retroattività che caratterizzano la norma penale incriminatrice ad impedire che un intervento della Corte costituzionale successivo alla commissione del fatto possa portare all’applicazione retroattiva di una aggravante. Infatti è escluso che la Corte costituzionale possa pronunciare sentenze additive in malam partem. Di conseguenza la Corte costituzionale non potrebbe estendere il trattamento sanzionatorio più severo previsto dall’art. 577 c.p. a situazioni che, nel momento in cui il fatto è stato commesso, non rientravano nell’ambito di applicazione della circostanza aggravante.
Solo un intervento del legislatore potrebbe, eventualmente, modificare la situazione.
Secondo tema di interesse affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in commento è quello della possibilità di configurare il reato di tentato omicidio, invece del reato di lezioni aggravate, pur in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato .
In proposito la giurisprudenza è monolitica nell’escludere che il dolo eventuale sia compatibile con il delitto tentato (ex pluribus Cass. pen. sez. VI, 20 marzo 2012, 14342, in CED Cassazione 2012; Cass. pen. sez. I, 31 marzo 2010, 25114, in CED Cassazione 2010). La sentenza in esame non si discosta dalla giurisprudenza richiamata supra. I supremi giudici operano una distinzione fra le ipotesi in cui l’evento si pone come accadimento possibile o probabile rispetto alla condotta tenuta dal reo e quelle in cui la condotta può portare all’evento ovvero integrare altra meno grave fattispecie (morte o lesioni aggravate), ma l’agente prevede e vuole alternativamente l’uno o l’altra. In quest’ultimo caso a muovere l’agente è il dolo diretto alternativo, del tutto compatibile con il reato tentato. Secondo quanto si legge nella motivazione, per verificare concretamente se ci si trovi di fronte ad una fattispecie di lesioni o ad un tentativo di omicidio vanno valutati l’atteggiamento psicologico del reo e la potenzialità lesiva dell’azione. A far propendere per l’omicidio tentato è la notevole potenzialità lesiva dell’azione testimoniata dal tipo di arma utilizzata (un coltello da cucina “apprezzato per le sue temibili caratteristiche e potenzialità lesive”), dalla direzione con la quale sono stati inferti i colpi (dall’alto vero il basso), dalle zone del corpo della vittima verso le quali i fendenti sono stati indirizzati (il volto e le reni), dal fatto che l’evento mortale non sia intervenuto perché la persona offesa è riuscita a parare alcuni dei fendenti con un cuscino e per il successivo intervento di un terzo che ha soccorso la vittima.
La Corte di cassazione, dunque, ancora una volta ha escluso che il delitto di omicidio tentato possa essere contestato in presenza di dolo eventuale. Essa, tuttavia, si è posta su quella consolidata scia giurisprudenziale secondo la quale non v’è dolo eventuale, ma dolo diretto, da intendersi sotto la forma del dolo diretto alternativo, nel caso in cui la condotta dimostri che l’agente si è prefigurato e ha voluto, alternativamente, sia la morte della vittima sia la commissione, a suo danno, del meno grave reato di lesioni. In presenza di un simile elemento psicologico si può configurare il reato tentato.

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/Tentato omicidio della convivente: no all’aggravante ex art. 577 c.p. prevista per il coniuge | Quotidiano Giuridico

lunedì 16 gennaio 2017

Vacanza rovinata? Una piccola guida per chiedere il risarcimento del danno

I casi più frequenti di vacanza rovinata sono collegati ai ritardi aerei, allo smarrimento di bagagli ma anche e soprattutto alla scoperta di aver prenotato la propria vacanza in una struttura alberghiera del tutto diversa da quella prospettata dall’agenzia viaggi.
In tutte queste ipotesi il termine “vacanza rovinata” sembra calzare a pennello e comporta il diritto – ormai acclarato – al risarcimento dei danni psico-fisici subiti dal turista  per non aver potuto godere pienamente delle proprie ferie, a causa di negligenze e/o ritardi.
Come richiedere in concreto il risarcimento del danno?
Esiste una modalità stragiudiziale – abbastanza rapida – per chiedere il risarcimento per il danno subito a causa della vacanza rovinata: innanzitutto vi è un termine utile di 10 giorni, a decorrere dal rientro, per redigere un reclamo, a mezzo racc a/r, con richiesta di rimborso e/o risarcimento, indirizzata sia all’agenzia di viaggi che al tour operator.
Se si è acquistato un pacchetto “all inclusive” bisogna scrivere all’organizzatore dell’ intero viaggio e non ai singoli fornitori dei diversi servizi: è sbagliato, ad esempio, indirizzare il reclamo alla compagnia aerea per lo smarrimento del bagaglio.
E’ importante, inoltre, conservare tutta la documentazione relativa al viaggio che può essere utilizzata per dimostrare che i servizi usufruiti dal turista sono ben diversi (peggiori) di quelli prospettati inizialmente dall’agenzia viaggi. A tal proposito è utile il catalogo con la descrizione dei servizi offerti.
Si ricorda che la tutela relativa al risarcimento per vacanza rovinata vale anche in caso di prenotazione del pacchetto on line e non effettuata personalmente in agenzia viaggi.
Se non si ottiene il rimborso cosa bisogna fare?
Qualora non si dovesse ottenere, con la rapida procedura descritta, il rimborso e/o il risarcimento del danno, occorre attivare la procedura giudiziale.

Fonte: www.leggioggi.it/Vacanza rovinata? Guida per risarcimento danni

Giudici di Pace in sciopero dal 26 gennaio al 1° febbraio 2017

A partire da giovedì 26 gennaio 2017, in corrispondenza con l'inaugurazione dell'anno giudiziario in Cassazione, entrano in sciopero per una settimana i giudici di pace. "Non siamo la Croce Rossa della Giustizia", si legge in una nota diramata dall'Unione nazionale giudici di pace, "senza il nostro apporto il sistema giudiziario collasserebbe ed il Governo continua a trattarci come "tappabuchi" della Giustizia. Pretendono dai giudici di pace un impegno lavorativo a tempo pieno, destinato ulteriormente ad aumentare con la recente riforma della magistratura di pace e cd. onoraria che graverà gli uffici del Giudice di Pace del peso ulteriore di circa la metà dell'attuale contenzioso civile dei Tribunali, ma continuano a denegarci qualsiasi diritto. Il Consiglio d'Europa, la Commissione Europea, il Parlamento Europeo hanno contestato al Governo l'illegittimità della nostra condizione lavorativa e, di recente, il Comitato europeo dei diritti sociali ha condannato l'Italia per violazione della Carta sociale europea, ossia del trattato internazionale che riconosce e garantisce i diritti fondamentali dei lavoratori". "Non si può ragionevolmente pensare", continua la nota del sindacato dei giudici di pace, "che oltre la metà della giurisdizione civile sia assegnata a magistrati privi delle più elementari guarentigie, precari della Giustizia a termine, senza previdenza e diritto alla pensione, senza tutele per maternità, malattia o infortuni sul lavoro. Abbiamo chiesto alla Commissione Europea, già da noi investita di plurime denunce, nonché di petizioni ed interrogazioni dal Parlamento Europeo, di essere sentiti in audizione per accelerare l'avvio della procedura di infrazione contro il Governo italiano". "La Giustizia di pace in Italia", conclude la nota, "è un'anomalia che non ha similitudini in nessun altro Paese europeo: magistrati che lavorano a tempo pieno senza diritti, con la vuota etichettatura di "onorari" che vorrebbe giustificare una vera e propria forma di sfruttamento di lavoro in nero".

Fonte: www.italiaoggi.it/Giustizia, dal 26 gennaio giudici di pace in sciopero - News - Italiaoggi

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...