mercoledì 28 dicembre 2016

Cassazione: se disturbano i vicini, i cani possono essere sequestrati

Cattivi odori e rumori molesti provocati dai cani? Il giudice può disporre il “sequestro preventivo”, perché gli animali sono considerati “cose pertinenti al reato” e potrebbero permettere alla loro proprietaria di continuare a commettere il reato di disturbo della quiete pubblica.
Il caso è avvenuto a Trieste, dove una donna è stata indagata, perché i suoi tre cani, tenuti in un cortile condominiale e in pessime condizioni igieniche, disturbavano la quiete dello stabile abbaiando e per di più i cattivi odori arrivavano alle finestre dei residenti. I condomini avevano quindi sporto denuncia e il tribunale si è pronunciato sulla vicenda, dopo che le autorità sanitarie hanno svolto le loro analisi e sono stati effettuati i rilievi fonometrici dell’Arpa.
Questo quanto deciso dal tribunale di Trieste e confermato dalla Cassazione, sollevando una questione tutt’altro che secondaria per chi possiede animali da compagnia: è possibile che i nostri compagni quadrupedi siano considerati delle “cose”, invece che degli esseri senzienti?
Secondo il giudice sì, tanto da poterne disporre il sequestro preventivo, in alcune fattispecie di reato. E a nulla è valsa l’opposizione della proprietaria dei cani, che ha sostenuto che l’allontanamento degli animali poteva provocare loro sofferenza da abbandono. Secondo il giudice, infatti, è stato prevalente l’interesse degli altri condomini alla quiete della loro casa.
Nessuna rilevanza, dunque, per la ipotetica sofferenza dei tre poveri cani sequestrati. Anzi, come hanno scritto i giudici della Cassazione: «la comunque non dimostrata e niente affatto pacifica e indiscutibile sofferenza dei cani derivante dall’allontanamento è priva di rilevanza rispetto alle esigenze umane, che sono tutelate dalle norme penali».
Il sequestro, infatti, non provocherebbe alcuna sofferenza per i cani, «i quali non vengono nè uccisi, nè feriti nè maltrattati, ma soltanto trasferiti».

Fonte: www.lastampa.it/Cassazione: se disturbano i vicini, i cani possono essere sequestrati - La Stampa

Gestisce la fidanzata ‘lucciola’: condannato

Lei fa la prostituta. Il compagno ne è pienamente consapevole, la accompagna sul luogo di lavoro, e anzi svolge il ruolo di ‘protettore’, arrivando a fissare i prezzi dei rapporti sessuali e interagendo coi clienti. Logica la condanna per l’uomo. Irrilevante il legame sentimentale con la donna. (Cassazione, sentenza n. 54507 depositata il 22 dicembre 2016)
Ruolo. Prima il gip in Tribunale e poi i giudici di Corte d’appello non mostrano alcun tentennamento: l’uomo, un rumeno di neanche 30 anni, va condannato per avere «favorito e sfruttato l’attività di prostituzione della sua fidanzata».
Questa visione viene però contestata dal difensore del presunto ‘protettore’. A suo dire non può essere trascurato il fatto che la ragazza liberamente ha deciso di «praticare la prostituzione, gestendone autonomamente i profitti» inviati al suo Paese d’origine, la Romania, per «il mantenimento della figlia» e «l’acquisto di beni».
Solo successivamente, quindi, secondo il legale, è entrato in azione il fidanzato della donna. Ma questa obiezione viene ritenuta irrilevante dai magistrati della Cassazione, che evidenziano, alla luce del quadro probatorio tracciato tra primo e secondo grado, il ruolo fondamentale svolto dall’uomo. Egli si occupava, spiegano i giudici, «della fissazione dei prezzi dei rapporti sessuali; del ritiro dei proventi; dell’aiuto nella predisposizione della pubblicità personale su internet; della gestione dell’appartamento» utilizzato dalla donna, e, infine, «della interlocuzione diretta con alcuni clienti».
Impossibile, quindi, per i magistrati, ritenere secondarie i compiti dell’uomo. Ciò comporta, ovviamente, la conferma della condanna per «favoreggiamento e sfruttamento» della fidanzata prostituta.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Gestisce la fidanzata ‘lucciola’: condannato - La Stampa

Vicino ai 90 anni e afflitto da patologie serie: eccessivo il carcere

Condannato per mafia e per omicidio. Destinato a rimanere per sempre in carcere. Ma la sua età e le gravi patologie che lo affliggono da tempo rendono la detenzione una punizione eccessiva. (Cassazione, sentenza n. 54446, depositata il 21 dicembre 2016).
Umanità. Respinta dal Tribunale di sorveglianza la richiesta di un detenuto – classe 1928 – finalizzata ad ottenere «il differimento dell’esecuzione della pena». L’uomo, condannato «a cinque anni e quattro mesi di reclusione per associazione mafiosa» e «all’ergastolo per omicidio», deve continuare a rimanere in carcere, quindi, nonostante la sua anzianità e il lungo elenco di patologie che ne minano la mente e il corpo.
Questa decisione viene però messa seriamente in discussione dai magistrati della Cassazione. Da tenere in considerazione, difatti, l’affermazione fatta dall’uomo: “Ormai sono ridotto a fine corsa”.
A dare peso a queste parole, sia chiaro, le «relazioni» redatte da diversi medici: da quei documenti emerge «il deterioramento fisico e neurologico» del detenuto, deterioramento in continuo sviluppo anche «a causa dell’età (87 anni)» dell’uomo.
A fronte di questo quadro appare «non ammissibile», secondo i magistrati, «mantenere in carcere una persona che non è in grado di percepire il senso stesso della detenzione». E in questo caso, peraltro, «la detenzione» pare caratterizzata da «una sicura prognosi di morte» e va valutata come «contraria al senso di umanità».

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lunedì 26 dicembre 2016

Nulla la cartella di pagamento senza motivazione degli interessi

La cartella di pagamento non preceduta da un avviso di accertamento deve contenere un’adeguata motivazione relativa agli interessi addebitati, con indicazione del tasso e del metodo di calcolo. In tal senso non può ritenersi sufficiente l’esposizione dell’anno d’imposta a cui la pretesa si riferisce o le norme in base alle quali gli stessi interessi sono stati calcolati, non spettando al contribuente l’onere di effettuare ricostruzioni particolari e attingere a nozioni giuridiche per conoscere le motivazioni della pretesa. In mancanza di una congrua e adeguata motivazione sugli interessi, la cartella di pagamento è nulla (per la parte che concerne i medesimi). Sono le conclusioni che si traggono dalla sentenza n. 24933/16 della Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate contro una sentenza della Ctr di Milano, che aveva confermato l’annullamento di una cartella di pagamento recante l’iscrizione a ruolo di interessi. La decisione dei giudici meneghini era fondata sulla mancata motivazione della cartella in relazione agli interessi stessi. Secondo la ricorrente Agenzia, invece, la cartella doveva ritenersi legittima e adeguatamente motivata, in conformità ai modelli ministeriali, contenendo il periodo d’imposta e i riferimenti per ricostruirne le modalità di calcolo.
La Cassazione ha respinto il ricorso, condannando l’amministrazione al pagamento delle spese di lite. La cartella non preceduta da un accertamento, spiega il collegio di legittimità, deve essere motivata in modo congruo e intellegibile, secondo le disposizioni contenute nell’articolo 7 della legge n. 212/2000. In particolare, per quanto attiene agli interessi, la cartella deve riportare l’indicazione «del tasso e del metodo di calcolo», in modo da consentire al contribuente un controllo agevole sulla correttezza dello stesso. Di contro, non è onere del cittadino ricostruire le motivazioni dell’atto, e quindi del calcolo degli interessi, attingendo a nozioni giuridiche che esulino dalla sua sfera di competenza e di pertinenza: per cui, l’indicazione dell’anno d’imposta, del provvedimento da cui derivano gli interessi o il richiamo alle norme in base a cui gli stessi sono stati calcolati non è sufficiente a rispondere all’obbligo di motivazione di cui al citato articolo 7 dello Statuto del contribuente.

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sabato 24 dicembre 2016

Imprenditore arrestato e assolto: risarciti anche danni commerciali e d’immagine

Danni economici e professionali, da un lato, e clamore mediatico, dall’altro, vanno presi in esame nel calcolo della cifra stanziata per risarcire la persona vittima di una detenzione assolutamente illegittima. Fondate le osservazioni proposte da un imprenditore meridionale, vittima di un clamoroso errore giudiziario. Destinata ad essere aumentata la somma, poco più di 100mila euro, stanziata in Appello come “riparazione per l’ingiusta detenzione”.
Carcere. Ricostruita la originaria vicenda giudiziaria, che ha obbligato l’uomo a trascorrere «77 giorni di custodia in carcere» e «88 giorni di arresti domiciliari». Una volta esclusa completamente ogni responsabilità penale, è logica la sua richiesta di un adeguato ristoro economico per l’«ingiusta detenzione» subita. Positiva la risposta dei giudici, che riconoscono all’uomo oltre 100mila euro.
Nonostante questa cifra, però, l’uomo non si ritiene soddisfatto, sostenendo la «risarcibilità» dei «pregiudizi patrimoniali» subiti in ambito imprenditoriale da lui e dalla moglie e dei danni riportati a causa dello ‘strepitus fori’, cioè la pubblicità negativa frutto del clamore mediatico che ha accompagnato la notizia del suo «arresto».
Ebbene, i magistrati della Cassazione ritengono condivisibili le obiezioni mosse dall’uomo (Cassazione, sentenza n. 53734/2016, depositata il 19 dicembre scorso). Ciò perché «la liquidazione dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione» va «svincolata da parametri aritmetici o, comunque, da criteri rigidi» ma si deve invece «basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, comprese le sofferenze morali e la lesione della reputazione». E in effetti, in questa vicenda, emerge «l’evidenza data dai mezzi di comunicazione alla notizia dell’arresto» dell’uomo, molto conosciuto come «imprenditore nel settore del trasporto turistico».
Da rivedere e da aumentare, quindi, la cifra di 100mila euro fissata in Appello come «indennizzo».

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mercoledì 21 dicembre 2016

Alcoltest: avviso al difensore anche in caso di rifiuto

Anche in caso di rifiuto all'etilometro è necessario informare il conducente della facoltà di farsi assistere da un legale. E' quanto emerge dalla sentenza della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione del 21 novembre 2016, n. 49236.
Come risaputo, secondo quanto stabilito dall'art. 114 disp. Att. c.p.p., nel procedere al compimento degli atti indicati nell'art. 356 c.p.p., la polizia giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia.
Con riferimento alla fattispecie del rifiuto al sottoporsi agli accertamenti, di cui all'art. 186, comma 7, cod. strad., non si ritiene applicabile, secondo giurisprudenza, l'obbligo di dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere dal legale (Cass. pen., Sez. IV, 26 settembre 2014, n. 43845).
Ma tale ultimo principio, secondo gli ermellini, deve essere rivisitato: come affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza del 29 gennaio 2015, n. 5396, il conducente deve essere avvisato di detta facoltà “prima” di procedere all'accertamento mediante etilometro; il sistema delle garanzie scatta nel momento in cui la polizia giudiziaria procede all'accertamento per via strumentale – che ha natura indifferibile e urgente – del tasso alcolemico del conducente del veicolo. Ovvero, il diritto all'avvertimento sorge nel momento in cui i verbalizzanti decidono di procedere all'accertamento strumentale ed invitano il conducente a sottoporsi alle prove spirometriche.
Conseguentemente, l'avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore deve essere rivolto dagli organi di Polizia stradale al conducente del veicolo deve essere dato anche in caso di rifiuto all'effettuazione dell'accertamento da parte dell'interessato, posto che ciò che rileva è il momento in cui viene fatta richiesta al conducente di sottoporsi all'accertamento.

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Diritto all'oblio: no per casi giudiziari gravi

Non si può invocare il diritto all'oblio per vicende giudiziarie di particolare gravità e il cui iter processuale si è concluso da poco tempo. In questi casi prevale l'interesse pubblico a conoscere le notizie. Con questa motivazione, il Garante privacy ha dichiarato infondata la richiesta di deindicizzazione di alcuni articoli presentata da un ex consigliere comunale coinvolto in un'indagine per corruzione e truffa.
Una vicenda iniziata nel 2006 e conclusasi (per lui) nel 2012 con sentenza di patteggiamento e pena interamente coperta da indulto. Di fronte al no di Google di accogliere le sue richieste di deindicizzazione, l'ex consigliere aveva presentato un ricorso al Garante chiedendo la rimozione di alcuni url che risultavano digitando il suo nome e cognome nel motore di ricerca e che facevano riaffiorare l'indagine in cui era rimasto coinvolto. A suo dire, non ricoprendo più incarichi pubblici e operando in un settore privato, la permanenza in rete di notizie, risalenti a circa dieci anni prima e ormai prive di interesse, gli avrebbero arrecato un danno all'immagine, alla vita privata e all'attuale attività lavorativa.
Nel rigettare la richiesta, l'Autorità, alla luce delle Linee guida dei Garanti europei, ha rilevato che sebbene il trascorrere del tempo sia la componente essenziale del diritto all'oblio, questo elemento incontra un limite quando le informazioni di cui si chiede la deindicizzazione siano riferite a reati gravi e che hanno destato un forte allarme sociale. Le richieste vanno quindi valutate con minor favore, anche se devono essere analizzate caso per caso.
Nella circostanza specifica nonostante fosse trascorso un certo lasso di tempo dai fatti riportati negli articoli, ha sottolineato l'Autorità, meritava considerazione il fatto che la vicenda giudiziaria si fosse definita solo pochi anni prima. Oltre a ciò, alcuni url riattualizzavano la notizia richiamandola in articoli relativi ad una maxi inchiesta sulla corruzione pubblicati fino al 2015 e la loro relativa attualità dimostra l'interesse ancora vivo e attuale dell'opinione pubblica.
(Garante della Privacy, newsletter 12 dicembre 2016, n. 422)

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Moglie via di casa: addebitabile a lei la separazione

Battaglia giudiziaria tra i coniugi. Terreno di scontro è soprattutto quello relativo all’addebito della separazione. E su questo fronte la fuga della donna rende più solida la versione data dal marito, secondo cui la separazione è stata frutto del comportamento tenuto dalla moglie.
Convivenza. Una volta preso atto che l’addio è inevitabile, il marito ritiene sia tutta colpa della moglie, allontanatasi senza motivo, a suo dire, dalla loro casa.
Per i giudici d’appello, però, la «domanda di addebito» della «separazione» proposta dall’uomo nei confronti della consorte va respinta. Tale decisione è poggiata su un dato: «per la pronuncia di addebito della separazione è necessaria non solo l’esistenza di una violazione degli obblighi tra coniugi nascenti dal matrimonio» ma anche «l’esistenza di uno stretto rapporto di causalità tra tale violazione e l’elemento della intollerabilità della convivenza» tra moglie e marito.
Questo ragionamento, però, va rivisto, sostengono i giudici della Cassazione (ordinanza numero 25966 depositata il 15 dicembre 2016). Ciò perché laddove ci si trovi di fronte, come in questa vicenda, all’«allontanamento dalla casa coniugale», è automatico parlare di «violazione dell’obbligo di convivenza», con relativo «addebito» al coniuge che ha abbandonato l’abitazione familiare.
Per smentire questa visione, quindi, dovrà essere la donna, in questo caso, a provare, dinanzi ai giudici d’appello, la «giusta causa dell’allontanamento», facendo riferimento ad esempio a «un comportamento negativo del marito», per evitare l’«addebito della separazione».

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L’assoluzione penale non fa venir meno la sospensione della patente

La sospensione provvisoria della patente, per guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, resta anche qualora l’interessato venga assolto nel procedimento penale. Così a stabilito la Cassazione con la sentenza n. 25870/16 del 15 dicembre.
Il caso. Il Prefetto ricorre per cassazione avverso la sentenza del Tribunale che, in accoglimento dell’appello, rilevava che l’imputata era stata assolta in procedimento penale perché «la positività alla cocaina riscontrata con l’esame delle urine poteva essere riconducibile ad assunzioni pregresse anche di alcuni giorni per cui non vi erano elementi certi di uno stato di alterazione psico-fisica». La sentenza impugnata statuiva che era necessario svolgere ulteriori prelievi ematici e con altri liquidi biologici prelevati in triplice provetta e con le garanzie di legge a sostegno dell’accertamento effettuato.
Con il ricorso, il Prefetto denuncia violazione degli artt. 223, 187, 19 cds perché il giudizio civile aveva ad oggetto solo la legittimità del provvedimento cautelare.
La sospensione della patente di guida. Il nuovo codice della strada attribuisce specificamente la natura di sanzione amministrativa alla sospensione della patente di guida, prevedendo un regime particolare qualora questa sanzione acceda ai reati contro la persona per violazione delle norme di circolazione, regime che affida l’applicazione della sanzione amministrativa al giudice penale chiamato a conoscere del reato connesso, ripristinando poi la competenza dell’autorità amministrativa qualora siano assenti i presupposti per l’intervento del giudice penale.
La sospensione provvisoria della patente di guida è però misura cautelare di esclusiva spettanza prefettizia, preventiva e strumentale alla tutela dell’incolumità e dell’ordine pubblico e, per ciò stesso, oggetto di un iter procedimentale che riconosce all’Amministrazione la facoltà di adottare provvedimenti cautelari, anche prima dell’effettuazione della comunicazione dell’avviso del procedimento agli interessati, così escludendo anche la necessità di dar ingresso alle eventuali osservazioni di questi, che, altrimenti, ricorrerebbe alla stregua delle regole generali – di cui agli artt. 3, 7, comma 1, 8 e 10 l. n. 241/90, art. 204 cds, art. 18 l. n. 689/81. Il ricorso è accolto.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/L’assoluzione penale non fa venir meno la sospensione della patente - La Stampa

lunedì 19 dicembre 2016

Sciopero Giudici di pace, adesioni con punte fino al 100%

È cominciato oggi, 19 dicembre, lo sciopero dei giudici di pace. In una nota l'Unione nazionale giudici di pace rende noto che circa l'85-90% dei giudici di pace hanno aderito allo sciopero, con punte in alcuni uffici fino al 100%. L'Unione manifesta il suo “disappunto nei confronti del ministro della Giustizia Orlando che malgrado le reiterate proteste e scioperi dei giudici di pace continua a disinteressarsi del problema, nonostante la giustizia di pace tratti e definisca non meno del 40% del contenzioso giudiziario in Italia”. Le azioni di protesta, fa sapere l'Unione, “si intensificheranno nelle prossime settimane aumentando il disagio della popolazione e provocando la paralisi della giustizia della gente comune”.

Fonte: www.ilsole24ore.com/www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoCivile/2016-12-19/sciopero-giudici-pace-adesioni-punte-fino-100percento-162055.php

Danneggia più volte le ruote dell’auto di una donna: condannato per stalking

A causa di vecchi rancori un uomo prende di mira l’automobile di una donna. La rabbia lo spinge a bucare le ruote della vettura in ben cinquantuno diverse occasioni. Questa assurda, ossessiva costanza però gli costa carissima: la sua condotta viene catalogata come stalking in piena regola.
La costanza nel danneggiamento. La strana vicenda si volge nell’arco di quasi un anno. In quel periodo l’uomo prende di mira l’automobile di proprietà di una sua vecchia conoscente, e in diverse occasioni si attiva per danneggiarne le ruote. Quel comportamento, però, coi mesi diventa ossessivo: per ben cinquantuno volte la donna si ritrova con l’automobile inutilizzabile a causa degli pneumatici danneggiati. Logico che ella cerchi di individuare il colpevole, che poi, finalmente, viene colto sul fatto.
L’ossessività del danneggiamento. Dalla strada si passa alle aule di giustizia, e il fronte giudiziario si rivela assai gravoso per l’uomo. A suo carico, difatti, l’ipotesi di «stalking», frutto della «reiterazione del danneggiamento» della vettura. E a sancire la colpevolezza definitiva dell’uomo provvedono ora i magistrati della Cassazione, confermando in via definitiva la condanna sancita in Corte d’appello (Cassazione, sentenza n. 52616, sezione Quinta Penale, depositata il 13 dicembre 2016).
In sostanza, vengono posti in evidenza due elementi: «il numero esorbitante di danneggiamenti agli pneumatici» e «la loro reiterazione ossessiva». Essi hanno ovviamente provocato sulla «parte offesa» il «duplice effetto» di «molestia» e di «minaccia futura». Di conseguenza, si può parlare a ragion veduta di «atti persecutori», anche, anzi soprattutto, alla luce delle «paure» manifestate dalla donna.

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Accertamenti bancari ko per gli autonomi

In tema di accertamenti bancari, basati sui prelievi e versamenti sul conto corrente non giustificati, la presunzione reddituale vale soltanto nei confronti degli imprenditori e non dei lavoratori autonomi: la dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 32, primo comma, n. 2, ha travolto, infatti, l’equiparazione tra imprese e autonomi e rappresenta uno jus superveniens, promuovendo i propri effetti sulle cause in corso. È quanto si legge nella sentenza n. 24862/16 della Corte di cassazione. La vicenda nasce dal ricorso proposto da un lavoratore autonomo della provincia di Ragusa, contro un avviso di accertamento basato sulle indagini finanziarie e sulla mancata giustificazione, analitica dei movimenti riscontrati sui conti correnti bancari nell’anno 2007. Gli accertamenti bancari erano stati estesi anche ai lavoratori autonomi, con la disposizione apportata dall’art. 1, comma 402, della legge 311/2004, che aveva aggiunto la locuzione «o compensi» (richiamando dunque ai componenti positivi di reddito degli autonomi), alla già presente previsione normativa. Dopo vicende alterne nei gradi di merito, il contribuente impugnava la sentenza della Ctr di Palermo che aveva accolto parzialmente il suo appello, rideterminando la pretesa erariale in una misura inferiore. Nel ricorso per Cassazione, si evidenziavano le sostanziali novità sulla materia, avutesi per effetto della sentenza 24/9- 6/10 2014, n. 228 (G.U. 8/10/ 2014, n. 42-Prima serie speciale) della Corte costituzionale. Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo periodo del citato articolo 32, limitatamente alle parole «o compensi». In particolare, la sentenza rilevava l’incongruenza della doppia correlazione prelevamento=costo, e costo=compenso, propria di tale presunzione accertativa, poiché essa mal si attaglia alla produzione di reddito di lavoro autonomo, ove non a ogni costo corrisponde, concettualmente, la percezione di un compenso. Con tale pronuncia della Consulta, dunque, è venuta meno l’estensione anche ai lavoratori autonomi della presunzione accertativa. La modifica, spiega la Cassazione, deve considerarsi uno jus superveniens e produce effetti sulle controversie in corso. La sentenza della Ctr di Palermo è stata dunque cassata, con rinvio ad altra sezione per procedere anche alla decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

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venerdì 16 dicembre 2016

Condannato per stalking il padre che obbliga la figlia a sottoporsi a continue visite mediche

La Corte di Cassazione si è espressa in merito alla configurabilità del reato di stalking in capo ad un genitore che obbliga la figlia a sottoporsi a continue visite mediche e contesta ossessivamente il ruolo genitoriale della madre.
Il caso. In secondo grado la Corte d’appello ha condannato l’imputato per il delitto di cui stalking oltre che al risarcimento dei danni nei confronti della ex compagna, costituitasi parte civile, in quanto, con reiterate minacce e molestie, le aveva causato un grave stato di ansia unito a un fondato timore per l’incolumità dei propri familiari e aveva causato nella figlia minorenne disturbi nella sfera emotiva-affettiva e una grave patologia dell’accudimento. Contro il provvedimento della Corte d’appello, l’uomo ha presentato ricorso per cassazione.
Secondo la Suprema Corte, è evidente il carattere persecutorio delle condotte che il ricorrente esercitava nei confronti sia della ex compagna (della quale contestava con modalità ossessive il ruolo genitoriale) sia della figlia, sottoposta a continue visite mediche che avevano causato una crisi sfociata, poi, in un ricovero. Gli stessi medici che si erano occupati della vicenda su incarico del Tribunale per i minorenni ovvero su richiesta del padre avevano definito l’atteggiamento dell’uomo nei confronti della minore “maniacale” e lo avevano avvisato della necessità di esercitare un controllo razionale sul suo “istinto di cure”.
La reiterazione delle molestie e minacce da parte del ricorrente è indice ulteriore della consapevolezza che tali comportamenti avrebbero indotto nella ex compagna un grave e perdurante stato di ansia e paura oltre ad avere gravi ripercussioni negative nei confronti della figlia. Né risulta possibile configurare alcuna patologia che possa incidere sull’elemento soggettivo del reato, aspetto che non è stato preso in considerazione neanche dalla difesa dell’uomo, o applicare la scriminante che esclude la punibilità in caso di esercizio di un diritto o adempimento di un dovere.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Condannato per stalking il padre che obbliga la figlia a sottoporsi a continue visite mediche - La Stampa

giovedì 15 dicembre 2016

La giurisprudenza sul mantenimento del figlio maggiorenne

Il dovere al mantenimento dei figli è sancito dall'art. 30 della Costituzione, dagli artt. 147 e ss. c.c. e, indirettamente, dall’art. 315 bis, comma 1, c.c. che impongono ad ambedue i genitori l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Non vi è alcuna norma nell’ordinamento che preveda che tale obbligo specifico dei genitori possa cessare con il raggiungimento della maggiore età del figlio, e, fino a poco tempo fa, al contempo, non vi era alcuna norma che espressamente prevedesse che il figlio dovesse essere mantenuto, dai genitori, oltre la maggiore età.
Successivamente, la L. n. 54/2006 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento”, all'art. 155-quinquies, aveva statuito che "il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico". Tuttavia, tale norma è stata abrogata dall’art. 106, D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 che ha, contestualmente, introdotto l’art. 337 septies che stabilisce “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, e' versato direttamente all'avente diritto…”.
Ad oggi quindi l’ordinamento stabilisce con gli artt. 147 e 315 bis che vi è un vero e proprio diritto di solidarietà che tutela un interesse fondamentale dell’individuo a ricevere un aiuto concreto nel corso della sua formazione e crescita, per ogni esigenza di vita e di formazione. Inoltre, con l’art. 337 septies stabilisce che il giudice “può” disporre il pagamento di un assegno periodico in favore del figlio maggiorenne non economicamente indipendente. La scelta del Legislatore di individuare in capo al giudice un potere discrezionale, da esercitare a seconda delle circostanze del caso concreto, ha dato vita ad una giurisprudenza sul punto, tale da orientare le decisioni.
Il mantenimento del figlio è un obbligo che i genitori hanno in solido, e, nel loro rapporto interno, come recitano le norme di riferimento richiamate, lo ripartiscono in proporzione alle proprie sostanze patrimoniali e alla capacità lavorativa.
In base a quanto previsto dal legislatore, l'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, consiste sia nelle spese ordinarie sia in quelle straordinarie e, in particolare, riguarda le spese concernenti istruzione e formazione, in quanto, per la giurisprudenza, è proprio rispetto al consolidamento da parte del figlio, di una posizione appagante a livello professionale, in considerazione del proprio percorso di studi, che si definisce il termine ultimo di corresponsione del mantenimento.
Il mantenimento quindi ha un contenuto ampio, tale da ricomprendere, nello specifico, sia le spese ordinarie della vita quotidiana (vitto, abbigliamento, ecc.) sia quelle relative all’istruzione e persino quelle per lo svago e le vacanze.
La lettura combinata quindi degli artt. 30 Cost., 147, 315 bis e 337 septies c.c. porta a concludere che vi è un obbligo di mantenimento dei figli che permane oltre la maggiore età e un diritto del figlio ad essere mantenuto, fino a che, completata l’istruzione, possa avere gli adeguati strumenti per realizzare la propria indipendenza economica.
L’obbligo dei genitori di mantenere un figlio maggiore di età, oltre che nelle fonti richiamate, trova una declinazione concreta nell’elaborazione della giurisprudenza, che, nonostante alcune oscillazioni, ad oggi sembra avere un orientamento piuttosto consolidato.
I limiti al mantenimento: l'indipendenza economica ed il completamento del percorso di formazione professionale
Il raggiungimento della maggiore età dei figli non rappresenta più il termine ultimo della corresponsione del mantenimento, ma quest’ultimo è condizionato dal raggiungimento di un'autosufficienza economica tale da provvedere autonomamente alle proprie esigenze di vita, in correlazione al completamento di un fruttuoso percorso di studio.
Va richiamata, prima di tutto, sia per l’importanza della pronuncia in sé sia perché è la più recente, nell’ambito delle decisioni di merito, la statuizione della nona sezione del Tribunale di Milano, nella quale viene disposto, per la prima volta, che con il superamento di una certa età, "il figlio maggiorenne, anche se non indipendente, raggiunge comunque una sua dimensione di vita autonoma che lo rende, semmai, meritevole dei diritti ex art. 433 c.c. ma non può più essere trattato come 'figlio', bensì come adulto". Ciò viene motivato sulla base del dovere di autoresponsabilità del figlio maggiorenne che non può pretendere la protrazione dell'obbligo al mantenimento oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché "l'obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione" (Cass. n. 18076/2014; Cass. SS.UU. n. 20448/2014). Tale obbligo, secondo la pronuncia del Tribunale di Milano è, "in linea con le statistiche ufficiali, nazionali ed europee" non può protrarsi dunque "oltre la soglia dei 34 anni", età a partire dalla quale "lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non - può - più essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento, dovendosi ritenere che, da quel momento in poi, il figlio stesso possa, semmai, avanzare le pretese riconosciute all'adulto". Il Tribunale fornisce anche alcuni spunti interessanti in merito alla valutazione delle circostanze che giustificano la ricorrenza o il permanere dell'obbligo dei genitori al mantenimento dei figli maggiorenni, asserendo che la valutazione del giudice deve essere orientata in modo da “escludere che la tutela della prole, sul piano giuridico, possa essere protratta oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, al di là dei quali si risolverebbe, com'è stato evidenziato in dottrina, in "forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani".
In relazione alle ultime pronunce della giurisprudenza di legittimità, va invece richiamata una recente pronuncia della Cassazione, (Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 12 aprile 2016, n. 7168) in cui viene sancito che l’obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli maggiorenni, secondo le regole dettate dagli artt. 147 e 148 cod. civ., cessa a seguito del raggiungimento, da parte di quest’ultimi, di una condizione di indipendenza economica che si verifica con la percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita ovvero quando il figlio, divenuto maggiorenne, è stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta. Quindi la giurisprudenza concentra la propria attenzione sui limiti del concetto di indipendenza del figlio maggiorenne, statuendo che non qualsiasi impiego o reddito (come il lavoro precario, ad esempio) fa venir meno l'obbligo del mantenimento (Cass. n. 18/2011), sebbene non sia necessario un lavoro stabile, essendo sufficienti un reddito o il possesso di un patrimonio tali da garantire un'autosufficienza economica (Cass. n. 27377/2013). In particolare la giurisprudenza di merito ha avuto modo di specificare che l'obbligo del genitore – separato e/o divorziato – di concorrere al mantenimento del figlio maggiorenne può ritenersi estinto solo esclusivamente a seguito del comprovato raggiungimento da parte del figlio medesimo di un'effettiva e stabile indipendenza economica ovvero della sua dimostrata colposa inerzia nell'attuazione o prosecuzione di un valido percorso di formazione e/o studio. In particolare, il Tribunale di Savona ha osservato che la percezione da parte del figlio di somme di denaro di modesta entità a seguito dell'espletamento di attività lavorative saltuarie e/o "a chiamata" non può integrare il presupposto dell'indipendenza economica, atteso che gli emolumenti sono rimessi di fatto alla determinazione unilaterale del datore di lavoro” (Tribunale Savona 27 gennaio 2016).
In relazione invece ai profili che riguardano l’acquisizione di una professionalità del figlio ed una collocazione nel mondo del lavoro adeguata alle sue aspirazioni, la giurisprudenza, ritiene pacifico, già da tempo, che, affinché venga meno l'obbligo del mantenimento, lo status di indipendenza economica del figlio può considerarsi raggiunto in presenza di un impiego tale da consentirgli un reddito corrispondente alla sua professionalità e un'appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento, adeguata alle sue attitudini ed aspirazioni (v. Cass. n. 4765/2002; n. 21773/2008; n. 14123/2011; n. 1773/2012). Correlativamente quindi, se il figlio coltiva delle aspirazioni e voglia intraprendere un percorso di studi per il raggiungimento di una migliore posizione e/o carriera, ciò non può non fa venir meno il dovere al mantenimento da parte del genitore (Cass. n. 1779/2013). È esclusa, invece, dalla Cassazione l'attribuzione del beneficio ricondotta a "perdita di chance" perché la stessa travisa l'interpretazione dell'istituto del mantenimento che è destinato a cessare una volta raggiunto uno status di autosufficienza economica con la percezione di "un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato" (Cass. n. 20137/2013).
Si ritiene opportuno, per completezza, fare un breve cenno all’ipotesi in cui il figlio, ancora non autosufficiente economicamente, contragga matrimonio.
In tale ipotesi l’obbligo di mantenimento da parte del genitore non si interrompe in modo automatico, ma è sempre necessaria una sentenza di revisione delle condizioni di separazione/divorzio rispetto a cui il genitore ha l’onere di provare “che il figlio ha raggiunto l’indipendenza”, oppure “che è stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua (discutibile) scelta”. (Tribunale di Perugia, sentenza 27 luglio 2015).
Va dato conto, in ultimo, anche dell’ipotesi in cui, venute meno le circostanze poste a presupposto del mantenimento del figlio maggiorenne, a seguito del raggiungimento della piena autosufficienza economica del figlio maggiorenne, si verifichi la sopravvenienza di circostanze ulteriori che determinano l'effetto di renderlo momentaneamente privo di sostentamento economico. In tale ipotesi, secondo la giurisprudenza consolidata, non può risorgere l'obbligo "potendo sussistere al massimo, in capo ai genitori, un obbligo alimentare" (Cass. n. 2171/2012; n. 5174/2012; n. 1585/2014).
L’ipotesi in cui l’obbligo di mantenimento venga meno per negligenza del figlio
Nell’analisi della tematica del mantenimento del figlio maggiorenne va anche ricostruito il rilevante profilo che attiene alla interruzione dell’obbligo di mantenimento quando ciò avvenga a causa di una condotta del figlio stesso. Infatti, per indirizzo costante e unanime della giurisprudenza e della dottrina, l'obbligo perdura sino a quando il mancato raggiungimento dell'autosufficienza economica, non sia causato da negligenza o non dipenda da fatto imputabile al figlio. Per cui, è configurabile l'esonero dalla corresponsione dell'assegno, laddove, posto in concreto nelle condizioni di raggiungere l'autonomia economica dai genitori, il figlio maggiorenne abbia opposto rifiuto ingiustificato alle opportunità di lavoro offerte (Cass. n. 4765/2002; Cass. n. 1830/2011; Cass. n. 7970/2013), ovvero abbia dimostrato colpevole inerzia prorogando il percorso di studi senza alcun rendimento (nella fattispecie la Corte, con sentenza n. 1585/2014, ha escluso il diritto al mantenimento del figlio ventottenne che aveva iniziato ad espletare attività lavorativa, ancorché saltuaria, e non frequentava con profitto il corso di laurea a cui risultava formalmente iscritto da più di otto anni).
Il versamento del mantenimento direttamente al figlio maggiorenne
Con l’introduzione dell’art. 155 quinquies c.c. (L. n. 54/2006 c.d. Legge sull’affido condiviso), il Legislatore aveva previsto che l’assegno di mantenimento in favore del figlio maggiorenne non economicamente indipendente fosse versato direttamente all’avente diritto.
Sul punto, la Corte di Cassazione si era pronunciata più volte chiarendo che il Giudice, laddove, sia stato richiesto il versamento diretto al figlio maggiorenne non è tenuto per legge a concederlo; la decisione è sempre affidata alla discrezionalità del Giudice e alla valutazione del caso concreto (Cass. n. 20408, 2011). Inoltre, la giurisprudenza aveva anche statuito che la madre potesse agire personalmente per ottenere il contributo al mantenimento del figlio maggiorenne da parte dell’altro genitore, in quanto titolare di un diritto proprio ad essere sostenuta economicamente nel mantenimento del figlio non economicamente indipendente, con lei convivente nella casa familiare (Cass. n. 19607/2011). Infine la Cassazione aveva stabilito che il Giudice potesse disporre il versamento diretto del mantenimento al figlio maggiorenne solo su istanza del figlio stesso, (Cass. n. 25300/2013).
Era evidente quindi che l’orientamento era volto a stabilire che il coniuge obbligato al mantenimento non può chiedere di versarlo direttamente al figlio.
La questione è stata definitivamente risolta nel 2014, con l’abrogazione dell’art. 155 quinquies c.c. (con D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154); in tal modo è stato fugato ogni dubbio sulla questione, escludendo la possibilità che il genitore obbligato al mantenimento possa automaticamente, al compimento del diciottesimo anno di età del figlio, iniziare a versare l’assegno direttamente allo stesso. Pertanto, attualmente solo il figlio maggiorenne può, ove lo desideri, chiedere al Giudice di disporre il versamento diretto a sé del proprio mantenimento.
Tutto ciò è, evidentemente, finalizzato ad evitare che il versamento diretto al figlio maggiorenne da parte del genitore onerato possa essere strumentalizzato per sottrarsi al proprio obbligo al mantenimento.
La legittimazione ad agire per far valere in giudizio il diritto al mantenimento
Una questione controversa in dottrina e in giurisprudenza è quella inerente il soggetto legittimato a far valere in giudizio il diritto del figlio maggiorenne al mantenimento, considerato che l'art. 155-quinquies c.c. disponeva il versamento dell'assegno "all'avente diritto".
La Cassazione (Cass. n. 18844/2007; n. 23590/2010) mostrava un atteggiamento di favore riguardo all'intervento del figlio maggiorenne ma non autonomo nel giudizio (di separazione o divorzio) pendente tra i propri genitori al fine di far valere il proprio diritto al mantenimento (realizzando così un "simultaneus processus"). Va detto che, sia in vigenza del regime precedente che di quello attuale, l'orientamento maggioritario ritiene "tuttora sussistente la legittimazione del coniuge convivente ("concorrente" o "straordinaria") ad agire iure proprio nei confronti dell'altro genitore, in assenza di un'autonoma richiesta da parte del figlio" per richiedere il versamento dell'assegno (Cass. n. 9238/1996; Cass. n. 11320/2005; cass. n. 359/2014; Cass. n. 921/2014; Cass. n. 1805/2014).
In una recente pronuncia di merito sul punto, la giurisprudenza asserisce che “Il diritto alla separazione è stato riconosciuto dalla giurisprudenza come situazione giuridico-soggettiva che realizza la personalità dell'individuo e quindi si tratta di un diritto personalissimo; anche in regime di amministrazione di sostegno, il beneficiario, può compiere atti personalissimi, poichè la misura non comporta la perdita della titolarità di tali diritti e di conseguenza neppure l'esercizio. Non è necessario disporre l'integrazione del contraddittorio nei confronti del figlio maggiorenne in quanto costui, pur essendo legittimato ad intervenire nel procedimento al fine di formulare in suo favore apposita domanda di riconoscimento di tale contributo nonchè di pagamento diretto dello stesso a norma dell'art. 337-septies cc, facoltà che non ha ritenuto di esercitare, non può ritenersi litisconsorte necessario bensì titolare di una legittimazione alternativa e concorrente con quella della madre”. (Tribunale Bari, sez. I, 7 ottobre 2015, n. 4205).
L'onere della prova spetta al genitore
Ai fini dell'esenzione dall'obbligo di mantenimento è necessario un provvedimento del giudice (Cass. n. 13184/2011; Tribunale di Modena 23 febbraio 2011).
L'onere probatorio, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, spetta al genitore che chiede di essere esonerato dall'obbligazione ex lege, il quale deve fornire "la prova che il figlio è divenuto autosufficiente, ovvero che il mancato svolgimento di attività lavorativa sia a quest'ultimo imputabile (Cass. n. 2289/2001; Cass. n. 11828/2009).
Recentemente, la giurisprudenza ha precisato che “Il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa non solo quando il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l'autosufficienza economica, ma anche quando lo stesso genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita” (Cass. civ., sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1858).

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/La giurisprudenza sul mantenimento del figlio maggiorenne | Quotidiano Giuridico

L’ingegnoso raggiro per incassare i rimborsi dei biglietti ferroviari

Un raggiro ingegnoso eseguito usando i codici di una carta di credito di una ragazza, reperiti non si sa come, e sfruttando le falle dei sistemi di prenotazione di Italo.
È ciò di cui è accusato S.T., 27 enne originario della provincia di Napoli ma residente a Ferrara – gravato peraltro da precedenti specifici -, rinviato a giudizio dal gup Silvia Marini per il reato di detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici. Secondo la procura di Ferrara il giovane avrebbe ottenuto in qualche modo i codici della carta di credito di una ragazza residente nella provincia di Perugia e con questi avrebbe effettuato tramite l’app mobile e il call center delle prenotazioni per alcuni viaggi in treno – tutti in prima classe e a nome di diverse persone – nelle tratte Bologna-Milano e Bologna-Napoli.
Ma non è finita qui. Perché S.T. – difeso dall’avvocato Emiliano Mancino – poco dopo richiamava il call center e disdiceva la prenotazione (ecco perché prendeva i biglietti in prima classe) e si faceva riaccreditare le somme spese ma non nella carta usata per l’acquisto bensì direttamente nel suo conto corrente. La somma contestata è di poco meno di 870 euro.
La società di trasporto pare non abbia mai fatto storie all’atto del riaccredito, nonostante l’evidente discrepanza tra il nome della titolare della carta con cui veniva effettuata la prenotazione e quello del conto corrente a cui venivano ‘restituiti’ i soldi. Tutto nasce infatti dalla denuncia della ragazza che ha notato nel suo estratto conto una serie di addebiti per spese che non aveva mai effettuato. Gli inquirenti – coordinati dal pm Ciro Alberto Savino – sono riusciti ad arrivare a S.T. grazie agli unici due dati personali rilasciati: il numero di cellulare da cui veniva effettuata la prenotazione e un indirizzo email.
Se ne riparlerà in aula il 20 febbraio.

Fonte: www.estense.com/L’ingegnoso raggiro per incassare i rimborsi dei biglietti ferroviari | estense.com Ferrara

Scontro mortale tra mezzi pesanti, rinvio a giudizio per un camionista

È stato rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio colposo il camionista che tamponò un altro mezzo pesante fermo nella piazzola di sosta per dare assistenza a un terzo camion in avaria, causando la morte del conducente di quest’ultimo mezzo.
I fatti risalgono all’11 novembre del 2015. Quinto Pittori si dovette fermare per un’avaria al suo camion nel tratto di A13 tra Ferrara e Occhiobello, in direzione Bologna. Un altro mezzo pesante si accostò a sua volta, verosimilmente per dare una mano a Pittori, ma lasciando un tratto del camion in mezzo alla carreggiata. Mentre Pittori stava controllando l’avaria sul retro del suo mezzo, il terzo camion con alla guida Karoly Szuda – l’odierno imputato, difeso dall’avvocato Emiliano Mancino, non riuscì a frenare in tempo e l’impatto fu inevitabile e, purtroppo, tragico.
Szuda – 52enne ungherese, al momento irreperibile – viaggiava a una velocità di poco superiore al limite: 85 km/h anziché gli 80 prescritti e i risultati delle analisi sull’eventuale assunzione di droghe o alcool furono tutti negativi. Secondo la procura, oltre al limite non rispettato (seppure di poco), il camionista non aveva tenuto la corretta distanza di sicurezza che gli avrebbe fatto evitare il tamponamento. Per questo dovrà rispondere di omicidio colposo. La prima udienza sarà a marzo.
Gli eredi di Pittori si sono nel frattempo già costituti parte civile.

Fonte: www.estense.com/Scontro mortale tra mezzi pesanti, rinvio a giudizio per un camionista | estense.com Ferrara

sabato 10 dicembre 2016

Consegnata l’auto nuova, difetti riscontrati due giorni dopo: prezzo restituito al compratore

Dura pochissimo la soddisfazione per l’automobile nuova appena acquistata. Appena 48 ore dopo la consegna del veicolo, il nuovo proprietario nota alcune anomalie poco gradite, tra cui una portiera riverniciata. Immaginabile la rabbia, e legittima la pretesa avanzata nei confronti della concessionaria, cioè ottenere la risoluzione del contratto e la restituzione del prezzo versato, cioè oltre 22mila euro.
Difetti. Secondo l’acquirente dell’automobile – una ‘Alfa Romeo’ – è evidente che le stranezze riscontrate testimoniano che «il veicolo era stato precedentemente coinvolto in un incidente» e quindi riparato velocemente. E questa visione, nonostante l’opposizione della concessionaria, viene ritenuta condivisibile dai giudici, prima in Tribunale e poi in Appello.
Consequenziale la decisione con cui viene dichiarata «la risoluzione del contratto», sancendo il diritto del compratore ad ottenere «la restituzione della somma versata», di poco superiore ai 22mila euro.
Per i giudici non vi sono dubbi sul fatto che i «difetti», cioè «portiera anteriore sinistra riverniciata, pannello interno montato e rimontato, parafango non collimante con il cofano», rinvenuti «subito dopo l’acquisto» erano «presuntivamente già esistenti al momento della consegna del veicolo». Anche perché è poco plausibile che nelle 48 ore in cui l’automobile era stata nella disponibilità del nuovo proprietario «fosse stata danneggiata e subito dopo riparata».
Deprezzamento. Inevitabile, in sostanza, secondo i giudici, la «risoluzione» del contratto. Ciò perché «i vizi» evidenziati dal compratore rappresentano «un difetto di integrità estetica e funzionale del bene, che ne comportava un significativo deprezzamento, tale da integrare l’ipotesi di un inadempimento di non scarsa importanza».
E questa valutazione è condivisa e fatta propria anche dai magistrati della Cassazione, che respingono tutte le obiezioni mosse dai legali che rappresentano la concessionaria (Cassazione, sentenza n. 24731/2016, depositata il 2 dicembre 2016).
Plausibile, innanzitutto, la ricostruzione fatta dal compratore: «l’automobile presentava dei vizi a distanza di uno, due giorni dalla consegna», e quindi è logico presumere che «quei vizi fossero presenti già al momento della vendita». Altrettanto corretto affermare, spiegano i giudici di Cassazione, che, «stante il brevissimo lasso di tempo intercorso tra la consegna dell’auto e la verifica della sussistenza dei vizi», «era inverosimile che in tale limitatissimo periodo di tempo la vettura fosse stata danneggiata per effetto della circolazione da parte del nuovo proprietario e che essa fosse stata altresì riparata».
Legittimo, infine, anche affermare, concludono i magistrati, che quei «vizi», «non particolarmente visibili nell’occasione in cui veniva ritirata l’automobile» cioè «di sera», sono una testimonianza chiara della «rilevanza dell’inadempimento del venditore, alla luce del sicuro deprezzamento del veicolo acquistato nuovo».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Consegnata l’auto nuova, difetti riscontrati due giorni dopo: prezzo restituito al compratore - La Stampa

venerdì 9 dicembre 2016

Molestie sul lavoro: l’onere della prova si inverte se la molestia è presumibile in base ai “fatti”

È nullo, perché discriminatorio, il licenziamento determinato dal rifiuto della lavoratrice di sottostare alle molestie sessuali del proprio datore di lavoro, con applicazione del particolare regime probatorio presuntivo previsto dall’art. 40 d.lgs. 198/2006 per le discriminazioni.
È quanto ha stabilito la Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza in esame.
Nello specifico, il datore di lavoro lamentava, in sede di legittimità, la violazione e falsa applicazione degli artt. 26 e 40 d.lgs. 198/2006, per avere la sentenza impugnata ritenuto che alle molestie sessuali di cui all’art. 26, a lui ascritte, si applicasse il regime probatorio dell’art. 40, secondo cui "quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione".
In sostanza, per il ricorrente l’assimilazione delle molestie alle discriminazioni non comprende anche l’applicazione del particolare regime probatorio previsto dall’art. 40, ossia il trattamento differenziale.
La Corte ha confermato che l’equiparazione tra molestie sessuali e discriminazioni “poco si presta, per mancanza del trattamento differenziale, a riflettersi anche sul piano della ripartizione dell’onere della prova”.
Tuttavia, ha osservato che se le discriminazioni (di varia natura) “ben possono emergere dal tertium comparationis costituito dal trattamento positivamente praticato rispetto ad altre categorie di lavoratori”, in caso di molestie sessuali ai danni della lavoratrice “il tertium comparationis non è che non esista del tutto, ma è costituito da un trattamento differenziale negativo (ossia il non avere i lavoratori maschi patito molestie sessuali) che ha una valenza presuntiva logicamente minore”.
Ma tale considerazione non può inficiare la doverosa applicazione della regola probatoria di cui all’art. 40, essenzialmente perché il legislatore non ha ritenuto di dover limitare, ridimensionare, o diversamente puntualizzare all’art. 40 l’equiparazione operata all’art. 26 comma 2 d.lgs. 198/2006 (e in tal senso militano anche l’art. 19 dir. 2006/54/CE, l’art. 10 dir. 2000/78/CE e la sentenza della Corte di Giustizia 17.7.08, C-303/06, Coleman).
In conclusione, "la doverosità di una esegesi conforme alla normativa euro-unitaria, come interpretata dalla Corte di Giustizia, impone di ritenere estesa l’equiparazione delle molestie sessuali alle discriminazioni di genere anche in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio”.
Nella fattispecie, pertanto, correttamente i giudici del merito hanno ravvisato la prova presuntiva delle molestie sessuali nelle plurime deposizioni offerte da giovani lavoratrici (che hanno riferito di molestie a loro danno, di analoga natura, subito dopo l’assunzione), e nell’esasperato turn over tra le giovani dipendenti (che dopo un breve periodo di lavoro si dimettevano senza apparente ragione).

Fonte: www.altalex.com/Molestie sul lavoro: l’onere della prova si inverte se la molestia è presumibile in base ai “fatti” | Altalex

Società inadempiente e le azioni di tutela dei calciatori non retribuiti: il caso AC Pisa

Sembra essere finita in un vicolo cieco la proprietà dell'Ac Pisa, che ha lasciato, da alcuni mesi, i propri dipendenti senza stipendi. Non solo i calciatori, ma tutto il personale. Una situazione finanziaria impensabile, specialmente dopo la promozione in Serie B, quella che sta coinvolgendo dirigenti, calciatori e tifosi del Pisa.
Allora, la domanda che ci dobbiamo chiedere è la seguente: “quali sono i diritti di un calciatore di fronte al mancato pagamento della retribuzione da parte del proprio datore di lavoro?”
La risposta ci è stata già fornita dai giocatori stessi fuori dal campo, annunciando, nei giorni scorsi, di voler ricorrere all'art. 13 dell'Accordo Collettivo e, in seguito, inviando, di fatto, una diffida alla società : i proprietari del club saranno tenuti a regolarizzare la situazione entro il 16 ottobre, altrimenti scatterà la messa in mora.
La norma dell'A.C. stabilisce, infatti, che la mancata corresponsione della retribuzione rappresenti un motivo di risoluzione del contratto, ove l'inadempimento si protragga oltre il ventesimo giorno successivo a quello previsto per il pagamento; il calciatore, a questo punto, potrebbe mettere in mora la società tramite lettera raccomandata A.R., da spedire, in copia e con le stesse modalità, alla Lega.
Ad ogni modo, nel caso in cui la società provveda al pagamento entro 20 giorni dal ricevimento della raccomandata, la risoluzione non potrà più ricorrere. Nel caso contrario, il calciatore, per ottenerla, dovrà fare richiesta al Collegio Arbitrale entro il trentesimo giorno successivo ovvero, persistendo la morosità, entro il 20 giugno della stagione sportiva in corso. Inoltrando il ricorso, il calciatore non sarebbe più tenuto alla prestazione sportiva, anzi avrebbe il diritto di sospenderla e di svincolarsi dal club.
Una volta dichiarata la risoluzione del contratto, il calciatore avrebbe diritto, a titolo di risarcimento del danno, a ricevere una somma corrispondente alla retribuzione fissa ancora dovuta, fino alla scadenza del contratto o fino alla data di efficacia di un nuovo contratto con un'altra società ovvero di accordo con una società dilettantistica, se questi dovessero ricorrere prima della scadenza del contratto.
Al calciatore spetterebbe, altresì, il diritto a percepire una somma determinata, secondo equità, dal CA, tenendo conto della parte variabile della retribuzione e dei premi collettivi maturati.

Fonte: www.altalex.com/Società inadempiente e le azioni di tutela dei calciatori non retribuiti: il caso AC Pisa | Altalex

Caricatori per pistola, obbligo di denuncia oltre 15 colpi

La settima sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 45992 del 30 settembre 2016, depositata in data 2 novembre 2016, ha affermato che attualmente, per la detenzione dei caricatori, l’obbligo di denuncia (i sensi degli artt. 38, comma primo, T.U.L.P.S. e 697 cod. pen. dall’art. 3, commi 3 septies e 3 octies, d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43), all’autorità di pubblica sicurezza viene limitato alla detenzione dei “soli” caricatori in grado di contenere un numero superiore a cinque colpi per le armi lunghe ed a quindici colpi per le armi corte, essendo stata prevista dall’art. 2, comma 2, cod. pen. la depenalizzazione , della condotta di detenzione abusiva di caricatori per armi comuni da sparo che non superano i suddetti limiti.

Per scaricare la sentenza clicca qui:45992_2016.pdf

Fonte: www.momentolegislativo.it

Poste, dal 10 gennaio 2017 aumenta il costo delle raccomandate

Dal 10 gennaio 2017 aumenta il costo di raccomandate e assicurate spedite tramite Poste Italiane. Un annuncio è comparso sul sito delle Poste: la classica raccomandata per l’Italia, in particolare, passerà da 4,50 a 5 euro.
Ecco più in dettaglio le modifiche tariffarie:
1) Le tariffe della Posta Raccomandata saranno incrementate in tutti gli scaglioni di peso. Come già detto, la tariffa per gli invii fino a 20 grammi - a titolo di esempio - varierà da 4,50 a 5,00 euro. Tale incremento sarà applicato anche alle comunicazioni connesse alle notifiche; cambieranno anche, con varie modalità, le tariffe per alcuni prodotti raccomandati particolari (Raccomandata PRO e raccomandata Smart).
2) Aumentano anche le tariffe della Posta Raccomandata Internazionale; in particolare, la tariffa per gli invii fino a 20 grammi per la Zona 1 (Europa e Mediterraneo) varierà da 5,95 a 6,60 euro.
3) Le tariffe dell’Atto Giudiziario saranno incrementate in tutti gli scaglioni di peso. In particolare, la tariffa per gli invii fino a 20 grammi varierà da 6,60 a 6,80 euro.
4) Le tariffe della Posta Assicurata saranno incrementate negli scaglioni di peso successivi al primo (cioè oltre i 20 grammi) e per tutti i valori assicurati previsti. Ad esempio, la tariffa per gli invii di valore fino a 50 euro e di peso da 20 a 50 grammi varierà da 6,90 a 7,25 euro;
5) anche le tariffe della Posta Assicurata Internazionale saranno incrementate negli scaglioni di peso successivi al primo.
6) Inoltre, con riferimento ai servizi Pieghi di libri e Pieghi di libri a tariffa ridotta editoriale, ferme restando le rispettive tariffe di recapito (invariate), sarà incrementato il diritto di raccomandazione da 2,35 a 3,35 euro.

Fonte: www.lastampa.it/Poste, dal 10 gennaio 2017 aumenta il costo delle raccomandate - La Stampa

Basta la pianta o serve il principio attivo? Il caso della coltivazione domestica

In tema di coltivazione casalinga di canapa indiana e valutazione dell’offensività della condotta, la Corte di Cassazione prende posizione su due orientamenti contrastanti. Corte di Cassazione con la sentenza n. 51416/16 depositata il 2 dicembre.
Il caso. Un “coltivatore domestico” di marijuana veniva condannato in appello a 2 mesi e 10 giorni di reclusione. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione, con due ordini di motivi, di cui uno, infine accolto, era attinente al trattamento sanzionatorio applicabile all’imputato. Ma il secondo motivo di impugnazione è sicuramente di maggiore interesse.
Anche se la marijuana “non sballa”… L’uomo lamenta la mancata verifica, ad opera del Giudice d’appello, della effettiva offensività della condotta, e cioè, nel caso specifico, della concreta efficacia drogante della marijuana coltivata.
Esistono due orientamenti giurisprudenziali opposti: il primo prevede che l’offensività della condotta sia presumibile semplicemente dalla «conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine […] a produrre la sostanza stupefacente»; il secondo, invece, esige che l’effettiva e attuale capacità psicotropa della droga sia verificata nel caso concreto.
… la coltivazione domestica è illegale. La Corte di Cassazione con la sentenza n. 51416/16 depositata il 2 dicembre ritiene di doversi uniformare al principio di diritto per il quale è penalmente rilevante qualsiasi attività volta alla coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze psicotrope, anche quando finalizzata al consumo personale del coltivatore.
L’unica eccezione a quanto appena detto va considerata solo nell’ipotesi (invero residuale) in cui «la sostanza ricavata o ricavabile risulti priva della capacità ad esercitare, anche in misura minima, effetto psicotropo».
Nel caso di specie, tra l’altro, a parere della Corte non è verosimile la totale assenza di principio attivo nella marijuana, come invece allegato dal ricorrente, in quanto quest’ultimo era in possesso di «strumenti atti al confezionamento di droga da cedere a terzi» e delle foglie essiccate e teneva la pianta nascosta.
Per tali ragione la Corte ha respinto il primo motivo del ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Basta la pianta o serve il principio attivo? Il caso della coltivazione domestica - La Stampa

Canone RAI, chi non possiede la TV può comunicarlo entro il 31 gennaio 2017

C’è tempo fino al 31 gennaio 2017 per comunicare all’Agenzia delle Entrate il non possesso dell’apparecchio televisivo: lo ricorda la stessa Agenzia, specificando che per evitare il primo addebito e dover quindi chiedere il rimborso – infatti, la prima rata per il canone Tv del 2017 scade il prossimo gennaio – conviene presentare la dichiarazione sostitutiva entro il mese di dicembre.
Come noto, infatti, la Legge di Stabilità per il 2016ha introdotto la presunzione di possesso dell’apparecchio TV, per aggirare la quale è necessario presentare una dichiarazione sostitutiva il cui modello è disponibile sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate e della RAI: può presentarlo direttamente il contribuente oppure l’erede, tramite l’applicazione web messa a disposizione dalle Entrate, cui si accede con le credenziali Fisconline o Entratel, o ancora tramite gli intermediari abilitati. È altresì possibile inviare il documento con il servizio postale – qualora non si possa compilare telematicamente – allegando un valido documento di riconoscimento e spedendo il tutto con un plico raccomandato senza busta all’indirizzo: Agenzia delle Entrate Ufficio di Torino 1, S.A.T. – Sportello abbonamenti TV – Casella Postale 22 – 10121 Torino. La dichiarazione sostitutiva può essere firmata digitalmente e presentata anche tramite posta elettronica certificata all’indirizzo cp22.sat@postacertificata.rai.it. Va anche specificato che il modello di non detenzione ha validità annuale, e andrà quindi rinnovato ogni anno.

Fonte: www.fiscopiu.it/Canone RAI, chi non possiede la TV può comunicarlo entro il 31 gennaio 2017 - La Stampa

Fisco, rimborsi via sms per 2400 contribuenti

Più di 2400 gli italiani hanno già ricevuto un sms da parte dell’Agenzia delle entrate che li avvisa di verificare l’accredito di un rimborso fiscale. Il comunicato dell’Agenzia fa sapere che “si tratta solo di una parte dei 400mila cittadini che hanno finora fornito il numero del proprio telefonino nell’area riservata dei Servizi online dell’Agenzia delle entrate”. A dicembre arriverà il messaggio riguardante il pagamento dell'imposta di registro sui contratti di affitto, dove ci sarà scritto: “l’imposta di registro annuale sul suo contratto di locazione scade a dicembre. Le ricordiamo che ha 30 giorni dall’inizio della nuova annualità per il pagamento”.

Fonte: www.italiaoggi.it/Fisco, rimborsi via sms per 2400 contribuenti - News - Italiaoggi

giovedì 8 dicembre 2016

Legge di Stabilità 2017: il testo definitivamente approvato

Approvata in via definitiva la Legge di Stabilità 2017. Con 166 sì, 70 no e 1 astenuto, il Senato ha votato la fiducia al disegno di legge avente ad oggetto "Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019" (Atto Senato n. 2611).
Ricordiamo che a partire da quest'anno la manovra di finanza pubblica è operata con la sola legge di bilancio, che ora ricomprende anche la ex legge di stabilità.
A seguito dell'entrata in vigore della Legge 4 agosto 2016, n. 163, i contenuti della legge di bilancio e della legge di stabilità sono ricompresi in un unico provvedimento, costituito dalla nuova legge di bilancio, riferita ad un periodo triennale, la quale si articola in due sezioni:
la prima sezione svolge in sostanza le funzioni dell'ex disegno di legge di stabilità;
la seconda sezione ricalca quelle del disegno di legge di bilancio.
Alla manovra (il cui valore ammonta a complessivi 27 miliardi di euro con un disavanzo per i conti pubblici che nel 2016 salirà al 2,3% sul PIL) è collegato il cd. Decreto Fiscale (Decreto Legge 22 ottobre 2016 n. 193, convertito in Legge 1° dicembre 2016, n. 225) contenente misure di particolare urgenza, tra le quali l’avvio del processo di chiusura di Equitalia.
Ecco qui i punti più rilevanti dell'intera manovra:
Casa Italia: al via il piano di interventi relativi alle abitazioni, alla riqualificazione delle perifierie, alla prevenzione del dissesto idrogeologico e di ricostruzione post-sismica;
Edilizia: proroga di un anno per l'incentivo del 50% (ristrutturazioni) e di 5 anni per l'incentivo del 65% (ecobonus);
Equitalia: viene abolita la società le cui competenze vengono trasferite all'Agenzia delle Entrate;
Famiglia: dotazione di circa 600 milioni di euro per il sostegno ai nuclei familiari;
Industria 4.0: proroga del superammortamento; viene inoltre stabilito un "iperammortamento" al 250% per i beni digitali;
Ires: l'imposta sulle imprese scende dal 27,5% al 24% a partire dal 1° gennaio 2017 (il rinvio del taglio era previsto dalla Legge di Stabilità 2016);
Pensioni: nasce la cosiddetta APE, l'anticipo della pensione per chi ha versato 20 anni di contributi e decide di ritirarsi dal lavoro 3 anni prima; estensione della no tax area e della platea che godrà della cosiddetta quattordicesima;
Produttività: l'importo soggetto alla cedolare secca del 10% viene innalzato da 2mila a 3mila euro (e da 2.500 a 4.000 nel caso di aziende con coinvolgimento paritetico dei lavoratori);
Pubblico impiego: impegno pari a 1,9 miliardi di euro per il rinnovo dei contratti nella pubblica amministrazione, per le retribuzioni di forze armate, dei corpi di polizia e per nuove assunzioni;
Rai: il canone tv scende nel 2017 a 90 euro;
Studi di settore: al via la riforma che li trasforma in "indicatori di compliance", ossia indicatori della fedeltà fiscale del contribuente relativa agli anni precedenti con l'obiettivo di creare un sistema premiale;
Università: no tax area per gli studenti a basso reddito e borse di studio più consistenti (15mila euro) per quelli più meritevoli;
Voluntary disclosure: prorogato il regime dell'emersione volontaria con un gettito stimato di circa 2 miliardi di euro.

Fonte: www.altalex.com/Legge di Stabilità 2017: il testo definitivamente approvato | Altalex

Festività natalizie e diritto di visita, come gestire il Natale tra genitori separati

Le feste di Natale dei bambini figli di genitori separati partono da un grande distinguo: genitori residenti nel medesimo centro urbano e genitori distanti. Nel primo caso la gestione è abbastanza agevole, ovvero si alternano il 24 dicembre sera e il 25 dicembre pranzo, come pure il 31 dicembre sera e il primo gennaio a pranzo. Nei casi di distanza geografica è preferibile dividere in due la finestra temporale delle festività tra i due genitori, magari accordando due o tre giorni in più al genitore lontano presso cui i figli non sono prevalentemente collocati. Quanto ai nonni, stante la esiguità della finestra temporale, a differenza del periodo estivo, è preferibile che il loro diritto di visita aderisca a quello del genitore di riferimento.
Da quando partono le festività? Diciamo dal giorno di chiusura delle scuole e sarebbe preferibile che i figli facciano rientro presso la dimora prevalente almeno un paio di giorni prima della ripresa delle attività scolastiche.
Da che età minimo un genitore può tenere con sé i figli lontano dalla dimora prevalente? La Cassazione in generale indica un’età minima di 4 anni, in alcuni casi taluni tribunali di primo grado hanno abbassato tale limite ai tre anni. Molto dipende in buona sostanza dalla frequenza della casa del genitore non collocatario: se essa è frequente, non vi saranno problemi in riferimento ad un pernottamento prolungato per più giorni.
Il genitore non collocatario può portare i figli in vacanza col nuovo partner? Non vi è alcuna preclusione in tal senso, a condizione che il genitore riferisca il recapito delle vacanze e sia reperibile. In caso si tema un espatrio non autorizzato è opportuno segnalare l'identità del minore alle liste di frontiera, un’operazione che si può eseguire presso la Questura di residenza.
Cosa fare in caso il genitore collocatario non consente che i figli passino giorni di festa con l’altro genitore? Non bisogna ridursi agli ultimi giorni, attivando la Magistratura ordinaria, se è in corso un procedimento di separazione o divorzio, oppure il Giudice tutelare negli altri casi. Se la condotta è molto grave è auspicabile chiedere il risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 709 ter del codice di procedura civile.

Fonte: www.dirittominorile.it/Festività natalizie e diritto di visita, come gestire il...

Abbandonare il genitore malato è reato

Il Tribunale Penale di Firenze si è occupato di un interessante caso di “abbandono di persone minori o incapaci”, reato previsto e disciplinato dall’art. 591 cod. pen.
Nel caso esaminato dal Tribunale, i due figli di una donna erano stati imputati di tale reato, per aver abbandonato l’anziana madre, che era affetta da “psicosi cronica con deficit cognitivo”, omettendo di assisterla, nonostante l’intervento dei Carabinieri, cui la donna si era rivolta “in preda ad un delirio di persecuzione”.
I figli in questione, inoltre, non si erano nemmeno mai attivati al fine di “fornire alla madre, che si trovava a vivere isolata ed in stato di degrado materiale e morale, il necessario conforto e supporto, disinteressandosi della stessa, omettendo di provvedere affinché fosse tutelata la dignità dei luoghi ove l'anziana risiedeva (che si trovavano, invece, in condizioni di estremo degrado) ed omettendo perfino di farle visite periodiche”.
Secondo il Tribunale, dalla documentazione medica prodotta, si evinceva senz’ombra di dubbio che la donna si trovava in una condizione di “debolezza fisica e psichica” ed era rispetto a tali condizioni che si doveva misurare l’obbligo di garanzia cui erano tenuti i figli.
Precisava il Tribunale che il reato di cui all’art. 591 c.p. “consiste nell'abbandono volontario e consapevole, con conseguente esposizione a pericolo, della persona incapace, da parte dell'agente, gravato dell'obbligo giuridico di cura e latu sensu custodia”.
Alla luce di tali principi, il Tribunale riteneva che uno dei figli dovesse andare assolto, in quanto aveva quantomeno richiesto la nomina di un amministratore di sostegno per la madre e aveva mantenuto contatti informativi con i servizi sociali, andando anche a far visita all’anziana madre mentre questa era ricoverata presso il reparto di psichiatria dell’ospedale.
Quanto all’altro figlio, invece, il medesimo andava condannato, in quanto egli aveva giustificato la propria assenza e il disinteresse manifestato, unicamente sul rilievo secondo cui era sua moglie a non voler in casa la suocera.
Tale figlio, inoltre, “conosceva bene le condizioni di incapacità psichica di sua madre”, ma nulla aveva fatto per aiutarla né era mai andato ad interessarsi di lei presso i Servizi sociali o in ospedale durante il ricovero.
Dunque, risultato “pacificamente provata la totale omissione di condotte di protezione da parte sua, pur essendo consapevole delle condizioni in cui sua madre viveva con esposizione a pericolo”, il Tribunale riteneva di dover affermare la penale responsabilità dell’imputato, “per avere violato il dovere di custodia e assistenza ex art. 591 co.1, aggravato dalla relazione parentale ex comma 4”.
Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale assolveva uno dei figli, il quanto “il fatto non costituisce reato”, mentre condannava l’altro a otto mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Fonte: www.brocardi.it/Abbandonare il genitore malato è reato - Diritto penale - Notizie Giuridiche - Brocardi.it

mercoledì 7 dicembre 2016

Proclamato nuovo sciopero dei Giudici di Pace dal 19 al 22 dicembre

Oggetto: Proclamazione dell’astensione nazionale dalle udienze dei Giudici di Pace dal 19 al 22 dicembre 2016
Avendo vanamente esperito le procedure di raffreddamento previste dall’articolo 7 del Codice di autoregolamentazione per l’esercizio dello sciopero e delle astensioni dalle attività giudiziarie dei giudici di pace come da lettere del 4 novembre 2016 e del 29 novembre 2016, e malgrado il recente sciopero della categoria tenutosi dal 21 al 25 novembre 2016, nel prendere, per l’ennesima volta, atto del comportamento reiteratamente lesivo od omissivo del Ministro della Giustizia, malgrado gli impegni assunti nel corso degli incontri avuti con le organizzazioni di categoria, e del Presidente del Consiglio dei Ministri a danno della categoria in materia di corretta amministrazione della Giustizia, di garanzie di indipendenza del giudice, di riconoscimento dei più elementari diritti di lavoro (previdenza, equo compenso, continuità sino all’età pensionabile, tutela della maternità e della salute…), di osservanza dei precetti fondamentali statuiti dalla Costituzione e delle principali Istituzioni Europee (Commissione Europea, Parlamento Europeo, Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e Corte di Giustizia Europea) e Mondiali (O.N.U.);
nel rilevare che l’attuale Governo, pur avendo preannunciato le dimissioni all’indomani della sconfitta referendaria, è ancora in carica con pieni poteri e, in ogni caso, vi resterà anche nelle vesti di Governo dimissionario sino al giuramento di un nuovo Governo, eventualmente all’esito delle elezioni politiche;
con la presente l’Unione Nazionale Giudici di Pace proclama lo sciopero nazionale dei giudici di pace dal 19 al 22 dicembre 2016.
La scrivente organizzazione, premesso che:
la magistratura ordinaria, alla quale la magistratura di pace appartiene a pieno titolo, costituisce un ordine unico, investito di funzioni e poteri equivalenti; non esiste una giustizia onoraria, semmai una Giustizia che funziona ed una giustizia che non funziona; i giudici di pace chiedono il rispetto della Costituzione, nonchè delle raccomandazioni e decisioni delle più alte Istituzioni Internazionali (Organismo delle Nazioni Unite, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, Commissione Europea, Parlamento Europeo e Corte di Giustizia Europea), alla luce delle quali la Giustizia, in qualsiasi grado e da chiunque espletata, esige, al fine di garantire l’imparzialità e professionalità del giudice, a tutela dei cittadini che vi accedono, il riconoscimento a tutti magistrati dei diritti fondamentali della continuità del servizio sino all’età pensionabile, di un trattamento economico adeguato, delle tutele previdenziali ed assistenziali, delle garanzie ordinamentali di autonomia degli uffici e di indipendenza del giudice;
DENUNCIA quanto segue
In data 29 aprile 2016 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, serie generale, n. 99, la legge 28 aprile 2016, n. 57, di “delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria ed altre disposizioni sui giudici di pace”, senza, peraltro, che il Ministro della Giustizia Orlando abbia tenuto fede all’impegno assunto nel dicembre 2015 di ascoltare le organizzazioni di categoria prima della sua approvazione definitiva in Parlamento; a tale legge è già stata parziale attuazione con decreto legislativo del 31 maggio 2016, n. 92; tali provvedimenti legislativi si appalesano come altamente lesivi dei diritti dei giudici di pace e dei principi di indipendenza del giudice e di autonomia degli uffici; in particolare:
Tutte le istanze di categoria, pur fatte tempestivamente pervenire ai competenti organi governativi, sono state respinte, malgrado la presentazione, sia in Senato che alla Camera dei Deputati, da parte di tutte le forze politiche, ivi compresi senatori e deputati appartenenti ai partiti di maggioranza, di numerosi emendamenti che miravano a rendere il testo di riforma compatibile con il dettato costituzionale e con la vincolante normativa comunitaria sul lavoro a tempo determinato ed a tempo parziale; in particolare:
Con una disposizione manifestamente lesiva del principio comunitario di non discriminazione (clausola 4 della direttiva comunitaria 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato) è stato prevista una generica ed inconsistente forma di previdenza, incompatibile con la natura professionale dell’attività lavorativa prestata dai magistrati di pace, nonchè che tutti i futuri oneri contributivi ricadano su di essi, in violazione della sentenza della Corte di Giustizia Europea del 1° marzo 2012, O’Brien, C-393/10;
Con altra disposizione, parimenti lesiva del principio comunitario “pro rata temporis” (commisurazione del trattamento economico e pensionistico al tempo effettivamente impiegato nell’esercizio delle funzioni, con specifico riguardo al trattamento del magistrato di carriera – vedasi sempre la clausola 4 della direttiva comunitaria 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato e la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 1° marzo 2012, O’Brien, C-393/10), è stata conferita una delega in bianco al Governo sulla determinazione dei compensi dei magistrati onorari e di pace, vincolandola agli attuali stanziamenti di bilancio, del tutto inadeguati;
Allo stato il Governo non intende stanziare i fondi necessari per garantire l’osservanza dell’ordinamento comunitario, atto dovuto, non esonerando i vincoli di bilancio da responsabilità lo Stato Italiano nel caso di violazioni di norme comunitarie secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea;
Con ulteriore disposizione, sempre lesiva del principio comunitario di non discriminazione, è stato abbassato ulteriormente il limite di età dei giudici di pace e di tutti gli altri magistrati onorari in servizio a 68 anni, malgrado le rassicurazioni in senso contrario del Ministro Orlando, peraltro rese pubbliche sul sito internet del suo Dicastero, così ponendo i magistrati medesimi nell’impossibilità di raggiungere l’età pensionabile, attualmente fissata in 70 anni sia per i magistrati di carriera che per gli avvocati, anche in violazione degli articoli 1, 2 e 6 della Direttiva comunitaria 2000/78/CE del 27.11.2000;
Già nel decreto legislativo del 31 maggio 2016, n. 92, è stato abbassato il limite di età a 68 anni, con la conseguenza che il giorno successivo i giudici di pace che avevano compiuto 68 anni sono cessati dall’incarico, in violazione della sentenza della Corte di Giustizia Europea C-286/12 del 6 novembre 2012;
Il medesimo decreto legislativo non riconosce, da subito, i quattro mandati quadriennali previsti dall’articolo 2, comma 17, restando incerta, allo stato, l’effettiva attuazione della delega conferita;
Con una disposizione immediatamente precettiva (articolo 5 della legge) è stato conferito ai presidenti di Tribunale il coordinamento degli uffici del Giudice di Pace, in aperta lesione dei principi costituzionali di autonomia degli uffici e di indipendenza del giudice, peraltro omettendo di prevedere disposizioni per la fase transitoria, così ponendo da subito i capi dell’ufficio nell’impossibilità di garantire l’ordinata transizione dal previgente assetto organizzativo degli uffici, diretti dai giudici di pace coordinatori, referenti e delegati, al nuovo regime di direzione dei Presidenti di Tribunale, che può avvalersi nell’esercizio dei suoi poteri solo di magistrati di carriera, cancellando con un “colpo di spugna”, in violazione dell’articolo 97 della Costituzione, le tabelle di composizione degli uffici, con tutti i gravissimi disservizi che si sono verificati negli ultimi mesi, destinati ad accentuarsi in conseguenza dell’impossibilità del Presidente di Tribunale o dei magistrati delegati di assicurare la quotidiana presenza negli uffici del Giudice di Pace, di fatto privi di organi direttivi;
In violazione dell’articolo 3 della Costituzione, e del principio di ragionevolezza ad esso sotteso, il Governo, nel determinare la composizione delle sezioni autonome dei consigli giudiziari, ha semplicemente confermato il numero di componenti magistrati onorari giudicanti già oggi previsto nelle sezioni autonome relative ai giudici di pace, senza tenere in alcun conto della circostanza che, a seguito dell’accorpamento dei magistrati onorari di tribunale ai giudici di pace, mediante l’adozione della nuova e inconsistente denominazione di giudici onorari di pace, che già ha suscitato ilarità nella stampa e presso tutti gli addetti alla Giustizia, il numero dei magistrati onorari giudicanti è raddoppiato, e, secondo elementari nozioni di logica, avrebbe dovuto essere raddoppiato il numero dei componenti nelle sezioni autonome dei consigli giudiziari, anche in considerazione dell’enorme mole di lavoro che tali nuovi organi di autogoverno della magistratura, a livello distrettuale, dovrà sbrigare, con un aumento delle competenze calcolabile prudenzialmente in non meno del 500% delle attuali pratiche assegnate alle sezioni autonome
Il restante testo della contestata legge di riforma presenta ulteriori e numerosi aspetti di assoluta criticità, quali, in via meramente esemplificativa: a) l’incostituzionale potere dei magistrati professionali di impartire direttive ai magistrati onorari nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali, in aperta violazione dell’articolo 101 Costituzione; b) la previsione, parimenti incostituzionale, di retrocessione, dopo il primo quadriennio, dei giudici di pace in servizio ai compiti, di natura prevalentemente amministrativa e di sostegno, conferiti ai magistrati applicati nell’ufficio del processo, applicazione che potrà avvenire anche senza consenso del magistrato onorario, al pari delle applicazioni e dei trasferimenti di ufficio (violazione, in quest’ultimo caso, del principio costituzionale di inamovibilità del giudice); c) previsione di licenziamento in tronco, mascherato sotto l’eufemismo della dispensa d’ufficio, dei magistrati onorari che per cause di forza maggiore (gravidanza, grave malattia) dovranno assentarsi dall’ufficio per 6 mesi; etc…
Nel frattempo le più alte istituzioni europee, su istanza, denuncia o reclamo delle organizzazioni di categoria o di singoli magistrati, hanno avviato plurime procedure volte ad accertare le lamentate violazioni di diritto comunitario, in particolare:
a) con decisione del 5 luglio 2016, pubblicata il 16 novembre 2016, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, su reclamo n. 102/2013 dell’Associazione Nazionale Giudici di Pace, ha accertato all’unanimità che la legislazione italiana viola il principio di non discriminazione previsto dall’articolo E in combinato disposto con l’articolo 12 della Carta Sociale Europea, ossia un trattato internazionale vincolante ai sensi dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione, deliberando che i giudici di pace, sotto il profilo delle funzioni, dei doveri e del lavoro svolto, sono equiparabili ai magistrati professionali, con particolare riguardo al diritto inviolabile ad un trattamento previdenziale ed assistenziale corrispondente, anche in materia di tutela della maternità, della paternità e della salute; b) tutte le menzionate questioni sono attualmente all’esame della Commissione Europea, alla quale sono state presentate plurime denunce di infrazione per violazione delle richiamate disposizioni comunitarie e al riguardo la CE ha già avviato un EU Pilot (protocollo n. CHAP(2015)00364); c) la Commissione Europea è stata, altresì, più volte investita dalla Commissione per le petizioni del Parlamento Europeo, ai sensi dell’articolo 216, comma 6, del Regolamento, del compito di svolgere indagini e fornire informazioni al Parlamento Europeo sulle medesime questioni sopra esposte e sollevate in numerose petizioni dichiarate ricevibili e presentate da giudici di pace (petizioni nn. 1328/2015, 1376/2015, 0044/2016, 0214/2016 e 0889/2016 – le petizioni nn. 1328/2015 e 1376/2015 attualmente sono la terza e quarta petizione più sostenute nel Parlamento Europeo); d) in relazione ai punti evidenziati alle lettere a), b) e c) l’eurodeputato Salvatore Domenico Pogliese (PPE) ha presentato in Parlamento Europeo una interrogazione prioritaria con richiesta di risposta scritta alla Commissione Europea in data 28 novembre 2016, n. P-008844/2016; e) sono attualmente pendenti numerose procedure giudiziarie interne, dinanzi al giudice ordinario e amministrativo, presentate da singoli magistrati od organizzazioni di categoria, con richieste espresse e motivate di sollevare pregiudiziali dinanzi alla Corte di Giustizia Europea, sempre in relazione alle denunciate violazioni della normativa comunitaria sul lavoro subordinato ed alla luce dell’ inequivocabile e vincolante contenuto interpretativo della sentenza della CGE del 1° marzo 2012, O’Brien, C-393/10, con particolare riguardo alla configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato anche in capo ad un magistrato cd. onorario o laico.
Con lettera di messa in mora del 28 novembre 2016 l’Unione Nazionale dei Giudici di Pace ha diffidato il Ministro della Giustizia Orlando ed il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ad adempiere alla decisione del Comitato Europeo dei Diritti Sociali del 5 luglio 2016 sul reclamo n. 102/2013, adottando ogni dovuto atto, eventualmente a mezzo di decreto legge, sussistendone tutti i presupposti, anche in presenza di un Governo dimissionario. Anche a tale diffida il Governo non ha dato riscontro alcuno.
In conclusione, non possiamo che rilevare, con disagio e fermo disappunto, che il Ministro della Giustizia Orlando ha disatteso ogni parola data, facendo approvare una legge delega di riforma della magistratura cd. onoraria che va esattamente nella direzione opposta da quanto promesso negli incontri, di mera facciata, avuti negli ultimi anni con le organizzazioni di categoria ed elaborato in occasione delle elezioni politiche del 2013 come programma elettorale del suo stesso partito di appartenenza.
Tale volontà mortificatrice del Ministro Orlando e del Governo appare ancor più incomprensibile alla luce dei dati statistici di efficienza degli uffici divulgati dal Ministero della Giustizia, sia in sede di censimento della Giustizia civile e penale, sia in sede di relazione al Parlamento dello stato della Giustizia nel gennaio del corrente anno, i quali evidenziano che i giudici di pace trattano già oggi oltre il 30% del contenzioso civile (lavoro destinato ad aumentare vertiginosamente con il conferimento ai Giudici di Pace delle nuove competenze previste dal comma 15 dell’articolo 2 della legge n. 57/2016) e, unico esempio virtuoso in Italia, garantiscono una durata media dei processi civili e penali ben inferiore ad un anno (10 mesi), con un numero medio di circa 1.000 (mille) procedimenti civili e penali definiti da ciascun singolo giudice di pace.
Per tali ragioni l’Unione Nazionale dei Giudici di Pace ha deciso la proclamazione dello sciopero dal 19 al 22 dicembre 2016 e la prosecuzione delle azioni di protesta nel caso in cui il Governo ed il Ministro della Giustizia, pur se dimissionari, non modifichino l’attuale posizione lesiva non solo dei diritti fondamentali dei giudici di pace, ma anche delle garanzie approntate dalla Costituzione a tutela dei cittadini e delle imprese che accedono al servizio Giustizia, adottando tutte le necessarie ed improcrastinabili misure.
L’unione Nazionale dei Giudici di Pace manifesta il disagio della categoria per essere costretta, dinanzi al comportamento lesivo ed omissivo del Ministro della Giustizia e del Governo, a ricorrere a reiterate e prolungate astensioni per rivendicare l’adeguamento della condizione dei giudici di pace ad elementari e fondamentali principi di diritto costituzionale, comunitario ed internazionale, preordinati a garantire l’indipendenza, imparzialità e professionalità dei giudici e finalizzati ad assicurare ai cittadini l’effettività della tutela giurisdizionale dei loro inviolabili diritti.

Roma 7 dicembre 2016

Maria Flora Di Giovanni Alberto Rossi
(Presidente Nazionale) (Segretario Generale)

Fonte: www.unionegiudicipace.it/PROCLAMATO NUOVO SCIOPERO GIUDICI DI PACE DAL 19 AL 22 DICEMBRE 2016 ‹ Unagipa – Unione Nazionale Giudici di Pace

Addebito della separazione, le dichiarazioni rese dai figli non assumono valore probatorio

La Corte di Appello di Salerno con la sentenza n. 43/15 (resa il 9/10/15 e depositata il 3/12/15) ha riformato la sentenza n. 2106/13, resa il 15/7/13 dal Tribunale di Salerno, nella parte in cui accoglieva "la domanda di addebito della separazione proposta dal marito e" rigettava " la domanda tesa all'attribuzione dell'assegno di mantenimento, formulata dalla consorte", ritenendo che in tema di separazione coniugi le dichiarazioni rese dai figli della coppia in lite -non essendo riconducibili allo schema legale tipico della testimonianza ma dovendo essere, piuttosto, inquadrate nell'ambito dell'audizione dei minori- non possono assumere valenza probatoria rispetto alla domanda di addebito della separazione e, quindi, non concretizzano quegli "ulteriori elementi di prova" idonei ad integrare -ex art. 332 c.p.c.- le risultanze dell'interrogatorio formale (Corte Appello di Salerno Sentenza n. 43/15).
La Corte, sul punto, così motivava "Occorre premettere che il Giudice a quo ha accolto... la domanda di addebito... valorizzando la mancata comparizione (della moglie)... all'udienza fissata per l'espletamento dell'interrogatorio formale e le dichiarazioni rese dai figli delle parti in causa. Più precisamente, il Tribunale ha evidenziato che la mancata comparizione della resistente alle udienze fissate per l'espletamento del mezzo istruttorio consente di ritenere provati i fatti dedotti nell'interrogatorio, ossia l'instaurazione... di una relazione extraconiugale in costanza di matrimonio e la sussistenza del nesso di causalità tra la violazione del dovere di fedeltà e l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza.... L'appellante, con l'interposto gravame, ha criticato le ragioni della decisione... rappresentando che... la mancata comparizione all'udienza fissata per l'espletamento dell'interrogatorio formale di per sé sola, ossia in assenza di ulteriori elementi probatori, non vale a comprovare la domanda di addebito..." e che "il Giudice di prima cure ha erroneamente valorizzato le dichiarazioni rese dai figli delle parti processuali in sede di ascolto...".
Orbene la Corte, accogliendo tali censure, ha ritenuto che " tali dichiarazioni, non essendo inquadrabili nello schema della testimonianza, sono prive di rilevanza probatoria rispetto al thema probandum che qui rileva, ossia la violazione del dovere di fedeltà..."
Del resto "l'art. 232 c.p.c. -come emerge dall'univoco tenore della disposizione normativa- non ricollega automaticamente alla mancata risposta all'interrogatorio formale, per quanto ingiustificata, l'effetto della confessione, ma riconosce al Giudice soltanto la facoltà di ritenere come ammessi i fatti dedotti con il mezzo istruttorio, purchè concorrano altri elementi di prova (cfr. Cass. n. 17719/2014; Cass. n. 3258/2007). Orbene... non possono trarsi elementi di prova... dalle dichiarazioni resa dai figli delle parti in causa," poiché esse invece "si inquadrano nello schema legale dell'audizione dei minori."
Quindi "la Corte ritiene che colgono nel segno le ulteriori critiche dell'appellante incentrate sulla considerazione che la mancata comparizione all'udienza fissata per l'espletamento dell'interrogatorio formale non può fare ritenere ammessi i fatti dedotti con il mezzo istruttorio per l'assenza di altri elementi di prova idonei a determinare il convincimento del Giudicante."
Infatti "le dichiarazioni rese dalla figliadelle parti in causa non potendo essere inquadrate né nello schema della testimonianza... né nell'ambito di un qualsiasi altro mezzo istruttorio... non possono assumere valenza probatoria rispetto alla domanda di addebito della separazione. Deve, pertanto, concludersi che la domanda di addebitodella separazione proposta" in primo grado "non è meritevole di accoglimento in quanto non risulta adeguatamente comprovata" e quindi va rigettata. Ovviamente "il rigetto della suindicata domanda riverbera i suoi effetti -così come espressamente dedotto dall'appellante con l'atto di gravame- sulla domanda tesa ad ottenere l'attribuzione di un assegno di mantenimento. Il Giudice di prime cure, infatti, ha respinto tale domanda, pur riconoscendo che la predetta non svolge alcuna attività lavorativa, proprio perché la separazione è stata a lei addebitata... Nel caso di specie ad avviso della Corte i dati processuali acquisiti consentono di affermare che sussiste una disparità tra le posizioni economiche dei coniugi tale da giustificare l'attribuzione dell'assegno di mantenimento in suo favore". Pertanto "... la sentenza impugnata va in parte riformata, nel senso che va rigettata la domanda di addebito della separazione, proposta" in primo grado dell'appellato "e va accolta la domanda" dall'appellante "tesa ad ottenere l'attribuzione di un assegno di mantenimento".

Addebito della separazione, le dichiarazioni rese dai figli non assumono valore probatorio

martedì 6 dicembre 2016

“Sul sito biglietti troppo cari”. Antitrust contro Trenitalia e Ntv

Comprando i biglietti ferroviari online si può anche non risparmiare. Anzi, secondo l’Antitrust c’è il forte dubbio che Trenitalia e Ntv (meglio conosciuto come Italo) indirizzino i consumatori verso la soluzione più cara. L’Autorità ha infatti aperto a tutela dei consumatori due distinte istruttorie nei confronti delle due società ferroviarie, che hanno ricevuto anche una visita ispettiva dei funzionari dell’Autorità accompagnati dai militari della Guardia di Finanza.
Nel mirino dell’Authority guidata da Giovanni Pitruzzella, che ha deciso di avviare i due procedimenti dopo le svariate denunce da parte di singoli consumatori e di associazioni (alcune trasmesse dall’Autorità dei Trasporti), quanto accade sui canali di acquisto alternativi. Per la società del Gruppo Fs le verifiche per accertare eventuali scorrettezze riguardano i sistemi elettronici (il sito, la App Trenitalia e le macchinette self service in stazione). In particolare, l’ipotesi che nell’opzione «tutti i treni» venga fornita «un’informazione incompleta riguardo ai treni effettivamente disponibili sulla tratta e orario scelti dall’utente, con esclusione, soprattutto, di molti regionali»: il che - secondo l’Antitrust - orienterebbe il consumatore verso l’acquisto della soluzione più veloce ed onerosa.
Per quanto riguarda invece la società ferroviaria privata Ntv, il procedimento punta a verificare l’ipotesi di due pratiche illecite nel sistema di assistenza telefonica per la clientela tramite call center: in primo luogo, sembrerebbe che il cliente che intenda acquisire informazioni o esercitare i propri diritti/prerogative contrattuali sia di fatto obbligato a rivolgersi ad una numerazione telefonica a sovrapprezzo con costi che, oltre ad essere «già alti in partenza», sono «suscettibili di aumenti ulteriori e non prevedibili»; inoltre, Ntv avrebbe predisposto un numero a tariffa urbana dedicato all’acquisto dei biglietti che al momento dell’acquisto «applicherebbe un sovrapprezzo senza fornire adeguati chiarimenti». Soddisfatte le associazioni dei consumatori.

Fonte: www.lastampa.it/“Sul sito biglietti troppo cari”. Antitrust contro Trenitalia e Ntv - La Stampa

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...