mercoledì 30 novembre 2016

Anche una lettera “dall’oltretomba” è valida per interrompere la prescrizione

La morte di un lavoratore, causata dalle mansioni da lui svolte, non provoca il risarcimento del danno nei confronti degli eredi, essendo decorso il termine della prescrizione. Un solo atto si è interposto tra la nascita dell’obbligazione e la sua estinzione: una lettera dai caratteri un po’ particolari. Sulla validità della lettera si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24116/16 depositata il 28 novembre.
Il caso. Gli aventi causa di un lavoratore, deceduto a causa di carcinoma polmonare, chiedevano al datore di lavoro il risarcimento del danno biologico, morale e patrimoniale, ricollegando la patologia del de cuius alle mansioni da lui svolte, «senza idonee protezioni, a contatto di sostanze chimiche, vernici a smalto, solventi, polveri di amianto ed altro». Sia in primo che in secondo grado, però, la domanda veniva rigettata per incorsa prescrizione del diritto.
La lettera inviata dagli eredi. Secondo il Giudice d’appello, contrariamente a quanto sostenuto dagli attori, la lettera inviata da questi ultimi alla società per cui lavorava il defunto non presentava i requisiti di specificità e univocità che portassero a ritenere che l’intenzione del mittente fosse quella di richiedere un risarcimento del danno subito. La Corte, infatti, notava come non vi fossero riferimenti che rimandassero ad una precisa richiesta di risarcimento e, per altro, mancava la sottoscrizione. Dal punto di vista soggettivo, inoltre, vi era un’incongruenza logica difficilmente risolvibile: l’intestazione della missiva indicava i dati personali del mittente – ovvero il defunto – in modo tanto specifico da ricomprendere anche… la data del suo decesso.
Era quindi evidente che la lettera non fosse stata scritta da colui che si indicava come “sottoscritto”, motivo per cui, tra gli altri, il giudice aveva rigettato la domanda di risarcimento.
Gli elementi soggettivo e oggettivo dell’atto interruttivo. Gli aventi causa ricorrevano quindi per Cassazione, ritenendo che, ai fini dell’interruzione della prescrizione, «non è richiesto alcun requisito formale né che la richiesta o intimazione sia caratterizzata da uno spiccato carattere di univocità». In tal proposito la Corte richiama un consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale un atto, «per avere efficacia interruttiva», deve contenere due distinti elementi: quello soggettivo, ossia «la chiara indicazione del soggetto obbligato», e non necessariamente, quindi, quella del soggetto avente diritto e quello oggettivo, ossia «l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento». Ciò che conta è la dimostrazione di una volontà del titolare del credito che sia piena e di segno inequivocabile di far valere il proprio diritto.
Per questi motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Anche una lettera “dall’oltretomba” è valida per interrompere la prescrizione - La Stampa

martedì 29 novembre 2016

La Cassazione: “Dare del gay a qualcuno non è un’offesa”

Dare del «gay» a qualcuno non è denigratorio. Lo sancisce la Cassazione per la quale «è da escludere che il termine «omosessuale» abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto».
Piazza Cavour, nell’annullare senza rinvio una decisione del giudice di pace di Trieste «perché il fatto non sussiste» (si trattava di una multa per il reato di diffamazione inflitta ad un sessantenne che aveva dato dell’«omosessuale» ad un altro, ndr), spiega che «a differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente, il termine in questione assume un carattere di per sè neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell’uso comune».
Più in generale, la Quinta sezione penale, nella sentenza redatta da Luca Pistorelli, dice che «è da escludersi che la mera attribuzione della suddetta qualità - attinente alle preferenze sessuali dell’individuo - abbia di per sè un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell’evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività, quale che sia la concezione dell’interesse tutelato che si ritenga da accogliere». La Procura di piazza Cavour aveva invece sollecitato la bocciatura del ricorso.

Fonte: www.lastampa.it/La Cassazione: “Dare del gay a qualcuno non è un’offesa” - La Stampa

Fisco, cade l’obbligo dell’F24 telematico sopra i mille euro

Sopra i mille euro, niente più obbligo dell’invio del modello F24 telematico. È una delle novità contenute nel Disegno di legge di conversione del Decreto Fiscale, approvato dalla Camera e dal Senato. All’interno del mastodontico articolo 7-quater del D.L. 193/2016, che contiene quarantotto diverse norme di semplificazione fiscale, compare – al comma 31 – la disposizione che sancisce il ritorno all’F24 cartaceo.
Insomma, buone notizie per chi è privo di Partita IVA e non ha molta praticità con le innovazioni tecnologiche: le tasse torneranno ad essere pagate in banca anche sopra i mille euro, per la gioia specialmente dei pensionati.
In pratica, il comma 31 abroga la lettera c) del comma 2 dell’art. 11 del D.L. n. 66/2014 in materia di versamento unificato, sopprimendo l’obbligo, per i soggetti non titolari di Partita IVA, dell’invio telematico del modello unico di versamento (F24) per i pagamenti superiori a 1.000 euro (che però non derivino da compensazioni con importi a credito), con il ripristino quindi delle modalità di pagamento in forma cartacea.
Pertanto, fin dai prossimi pagamenti in scadenza, i contribuenti non titolari di Partita IVA dovranno presentare il modello F24 presso una banca, un ufficio postale o uno sportello degli agenti di riscossione.
Nulla cambia, invece, per i titolari di Partita IVA: per essi nulla cambia rispetto al passato. Essi continuano ad essere obbligati a presentare il modello F24 in via telematica per il pagamento dei tributi e dei contributi.

Fonte: www.fiscopiu.it/Fisco, cade l’obbligo dell’F24 telematico sopra i mille euro - La Stampa

Giudici di pace: avviate procedure per nuovo sciopero entro dicembre

L'Unione nazionale giudici di pace ha riavviato oggi la procedura per la proclamazione di un nuovo sciopero entro dicembre. L'Unione, si legge in una nota, “manifesta la propria incredulità dinanzi al silenzio del ministro Orlando dopo che lo sciopero dell'intera magistratura onoraria ha sospeso la trattazione di mezzo milione di processi”. “La cosa più grave – dichiara la presidente dell'Unagipa Maria Flora Di Giovanni – è che il ministro Orlando sta per presentare un decreto legislativo che dovrà regolamentare il trattamento economico e previdenziale dei giudici di pace e delle altre componenti della magistratura onoraria senza aver prima consultato le organizzazioni di categoria, come dal suo impegno assunto nell'ultimo incontro avuto al Dicastero”.
“Il Comitato europeo dei diritti sociali – afferma il segretario Unagipa Alberto Rossi – ci ha dato pienamente ragione, riconoscendo l'equiparazione dei giudici di pace ai magistrati professionali e imponendo al Governo italiano di assumere provvedimenti che riconoscano ai giudici di pace equipollenti diritti previdenziali ed assistenziali. Abbiamo già messo in mora il Governo e, se entro 15 giorni non si atterrà alla decisione del Comitato europeo dei diritti sociali, avvieremo centinaia di azioni giudiziarie per il riconoscimento dei nostri sacrosanti ed inviolabili diritti”.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Giudici di pace: avviate procedure per nuovo sciopero entro dicembre

Il Testo unico del vino è legge. Meno burocrazia, più salvaguardia dei vigneti eroici

Più certezza del diritto, meno contenziosi e un sistema di controlli migliore per la tutela di un settore chiave per l’agroalimentare italiano. Il testo unico del vino è legge – novanta articoli che riassumono tutta la normativa precedente - e la sua applicazione permette un’operazione concreta di semplificazione su produzione, commercializzazione, denominazioni di origine, indicazioni geografiche, menzioni tradizionali, etichettatura e presentazione, gestione, controlli e sistema sanzionatorio.
Il testo è stato approvato all’unanimità in soli due mesi dai due rami del Parlamento e secondo il ministro delle politiche agricole, Maurizio Martina, “con il Testo unico possiamo contribuire a rafforzare la crescita di un settore che già oggi vale più di 14 miliardi di euro e con un export che supera i 5,5 miliardi”. La legge – approvata “grazie all’impegno dei parlamentari e al confronto costruttivo con tutti gli attori della filiera”, precisa il viceministro Andrea Olivero – dà anche spazio all’innovazione con la possibilità di introdurre in etichetta sistemi di informazione al consumatore che sfruttino le nuove tecnologie contribuendo ad aumentare la trasparenza.
Tra le novità apportate dalla riforma è prevista una disposizione sulla salvaguardia dei vigneti eroici o storici al fine di promuovere interventi di ripristino recupero e salvaguardia di quei vigneti che insistono su aree soggette a rischio di dissesto idrogeologico o aventi particolare pregio paesaggistico. Importante innovazione anche nella tutela del prodotto contro la contraffazione. I controlli sulle imprese del settore vitivinicolo confluiscono nel registro unico dei controlli a prescindere se siano o no imprese agricole.
Cia, Confagricoltura, Alleanza delle Cooperative agroalimentari, Federvini, Unione Italiana Vini, Federdoc, Assoenologi danno un giudizio positivo della legge, “frutto di un lavoro intenso durato anni, che ha visto impegnati tutti i gruppi parlamentari e le organizzazioni del settore vitivinicolo. Rivendichiamo con orgoglio che il nostro Paese è il primo che si è dotato di un unico strumento a livello europeo, in grado di conferire maggiore competitività alle nostre imprese”.

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Disavventura sessuale raccontata al bar: condannato per diffamazione

Punito per un racconto hot fatto agli amici al bar. Un uomo è stato condannato come diffamatore per avere riportato la disavventura sessuale capitata a una coppia.
Voce. Clima goliardico mentre si prende un caffè. Uno dei componenti il gruppo di amici riporta la voce relativa a un problema piccante vissuto da una coppia. In sostanza, l’uomo e la donna sarebbero «rimasti attaccati» durante «il rapporto sessuale».
Quelle parole giungono, attraverso vari passaggi, alle orecchie della protagonista della strana vicenda di letto. Immaginabile la sua reazione, che si concretizza nella citazione in giudizio della persona che si è divertita a sparlarne al bar.
Immaginabili anche le conseguenze per l’amante dei racconti piccanti. Per lui scatta la condanna definitiva, sanciscono i magistrati della Cassazione, per «diffamazione», avendo consapevolmente «offeso l’onore e il decoro della donna, comunicando con diverse persone» (Cassazione, sentenza n. 50058 depositata il 24 novembre 2016).

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Condannato per detenzione e spaccio di marijuana: licenziamento possibile

Condanna penale per detenzione e spaccio di marijuana. L’uomo, dipendente di un istituto di credito, viene sanzionato con tre anni di reclusione e 12mila euro di multa. Ma la ripercussione più grave è quella lavorativa: la banca può legittimamente, sanciscono i magistrati, licenziarlo in tronco.
Condanna. Nessun dubbio sulla vicenda di cronaca che ha coinvolto il lavoratore. La ricostruzione fatta lo ha portato a subire una «condanna a tre anni di reclusione e 12mila euro di multa» per «detenzione e spaccio» di quasi un chilo e 400 grammi di marijuana.
Ciò nonostante, i giudici, in Tribunale prima e in Corte d’appello poi, ritengono che la condanna non sia sufficiente per portare a una «rottura irreversibile del vincolo fiduciario» con la banca di cui l’uomo è dipendente come «addetto allo sportello». Di conseguenza, viene annullato il «licenziamento» adottato dall’istituto di credito.
Gravità. A salvare il bancario è stato il richiamo alla «insindacabilità del comportamento extralavorativo del dipendente», comportamento ritenuto dai giudici «privo di alcun riferimento con l’organizzazione bancaria, né con le sue procedure amministrative e contabili».
Escluso, quindi, «ogni pregiudizio morale per la società datrice di lavoro». Ma questa visione viene severamente censurata dai magistrati della Cassazione, che ritengono invece plausibile e condivisibile il ragionamento portato avanti dalla banca (sentenza n. 24023 depositata il 24 novembre 2016).
In particolare, i giudici di Cassazione spiegano che «la specifica illustrazione del fatto» attribuito al lavoratore, cioè «detenzione e spaccio di rilevante quantità di marijuana, pari a 1.340,81 grammi» rende evidente la sua «incidenza irrimediabilmente lesiva del rapporto di fiducia lavorativo». La condotta tenuta dall’uomo è di netta «gravità», anche «per l’evidente sintomaticità di un collegamento non occasionale con ambienti malavitosi in grado di consegnare quantità tanto ingenti di stupefacente, confidando nella puntualità di collocazione sul mercato e di pagamento, da connotare la figura morale del lavoratore» che, va tenuto presente, era «inserito in un ufficio a contatto coi clienti», essendo un «operatore di sportello».
Riprende vigore, quindi, la decisione adottata dalla banca. Anche se la vicenda ora dovrà essere nuovamente esaminata dai giudici d’appello.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Condannato per detenzione e spaccio di marijuana: licenziamento possibile - La Stampa

lunedì 28 novembre 2016

Divorzio breve: strada aperta per l'assegno di mantenimento

Sulla procedura semplificata disciplinata dall'articolo 12 del Dl n. 132/2014, convertito dalla legge 162/2014, attraverso la quale i coniugi possono addivenire in via amministrativa alla separazione, allo scioglimento del vincolo matrimoniale e alla modifica delle condizioni di separazione e divorzio, si sono recentemente espressi sia il Consiglio di Stato sia il ministero dell'Interno con una circolare interpretativa.
La decisione del Consiglio di Stato - Con la sentenza 4478/2016, pubblicata il 26 ottobre 2016, il Consiglio di Stato ha stabilito che i coniugi che accedono a simile procedura possono inserire nel loro accordo la clausola relativa alla corresponsione di un assegno periodico a carico di uno e a favore dell'altro. Non rientra infatti questa clausola tra i «patti di trasferimento patrimoniale» espressamente esclusi dal comma 3 dell'articolo 12 predetto.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Divorzio breve: strada aperta per l'assegno di mantenimento

sabato 26 novembre 2016

Usare le schede carburante per la propria auto è reato

Non c’è bisogno di commentare con troppe spiegazioni la recente sentenza del Tribunale di Campobasso [1] che ha ritenuto sussistente il reato di peculato a carico del dipendente pubblico che utilizza impropriamente le schede carburante – datigli dall’ente datore di lavoro – per la propria auto.
Se è vero che impossessarsi di un bene altrui è reato di furto, è altrettanto vero che la natura dell’illecito penale non cambia se oggetto della sottrazione è un «credito» verso il distributore di benzina. Come il caso delle schede carburante. Difatti, l’utilizzo della benzina o del gasolio da destinare all’auto propria piuttosto che a quella di servizio, non implica solo una sanzione disciplinare – che, nei casi più gravi, può arrivare anche al licenziamento, specie se il comportamento viene ripetuto nel tempo – ma anche un illecito penale. Illecito che, nel settore del pubblico impiego, si chiama peculato.
Il reato di peculato è quello che può commettere solo il pubblico ufficiale o chiunque sia incaricato di pubblico servizio. Se questi, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui (nel caso di specie la scheda carburante), se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
Nel caso di specie, si trattava di un dipendente provinciale che aveva occultato nel proprio garage il carburante impropriamente prelevato.
Nel settore privato, la condotta del dipendente che si appropri di beni dell’azienda è considerata furto. Il furto però non sempre viene ritenuto dalla giurisprudenza come causa di licenziamento, specie quello di oggetti di scarso valore economico. In realtà, più di recente, si sta affermando un’interpretazione più severa: il datore di lavoro deve poter avere fiducia nel dipendente e se quest’ultimo ruba un bene, qualsiasi esso sia, questo rapporto di stima viene meno.

[1] Trib. Campobasso sent. n. 486/16 del 18.07.2016.

Fonte: www.laleggepertutti.it/Usare le schede carburante per la propria auto è reato

venerdì 25 novembre 2016

Minorenne ricorre all’aborto illegale per paura della reazione della madre. Condannata la coppia che le ha fornito la “pillola”

Un ragazza minorenne, superati i 90 giorni-limite per l’interruzione di gravidanza, si rivolgeva a una coppia rumena che, illegalmente, le forniva la pillola abortiva. Inutile il ricorso in Cassazione dei due imputati, ritenuti colpevoli e condannati per il fatto.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 24 novembre 2016, n. 50059.
Il caso. Gli imputati cagionavano l’interruzione della gravidanza di una minore dopo i 90 giorni-limite ed al di fuori dei casi previsti dalla legge, con conseguenti lesioni gravi alla minore (endiometria settica con rischio di diffusione dell’infezione in grado di compromettere le funzioni vitali) e pericolo di vita. Per tali fatti venivano condannati alla pena ritenuta di giustizia dal gip, confermata poi dalla Corte d’appello. Il primo degli imputati, ricorrendo in Cassazione, lamenta vizio di motivazione, in quanto il Giudice dell’appello, a detta sua, lo aveva erroneamente ritenuto concorrente nel reato che, in pratica, era stato commesso e perfezionato solo da sua moglie, coimputata.
La Suprema Corte ritiene che invece la sentenza di primo grado aveva basato l’affermazione del concorso del ricorrente e del suo contributo causale sul fatto che il di lui numero di telefono era memorizzato nella rubrica del cellulare della persona offesa (si rilevava inoltre un elevato traffico telefonico tra essi); la persona offesa aveva peraltro dichiarato che, ricevuta dal ricorrente e dalla moglie, era stata quest’ultima a fornirle le pillole e ad indicarle come assumerle, mentre il marito aveva ricevuto nelle sue mani la somma di 50€ a titolo di “compenso” per la “prestazione”. Infine, in sede di interrogatorio di garanzia, lo stesso ricorrente aveva affermato che sia lui che la moglie erano consapevoli della minore età della ragazza.
Se la minore non sembra minorenne. Anche la moglie ricorre in Cassazione, denunciando il vizio di motivazione ritenendo insufficiente la prova della consapevolezza della ricorrente della minore età della persona offesa, attesa che detta circostanza integra ipotesi autonoma di reato. Alla luce delle dichiarazioni rese dalla ginecologa del consultorio poi, che non aveva compreso la minore età della ragazza dal suo aspetto fisico, non risulterebbe superato il ragionevole dubbio, anche considerando il fatto che il superamento dei 90 giorni aveva comportato l’esigenza di ricorrere ad un aborto illegale.
La Corte di Cassazione ricorda però che, come già affermato dal giudice di merito, la minore età della ragazza fosse desumibile evidentemente da tutto il discorso che ella aveva fatto ai ricorrenti per convincerli a darle il farmaco che avrebbe provocato l’interruzione di gravidanza, richiamando espressamente la sua paura che la madre potesse scoprire la gravidanza e reagire in maniera tanto violenta da cacciarla di casa: considerazioni e preoccupazioni tipiche di una minorenne.
I ricorsi sono ritenuti inammissibili.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Minorenne ricorre all’aborto illegale per paura della reazione della madre. Condannata la coppia che le ha fornito la “pillola” - La Stampa

Il Decreto fiscale è legge

Nella giornata di ieri è divenuto legge il Decreto fiscale: il via libera del Senato arriva con 162 voti favorevoli, 86 voti contrari e un astenuto.
Tra le principali misure è previsto lo scioglimento di Equitalia, a partire dal primo luglio 2017, con il passaggio delle funzioni esercitate all’Agenzia delle Entrate-Riscossione, Ente pubblico economico sottoposto all’indirizzo e alla vigilanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Per il personale trasferito al nuovo ente non è più richiesto il superamento di una procedura di selezione e verifica delle competenze ma sarà sufficiente una ricognizione delle competenze possedute. A seguire la definizione di un rapporto più stretto tra il MEF e l’Agenzia delle Entrate con lo scopo di definire le strategie per la riscossione e individuare le risorse.
I dirigenti dell’Agenzia delle Entrate sono prorogati fino alla fine di settembre 2017, in attesa che vengano avviati i concorsi per coprire le posizioni organizzative istituite temporaneamente dopo la sentenza della Consulta.
L’Agenzia delle Entrate sarà obbligata ad utilizzare le banche dati e le informazioni alle quali è autorizzata ad accedere anche per l’esercizio delle funzioni relative alla riscossione nazionale, nonché di acquisire le informazioni relative ai rapporti di lavoro o di impiego presenti nelle banche dati dell’Inps.
Viene abrogata, dal 1° gennaio 2017, la comunicazione dell’elenco clienti e fornitori per i soggetti passivi IVA. Al suo posto vengono introdotti due nuovi adempimenti, da effettuare telematicamente ogni tre mesi, riguardanti la comunicazione analitica dei dati delle fatture emesse e ricevute e la comunicazione dei dati delle liquidazioni periodiche IVA, per permettere controlli incrociati più rapidi ed efficaci. Vengono, nel contempo, ridotte le sanzioni per chi non rispetterà le nuove regole in tema di fattura telematica e per la comunicazione trimestrale dell’IVA.
È prevista, si ricorderà, la rottamazione delle cartelle di Equitalia con data compresa tra il 2000 e il 2016: i contribuenti potranno estinguere il loro debito col Fisco, senza il pagamento di sanzioni e interessi, in cinque rate, tre nel 2017 e due nel 2018. La rottamazione per multe e debiti fiscali viene estesa anche per i Comuni che non utilizzano come ente di riscossione Equitalia.
Confermata la seconda edizione della voluntary disclosure per le violazioni compiute fino al 30 settembre 2016, la cui regolarizzazione potrà avvenire fino al 31 luglio 2017. Potrà, in dettaglio, aderire alla procedura di emersione dei capitali detenuti in Italia anche chi ha già fatto domanda di adesione alla precedente disclosure su capitali all’estero.
Vengono aboliti gli studi di settore che verranno sostituiti da indici di affidabilità fiscale: sarà compito del MEF individuare indici sintetici di affidabilità fiscale a cui collegare livelli di premialità per i contribuenti più affidabili.
Diventano deducibili le spese per i professionisti per alimenti e bevande nonché per prestazioni di viaggio o trasporto e, sempre nell’ambito del pacchetto semplificazioni inserito nell’iter di conversione a Montecitorio, viene prevista la chiusura d’ufficio per le partite IVA inattive da almeno tre anni.
Per quanto riguarda i finanziamenti, da ultimo, è previsto il raddoppio da 30 a 60 milioni per il tax credit del cinema che potrà contare nel 2016 su 200 milioni di euro.

Fonte: www.fiscopiu.it/Il Decreto fiscale è legge - La Stampa

Atti osceni in luogo frequentato anche da minori? Esclusa la particolare tenuità

La terza sezione penale, con la sentenza n. 41130/2016 depositata il 3.10.2016, ha confermato la sentenza di condanna per atti osceni aggravati in quanto commessi all’interno dei luoghi aperti al pubblico (un esercizio commerciale di rilevanti dimensioni), abitualmente frequentato anche da minori, ritenendo irrilevante nel caso di specie la sopravvenuta depenalizzazione della fattispecie (non aggravata) di atti osceni ed escludendo che il fatto potesse ritenersi di particolare tenuità, in considerazione della sua non modesta offensività.
Il fatto
Con sentenza pronunciata il 10.07.2014 il Gip del Tribunale di Cagliari, nelle forme del rito abbreviato, condannava l’imputato alla pena di un mese e quindici giorni di reclusione per avere compiuto atti osceni all’interno di una attività commerciale, alla presenza di impiegati e passanti, e dunque in un luogo aperto al pubblico ed abitualmente frequentato da minori.
Avverso la decisione del giudice di primo grado ha proposto ricorso in Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello denunciando il vizio di violazione di legge, venendo in rilievo una condotta concretamente inoffensiva e dunque un fatto lieve ai sensi dell’art. 131 bis c.p.
La decisione
La terza sezione della Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso proposto dal Pubblico Ministero.
A monte, infatti, veniva proposta dal Pubblico Ministero una diversa ricostruzione del fatto, fondata sulla condotta in concreto posta in essere dall’imputato, sulle caratteristiche del luogo in cui era stata commessa e, soprattutto, sulla mancata percezione da parte di terzi e di minori degli atti osceni compiuti dall’imputato (consistiti nell’infilare la mano nella tasca dei pantaloni, toccandosi i genitali, fino a raggiungere l’eiaculazione), situazioni, queste, che in concreto avrebbero reso inoffensive le condotte ascritte all’imputato e dunque particolarmente tenue il fatto.
Per converso, la Corte ha escluso che in sede di legittimità fosse consentita una diversa ricostruzione del fatto, essendo essa ammissibile solo in presenza di vizi della motivazione, nel caso di specie non ravvisati, avendo il Tribunale fondato la pronuncia di condanna per la fattispecie aggravata di atti osceni sulla base di quanto riferito dai presenti, che ebbero tutti una percezione chiara ed inequivoca della condotta, e sulla base delle caratteristiche del luogo in cui essa venne posta in esse (si trattava di un esercizio commerciale di rilevanti dimensioni, frequentato da una moltitudine indifferenziata di persone, tra cui anche minori).
Il corretto accertamento in fatto, compiuto dal giudice di prime cure che ha evidenziato come gli atti realizzati fossero visibili ed il luogo fosse frequentato da minori, non era dunque sindacabile nel giudizio di legittimità; per altro, tenuto conto della natura di reato di pericolo del delitto di atti osceni, nessuna censura in diritto poteva muoversi in ordine alla sussistenza dell’aggravante, da valutarsi con giudizio ex ante in relazione al luogo (un esercizio commerciale di rilevanti dimensioni nel quale si trovavano esposti per la vendita generi vari, potenzialmente frequentato anche da minori) ed all’orario (pieno giorno) in cui la condotta è stata posta in essere.
La ritenuta sussistenza della circostanza aggravante ha poi portato la Corte ad escludere d’ufficio la rilevanza della sopravvenuta depenalizzazione della fattispecie semplice di cui all’art. 527 co. 1 c.p. a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 15.01.2016 n. 8, essendo rimasta inalterata la rilevanza penale dell’ipotesi aggravata, disciplinata al comma 2 dell’articolo in esame, che si configura quando – come nel caso portato all’esame della Suprema Corte – “il fatto è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minore e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano”.
Per le medesime ragioni la Corte ha ritenuto infondato anche il rilievo mosso dal Pubblico Ministero ricorrente relativo alla non punibilità del fatto per particolare tenuità, in considerazione della sua modesta offensività.
La Corte ha sul punto richiamato i presupposti per il riconoscimento della causa di non punibilità, rifacendosi alla relazione allegata allo schema del decreto legislativo n. 28 del 2015, che ha inserito ex novo nel codice penale l’art. 131 bis c.p. Di qui il riferimento ai due «indici-criteri» che connotano la nuova causa di non punibilità - la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento – ed agli ulteriori due «indici-requisiti» in cui si articola il primo di essi, individuati nella modalità della condotta e nell’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri di cui all’art. 133 co. 1 c.p. (e dunque, natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, intensità del dolo o grado della colpa).
Tale valutazione complessa e congiunta, in ossequio ai principi espressi dalle Sezioni Unite (Cass. pen. Sez. U. n. 13681 del 25.02.2016) ed ai quali la Suprema Corte si è riportata, può essere compiuta anche nel giudizio di legittimità “sulla base di un apprezzamento limitato alla astratta compatibilità dei tratti della fattispecie, come risultanti dalla sentenza impugnata e dagli atti processuali, con gli indici-criteri e gli indici-requisiti indicati dal legislatore, cui segue in caso di valutazione positiva, sentenza di annullamento con rinvio al giudice di merito” – cfr. Cass. pen. Sez. 3, n. 38380 del 15.07.2015 -.
Ebbene, la Corte ha ritenuto che nel caso di specie non emergesse alcuna particolare tenuità del fatto, esclusa in radice proprio dalla ritenuta sussistenza dell’aggravante contestata, avendo l’imputato compiuto gli atti osceni in pieno giorno, all’interno di un esercizio commerciale di rilevanti dimensioni e nonostante la presenza di impiegati e di passanti: ciò rende la condotta potenzialmente assai pregiudizievole per l’interesse protetto, soprattutto per i minori potenzialmente esposti alla visione degli atti.
In altri termini, l’esclusione dell’esiguità del pericolo comporta l’esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto.
Di qui, il rigetto del ricorso proposto dal Pubblico Ministero e la conferma della decisione impugnata.

Fonte: www.altalex.com/Atti osceni in luogo frequentato anche da minori? Esclusa la particolare tenuità | Altalex

L'assegno Inail non è reddito

La rendita Inail è una prestazione economica di natura risarcitoria del danno subito dall’assicurato, per effetto dell’infortunio sul lavoro o della malattia professionale. E per questo non concorre alla formazione del reddito complessivo ai fini tributari. Lo mette nero su bianco il decreto legge fiscale (193/2016) collegato alla legge di Bilancio 2017, approvato ieri definitivamente dal Senato. “È con un emendamento al decreto fiscale collegato alla manovra di bilancio per il 2017 che finalmente ci arriva il riconoscimento legislativo della natura giuridica della rendita Inail”, annuncia il presidente dell’Anmil (Associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro, Franco Bettoni, sottolineando che la misura è stata elaborata dall’Anmil e sostenuta durante il passaggio alla Camera dal relatore, Giovanni Sanga.

Fonte: www.italiaoggi.it/L'assegno Inail non è reddito - News - Italiaoggi

mercoledì 23 novembre 2016

Sospesa la responsabilità genitoriale per l’elevata conflittualità tra i genitori

Secondo il Tribunale di Roma quando l’elevata conflittualità tra madre e padre impedisce una corretta gestione del ruolo genitoriale, pregiudicando le scelte mediche, scolastiche ed extrascolastiche dei figli, si impone la nomina di un tutore a cui attribuire l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale per tutte le questioni straordinarie e di particolare rilevanza.
Il caso. Una donna ha presentato ricorso al Tribunale di Roma chiedendo la modifica delle condizioni di affidamento condiviso della figlia e, a seguito di comportamenti irrispettosi del padre volti a screditarla agli occhi della minore, l’adozione di opportuni provvedimenti idonei a far cessare tali condotte. Confermando la sussistenza di elevati contrasti con la ricorrente, il resistente ha chiesto l’affidamento esclusivo della figlia o, in caso di conferma dell’affidamento condiviso, la collocazione prevalente della stessa presso di sè o, in subordine, la rideterminazione delle modalità di frequentazione con la bambina.
La conflittualità tra le parti impedisce una corretta gestione del ruolo genitoriale. Il Tribunale, considerato che gli interventi posti in essere dal servizio sociale non hanno migliorato la difficile situazione familiare e che i tentativi di mediazione proposti non hanno avuto seguito a causa del forte contrasto esistente tra le parti, ritiene pienamente accertata l’elevatissima conflittualità genitoriale e condivide, quindi, le conclusioni dei responsabili del servizio secondo cui sarebbe utile l’intervento di un tutore che possa prendere le decisioni migliori per la tutela della minore. La totale incomunicabilità tra le parti, emersa in tutti gli accertamenti compiuti ed evidente nel corso delle udienze, infatti, impedisce il corretto svolgimento del ruolo genitoriale e, pertanto, rende necessario un intervento più incisivo.
Di conseguenza, al fine di evitare la permanenza della minore in un contesto conflittuale con elevato rischio di accrescimento, il Tribunale, con pronuncia non definitiva, dispone la sospensione della responsabilità genitoriale di entrambe le parti e nomina quale tutore della minore il Sindaco pro tempore o un suo delegato affinché assuma ogni decisione relativa a questioni straordinarie e di particolare rilevanza escludendo dalle stesse i genitori, ai quali viene demandata la sola amministrazione ordinaria nei periodi di permanenza della bambina presso ciascuno. Mantiene, inoltre, la collocazione prevalente della minore presso l’abitazione materna, regolando diversamente gli incontri tra la figlia e il padre, in modo da evitare contatti tra le parti.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Sospesa la responsabilità genitoriale per l’elevata conflittualità tra i genitori - La Stampa

Danno per la perdita del nonno va riconosciuto anche se non convivente

E' risarcibile il nipote per la perdita del nonno non convivente: è quanto stabilito dalla Cassazione Civile, Sezione III, con la sentenza 20 ottobre 2016, n. 21230.
La convivenza è misura del risarcimento, non un limite.
Il fatto
Tre nipoti ricorrevano in Cassazione per richiedere il risarcimento del danno da perdita della nonna, non convivente, a seguito di incidente stradale, negato nei precedenti gradi di giudizio.
La motivazione
Revirment brusco della Cassazione. La convivenza è misura, ma non limite al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.
Viene superato il principio emesso da risalente Cass. 4253/2012, che riteneva la convivenza un presupposto essenziale per il riconoscimento del danno. Infatti, quel rapporto veniva dettato dall'esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari; tuttavia, è possibile provare in concreto l'esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.
Le Sezioni Unite (8827/2003, 8828/2003, 26972/2008) avevano già sottolineato che la morte di un congiunto ledeva i diritti inviolabili della persona, e come tali, non ascrivibili alla cd. "famiglia nucleare", incentrata su coniuge, genitori e figli. Le disposizioni civilistiche (art. 75, 76 e 317 bis c.c.) riconoscono tra nonni e nipoti uno stretto vincolo di parentela, di diritti, doveri e facoltà, rapporti significativi tra nonni e nipoti minorenni, con la possibilità per i predetti di ricorrere al giudice nel caso in cui l'esercizio di tale diritto sia impedito.
Non solo la convivenza assurge a rilevanza giuridica, atteso che in tal modo si escluderebbe a priori il diritto del nipote non convivente al risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale sulla base di un elemento estrinseco, transitorio e del tutto casuale, ben potendo, invece, ipotizzarsi convivenze non fondate su vincoli affettivi ma determinate da necessità economiche, egoismi o altro e non convivenze determinate da esigenze di studio o di lavoro o non necessitate da bisogni assistenziali e di cura.
Peraltro, la stessa Corte aveva riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale, slegato dalla convivenza, in favore del coniuge ancorché separato legalmente, purché si accerti che l'altrui fatto illecito abbia provocato quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona cara, pur essendo necessario a tal fine dimostrare che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso (Cass. 17/01/2013, n. 1025), e ha pure precisato che lo status di separato non è in astratto incompatibile con la posizione di danneggiato secondario (Cass. 12/11/2013, n. 25415).
La convivenza, dunque, è la misura, è un parametro, per dimostrare l'ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti e a determinare anche il quantum debeatur, ma non certamente un limite.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Danno per la perdita del nonno va riconosciuto anche se non convivente | Altalex

Scale bagnate, scivola e finisce a terra. Risarcimento dal condominio

Passeggiata brevissima e conclusa in ospedale. Appena messo piede fuori di casa, difatti, la donna scivola e finisce a terra, a causa dell’acqua presente sulle scale del palazzo durante le solite pulizie condominiali. A pagare per le lesioni provocate dal capitombolo dovranno essere il condominio e l’amministratore in carica.
Condotta. Svolta decisiva in appello, dove, contrariamente a quanto stabilito in Tribunale, viene sancita la «responsabilità» sia dell’«amministratore» che del «condominio» per l’incidente verificatosi all’interno del palazzo. Ciò comporta che proprio loro dovranno provvedere al «risarcimento» preteso dalla vittima. Salva, invece, per un vizio processuale l’«impresa» a cui erano state affidate le «pulizie» nell’immobile.
E questa visione viene ritenuta corretta dalla Cassazione (sentenza n. 23727, depositata il 22 novembre 2016). Fondamentale il «ruolo causale» riconosciuto all’«acqua» presente sulle «scale condominiali». Questo elemento non è affatto «qualificabile come imprevedibile o inevitabile, cioè avulso dal normale utilizzo» dell’immobile, spiegano i magistrati del ‘Palazzaccio’. Di conseguenza, è logico ritenere la disavventura vissuta dalla donna come frutto della condotta tenuta dall’amministratore e dal condominio.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Fonte: www.lastampa.it/Scale bagnate, scivola e finisce a terra. Risarcimento dal condominio - La Stampa

martedì 22 novembre 2016

Ricorso in Cassazione prolisso? Rischio inammissibilità

Attenzione ai ricorsi in Cassazione troppo lunghi e ridondanti: rischiano di essere dichiarati inammissibili. E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, nella sentenza del 20 ottobre 2016, n. 21297.
Nella vicenda processuale in esame, il ricorrente propone un ricorso in cassazione di ben 250 pagine. In particolare, il faraonico gravame si presenta come una mera trascrizione di stralci di atti processuali e documenti dei precedenti giudizi di merito, senza, tuttavia, contenere neanche l’ombra della “esposizione dei fatti della causa”, di cui all’articolo 366 c.p.c., n. 3.
La corte, quindi, trovando il ricorso troppo prolisso, lo dichiara inammissibile per la palese violazione dei principi di sinteticità e chiarezza.
Il Supremo Collegio, infatti, aderendo al proprio consolidato orientamento, chiarisce che il requisito di cui all’articolo 366 c.p.c., n. 3, postula una descrizione dei fatti volta a riassumere sia la vicenda sostanziale dedotta in giudizio, sia lo svolgimento del processo, in modo da consentire la piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata.
Il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva espone il ricorrente per cassazione al rischio di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione, in quanto esso contrasta con il fine di assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui agli artt. 24 Cost., 111 Cost., comma 2 e all’art. 6 CEDU.
L’inammissibilità, precisano gli ermellini, non è però automatica! Nel codice di procedura civile, infatti, una espressa prescrizione di sinteticità è prevista solo per gli atti del giudice (articoli 132 e 134 c.p.c. e articolo 118 disp. att. c.p.c.); per gli atti di parte opera il principio della libertà delle forme, fissato in via residuale dall'articolo 121 c.p.c. Il principio di sinteticità degli atti processuali (tanto del giudice quanto delle parti) è, invece, presente nel nuovo processo amministrativo (approvato con il Decreto Legislativo n. 104/110).
Tale principio, tuttavia, osservano i giudici della Corte, è destinato ad operare anche nel processo civile, sebbene non sia prevista una specifica sanzione processuale normativa della prolissità e oscurità degli atti di parte, come invece è previsto in altri sistemi giuridici.
Dalla Svizzera agli Stati Uniti, infatti, il legislatore si è posto il problema di mettere un freno alla lunghezza degli scritti difensivi, preoccupandosi addirittura, in alcuni casi, di fissare il limite massimo dei caratteri di ogni atto giudiziario.
In Italia, nulla di ciò è avvenuto, sostengono gli ermellini, pur evidenziando come siano stati fatti degli sforzi in tale direzione mediante il protocollo Cassazione/CNF del 17.12.15, che, indica i limiti dimensionali degli atti difensivi davanti alla Suprema Corte, ma che tuttavia non prevede l'inammissibilità o l'improcedibilità del ricorso, ove tali limiti vengano superati.
Pertanto, conclude la Corte, in assenza di una previsione normativa espressa, la violazione del principio di sinteticità, se non determina l'inammissibilità del ricorso per cassazione, "espone al rischio" di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione.

Fonte: www.altalex.com/Ricorso in Cassazione prolisso? E' inammissibile | Altalex

Responsabile il commercialista che non suggerisce di impugnare in Cassazione

Il commercialista che causa un pregiudizio al cliente, riconducibile a mancata informazione, può rispondere dei danni se l'impugnazione non esperita avrebbe avuto probabile esito favorevole sulla base di una valutazione prognostica.
Decisione: Sentenza n. 13007/2016 Cassazione Civile - Sezione III
Il caso.
Un cliente citava in tribunale il suo dottore commercialista per il risarcimento dei danni conseguenti alla mancata impugnazione di una sentenza della Commissione Tributaria Regionale che lo vedeva soccombente relativamente a un accertamento IRPEF nei suoi confronti.
Il cliente lamentava di aver consegnato la sentenza originale al commercialista chiedendo indicazioni e chiarimenti, ma il professionista, malgrado le sollecitazioni del cliente, non lo aveva più contattato, lasciando decorrere i termini per ricorrere in Cassazione.
Di conseguenza, il cliente era stato costretto a ricorrere al credito bancario per far fronte al pagamento di oltre 60mila euro dovuti all'Amministrazione finanziaria.
Il cliente aveva quindi costituito in mora il professionista e, su segnalazione di questi, anche la sua compagnia assicuratrice per la responsabilità professionale.
Nel giudizio di primo grado, il Tribunale rigettava la domanda del cliente escludendo la responsabilità del commercialista in quanto, non essendo abilitato alla difesa tecnica dinanzi alle giurisdizioni superiori, non avrebbe potuto impugnare la sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione.
A seguito di appello del cliente, la Corte di Appello confermava la sentenza del Tribunale, e il cliente proponeva ricorso in Cassazione avverso la pronuncia della Corte territoriale.
La Cassazione accoglie il ricorso del cliente, ma rimette al giudice del merito l'accertamento se - nel caso di specie - sia stato conferito un vero e proprio incarico professionale, all'esito del quale accertamento potranno eventualmente essere esaminate le istanze risarcitorie e la conseguente operatività della copertura assicurativa.
La decisione.
Il Collegio dapprima richiama quanto ritenuto dalla Corte di Appello nel merito della vicenda: «va premesso che la Corte di appello ha ritenuto che, anche a voler tenere conto delle deduzioni dell'appellante (sulla scorta di quanto articolato nei mezzi di prova e di quanto dedotto negli scritti difensivi), il cliente avrebbe affidato al professionista "soltanto l'incarico di una consulenza di carattere tecnico ... in via di prima informazione " e che perciò l'incarico non avrebbe avuto ad oggetto il conferimento della difesa dinanzi alla Corte di cassazione. Pertanto, secondo la Corte di merito, "resa o non resa quella consulenza", lo S., per proporre ricorso, si sarebbe dovuto rivolgere ad un avvocato patrocinante in cassazione mentre il parere tecnico del commercialista non avrebbe avuto incidenza alcuna sulle valutazioni di mero diritto che avrebbe dovuto compiere il legale incaricato dell'impugnazione. Secondo la Corte di merito, la proposizione dell'azione giurisdizionale sarebbe comunque dipesa da una scelta personale dell'attore che, per realizzarla, si sarebbe dovuto rivolgere a soggetti diversi dall'appellato, mentre sarebbe stata irrilevante l'attuazione o meno della prestazione richiesta al dott. D.».
Poi espone quanto sostenuto dal cliente ricorrente con il primo motivo di ricorso: «Il ricorrente assume che l'incarico conferito al professionista sarebbe consistito "in una consulenza tecnico-giuridica volta innanzitutto a conoscere tempestivamente rimedi, termini e modalità previsti dall'ordinamento giuridico per la tutela avverso una sfavorevole sentenza della Commissione Tributaria Regionale, ed inoltre ad analizzare sul piano tecnico la motivazione del provvedimento e le ragioni del rigetto dell'appello"».
Dal quale presupposto in fatto «il ricorrente fa discendere in diritto l'obbligo del commercialista di informare il cliente dell'esistenza del rimedio del ricorso per cassazione, nonché dei termini e delle modalità per la sua proposizione, inclusa l'informazione della necessità di rivolgersi ad un avvocato abilitato a difendere dinanzi alle giurisdizioni superiori - trattandosi di circostanze né di pubblico dominio né nella conoscenza del cliente medesimo, considerato che svolgeva l'attività lavorativa di orologiaio. Invece, essendo il dottore commercialista un professionista cui l'ordinamento attribuisce specifica competenza in materia tributaria, oltre che il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni tributarie di merito (come da norme richiamate in rubrica), egli ha anche specifica conoscenza sia del rito tributario che del sistema dei gravami esperibili». Conseguentemente, il commercialista «avrebbe dovuto fornire, con tempestività, le dette informazioni, in ossequio ai doveri di diligenza professionale derivanti dall'incarico conferito ai sensi dell'art. 2230 e seg. e dalla clausola generale dell'art. 1176 cod. civ. Con conseguente suo obbligo a risarcire i danni derivati al cliente dall'inadempimento del fondamentale obbligo di informazione».
La Suprema Corte ritiene fondato, e accoglie, tale primo motivo di ricorso, proposto dal cliente: «La responsabilità del dottore commercialista presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'art. 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ., tenuto conto della natura e della portata dell'incarico conferito (cfr. Cass. n. 16023/02, anche per la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, eventualmente gravanti sul prestatore d'opera intellettuale).
Qualora si tratti di attività di consulenza richiesta ad un dottore commercialista, il dovere di diligenza impone, tra gli altri, l'obbligo, non solo di dare tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e che rientrino nell'ambito della competenza del professionista (cfr. Cass. n. 14599/04 e n. 24544/09, in riferimento ad analoghi obblighi informativi imposti all'avvocato, nonché Cass. 14639/15, in riferimento agli obblighi informativi gravanti sul dottore commercialista), ma anche, tenuto conto della portata dell'incarico conferito, di individuare le questioni che esulino da detto ambito. Il professionista incaricato dovrà perciò informare il cliente dei limiti della propria competenza e fornire gli elementi ed i dati comunque nella sua conoscenza per consentire al cliente di prendere proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente».
Per la Cassazione «La definizione dell'ampiezza di questo dovere di informazione e la valutazione della diligenza richiesta nell'adempimento presuppongono che siano, in concreto, individuati gli esatti termini dell'incarico conferito al dottore commercialista».
E precisa che, nel momento in cui si ipotizzi - come ha fatto la Corte di Appello - che il professionista sia stato incaricato di fornire una vera e propria consulenza, anche se solo di prima informazione, «è obbligo di diligenza connesso all'incarico di consulenza così conferito quello di informare il cliente non solo delle ragioni di natura giuridica o tecnico-contabile che stanno a fondamento della sentenza sfavorevole (indubbiamente rientranti nella competenza del dottore commercialista, in quanto soggetto abilitato al patrocinio dinanzi alle commissioni tributarie), ma anche dei rimedi astrattamente esperibili, pur se non praticabili dallo stesso professionista».
La Suprema Corte afferma quindi che «la sola circostanza, valorizzata dal giudice di secondo grado, che il dottore commercialista non sia abilitato a promuovere ricorso dinanzi alla Corte di cassazione avverso una sentenza della commissione tributaria regionale non vale ad escluderne la responsabilità, ove non gli si ascriva (soltanto) tale mancata impugnazione, bensì la mancata ottemperanza all'obbligo di informare il cliente della necessità di rivolgersi ad un avvocato abilitato, nei tempi previsti dall'ordinamento per impugnare la sentenza».
Di conseguenza, il Collegio cassa la sentenza impugnata, rimettendo - nel caso di specie - la questione innanzi al giudice del merito per l'accertamento relativamente al fatto se sia o meno stato conferito un vero e proprio incarico professionale, al cui esito saranno esaminabili le istanze risarcitorie.
Osservazioni.
La responsabilità professionale del dottore commercialista presuppone la violazione del dovere di diligenza media ex art. 1176, comma 2, e dell'art. 2236 codice civile, in relazione alla natura e alla portata dell'incarico professionale conferito dal cliente.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Responsabile il commercialista che non suggerisce di impugnare in Cassazione

Nessun equo indennizzo al familiare del dipendente deceduto se fumatore 'incallito'

Il Collegio ha ritenuto che, in tema di lavoro subordinato pubblico e decesso, il diritto del familiare stretto ad ottenere l'indennizzo ex lege è condizionato all'accertamento, in un apposito procedimento e con relative valutazioni di Commissioni ad hoc, del quadro "storiografico" del soggetto deceduto, delle cause e delle relative contestualizzazioni: così, l'abitudine al fumo assume portata determinante e tale da escludere l'eziopatogenesi.
Il principio si argomenta dalla sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV n. 4163/2016, decisa il 22 settembre e depositata il 10 ottobre 2016.
IL CASO
Il coniuge di un soggetto, deceduto per carcinoma polmonare, dipendente del Ministero della Difesa formulava istanza per ottenere la concessione di relativo equo indennizzo: quattro anni dopo il decesso, il Ministero, a seguito di parere favorevole della Commissione medica ospedaliera militare e di parere contrario della Commissione per le pensioni privilegiate ordinarie (emesso tredici mesi dopo) nella cui relazione si evidenziava che (il soggetto deceduto) fosse fumatore di quaranta sigarette al giorno e da molti anni, respingeva, con decreto direttoriale e senza averne comunicato l'avvio del relativo procedimento ed il preavviso, l'istanza.
LA DECISIONE
E' legittima, e va pertanto confermata, la sentenza di merito relativamente ad un provvedimento del Ministero con cui, accertata la qualità di fumatore del soggetto deceduto e previo parere sfavorevole della (sola) Commissione per le pensioni privilegiate ordinarie, venga denegata la concessione di equo indennizzo ex labore.
I PRECEDENTI ED I POSSIBILI IMPATTI PRATICO-NORMATIVI
In primis, vanno richiamati gli artt. 2, 3, 4, 24, 29, 35, 38, 97 e 117 Cost., 2697 c.c., 40 e 41 c.p., 8, 9 e 10 l. 07-08-1990 n. 241 nonché la l. 20-11-1987 n. 472.
Bisogna, quindi, focalizzare, sul piano logico-giuridico, sui concetti di procedimento, provvedimento, illecito, danno e responsabilità.
Prima facie, si potrebbe pensare ad una sorta di lesività, ex se, del decesso di un lavoratore e di risarcibilità, sine conditione, dell'evento.
Apparentemente, quindi, bisognerebbe stabilire se: a) il coniuge vedovo possa chiedere all'ente pubblico, datore di lavoro del soggetto deceduto, istanza di riconoscimento della causa di servizio; b) sia riconoscibile una determinata prevalenza alla cronologia dei pareri emessi dalle Commissioni chiamate a pronunciarsi; c) la P.A. possa denegare con decreto.
In realtà, sotto il profilo formale-procedurale, tre le osservazioni da effettuare.
La prima sulla non necessità, e non obbligatorietà per la P.A., di comunicare l'avvio del procedimento se questo sia ad istanza di parte. Segnatamente, la P.A. non è tenuta a comunicare i successivi atti istruttori ed endo-procedimentali in quanto il privato è già conoscenza dell'iter conseguente e grava, quindi, su quest'ultimo l'onere di attivarsi per esercitare le proprie situazioni giuridiche soggettive partecipative.
La seconda sulla natura giuridica del procedimento de quo e, cioè, amministrativo e non a carattere contenzioso, sanzionatorio o giurisdizionale (Corte Cost. 21-04-1994 n. 155).
La terza sulla relazione configurabile tra commissione medica ospedaliera militare e Commissione per le pensioni privilegiate ordinarie: sul punto, è da notare che quest'ultima commissione è titolare di una specifica competenza in subiecta materia (Corte Cost. 21-06-1996 n. 209 ed ord. 26-07-1996 n. 323).
Sul piano sostanziale, la principale osservazione inerisce la valutazione della (eventuale) lesività ai fini della risarcibilità del relativo nocumento.
A riguardo, va sottolineato che il decesso del lavoratore pubblico, rectius del Ministero, non costituisce, a priori, evento illecito, fonte di responsabilità e di risarcibilità in re ipsa "iure hereditatis", e che i disagi generici legati all'ambiente non rilevano quali cause determinanti ed efficienti nell'insorgenza di (tale) infermità.
De iure condito, le cause preesistenti, se ritenute da sole sufficienti a determinare l'evento dannoso, escludono l'eziologia specifica tra patologia neoplastica e decesso.
Rebus sic stantibus, è irrilevante la gravità della patologia e non invocabile, in senso differente, l'eventuale concorso di cause. Altresì, è indifferente la natura militare della commissione medica ospedaliera.
Così, i principi penali generali finiscono per "recidere" l'applicabilità delle norme speciali e di quelle di matrice civilistica ed il principio di solidarietà, connesso a quello dell'equilibrio delle finanze pubbliche (Corte Cost. 11-11-2010 n. 316 ed ord. 23-05-2003 n. 173), (finisce per) prevale(re) su quello della tutela delle esigenze di vita del familiare superstite che, pertanto, non assume portata assoluta e/o prevalente in materia de qua.
In tal senso, non si configura alcuna violazione del diritto alla salute del lavoratore nonché del diritto di difesa.
Appare, quindi, attualmente condivisibile l'orientamento del Consiglio di Stato secondo cui, in ambito di rapporti lavorativo-gerarchici tra Pubblica Amministrazione e privato, il Ministero può escludere la concessione dell'equo indennizzo da causa di servizio (anche) esclusivamente sulla base del parere, adeguatamente motivato in termini tecnico-scientifici (Cons. Stato Sez. IV 21-10-2014 n. 5179, Sez. VI 01-12-2009 n. 7516 e Sez. IV 10-12-2007 n. 6333) della Commissione per le pensioni privilegiate ordinarie, anche quando sia successivo e contrario al parere della commissione medica ospedaliera militare (T.A.R. Lazio Sez. I-bis 07-04-2014 n. 3768).

Fonte: www.ilsole24ore.com/Nessun equo indennizzo al familiare del dipendente deceduto se fumatore 'incallito'

Rumori molesti nei locali del Comune, risarcimento possibile

Peggiorata la qualità della vita, grazie al Comune. Comprensibili le proteste di una donna, costretta a sopportare i costanti, fastidiosi rumori provocati dai motori di pompaggio dell’acqua collocati nei locali dell’ente pubblico. Legittima la richiesta di un adeguato risarcimento. Che però dovrà essere calcolato anche tenendo conto delle ripercussioni psico-fisiche.
Rumori. Scontro tra un piccolo Municipio campano e una donna. Quest’ultima si lamenta per i problemi provocati dalla «prolungata esposizione a fonti rumorose (motori di pompaggio dell’acqua) collocati in locali dell’amministrazione comunale». Più precisamente, nella richiesta di «risarcimento» vengono richiamati i «danni» subiti, cioè «disturbo di disadattamento cronico con depressione ed ansia misti».
Una volta ricostruita la vicenda, i giudici del Tribunale riconoscono alla donna ben 61mila euro. Meno duri nei confronti dell’ente pubblico, invece, i giudici d’appello: essi condannano il Comune a versare solo 10mila euro «a titolo di danno per il peggioramento della qualità della vita» subito dalla donna. Esclusa, invece, l’ipotesi di un ristoro economico per i danni provocati alla vittima a livello di «integrità psico-fisica».
Problemi. Ora, però, il «danno biologico» torna di nuovo in ballo. Per i magistrati della Cassazione, difatti, non è condivisibile la visione con cui è stato escluso «il nesso tra esposizione alle intollerabili emissioni rumorose» e «le patologie» lamentate dalla donna, ossia «disturbo di disadattamento cronico, con depressione ed ansia misti; ipoacusia percettiva; ipoacusia mista a destra».
Ciò comporta che la richiesta della donna dovrà essere nuovamente esaminata in appello. Da ridefinire, di conseguenza, la cifra che il Comune dovrà versare a mo’ di risarcimento. E su questo fronte, dando per accertato lo stress subito dalla donna, bisognerà fare chiarezza sull’origine dei problemi psico-fisici da lei lamentati (Corte di Cassazione, ordinanza n. 23445, depositata il 17 novembre).

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Rumori molesti nei locali del Comune, risarcimento possibile - La Stampa

lunedì 21 novembre 2016

Giustizia, giudici di pace in sciopero fino al 25 novembre

Da oggi al 25 novembre scioperano i giudici di pace e l'intera magistratura onoraria. "Senza di noi la giustizia si ferma: non meno di mezzo milione di processi resteranno al palo", dice l'Unione Nazionale dei Giudici di Pace: "Il problema della giustizia non è certo posticipare il pensionamento di alcuni magistrati professionali, ma garantire l'indipendenza di oltre 5.000 giudici di pace e magistrati onorari di tribunale e procure che trattano il 60% del contenzioso civile e penale". Per il segretario generale dell'Unione, Alberto Rossi, "la riforma della giustizia Orlando cancella il giudice di pace, ossia l'unica figura di magistrato che ha garantito celerità ed efficienza alla Giustizia in Italia e, cosa ancor più grave, trasforma tutti i giudici di pace ed i magistrati onorari in meri ausiliari del magistrato di carriera, gerarchizzando l'esercizio della giurisdizione in violazione dell'articolo 101 della Costituzione". "Il Governo ci deve riconoscere la continuità del servizio, piene tutele previdenziali ed assistenziali, uno stipendio congruo e commisurato all'alta funzione da noi svolta", sostiene invece il presidente dell'Unione, Mariaflora Di Giovanni: "Non è solo la Costituzione a imporlo, ma anche e soprattutto l'Europa, che sta avviando una procedura di infrazione contro il Governo Italiano, già condannato dal Consiglio d'Europa, con decisione del CEDS pubblicata il 17 novembre, a riconoscere ai giudici di pace i diritti pensionistici e le retribuzioni non erogate nei periodi di impedimento per malattia, maternità, ferie, a partire dal 1995 e sino ad oggi". In tal senso i giudici di pace, che già si sono rivolti al TAR Lazio per chiedere la stabilizzazione, hanno preannunciato l'avvio di centinaia di azioni giudiziarie. Oggi sciopera anche tutto il personale amministrativo degli uffici giudiziari.

Fonte: www.italiaoggi.it/Giustizia, i giudici pace in sciopero - News - Italiaoggi

domenica 20 novembre 2016

Dimissioni on line: le regole tecniche per la presentazione

Le dimissioni del lavoratore e della lavoratrice, quale atto unilaterale recettizio di esercizio di un diritto potestativo, il cui effetto tipico è la risoluzione del rapporto di lavoro e delle posizioni giuridiche soggettive ad esso afferenti, sino al 12 marzo 2016 potevano essere rassegnate in forma scritta nonché mediante fatti concludenti ossia condotte chiaramente incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro stesso (vale a dire l'abbandono del posto di lavoro seguito da un periodo di assenza ingiustificata e, in alcuni casi, dalla accettazione della liquidazione del trattamento di fine rapporto senza offerta della prestazione lavorativa).
Dopo un primo tentativo di regolamentazione nel 2007 e, quindi, con la legge 92/2012 (art. 4, commi 16-23bis) l'art. 26 del D.Lgs. 151/2015 introduce un vincolo di forma condizionante l'efficacia risolutiva delle dimissioni.
Le dimissioni infatti, a far data dal 12 marzo 2016, devono essere rassegnate, pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche e su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del Lavoro.
Con la pubblicazione, in Gazzetta Ufficiale, del Decreto 15 dicembre 2015, il Ministero del Lavoro ha definito gli standard e le regole tecniche per la compilazione del modulo per la presentazione delle dimissioni e risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro e dell'eventuale revoca.
Si è passati, quindi, da una convalida prevista su una qualsiasi procedura comunicativa delle dimissioni di cui all'impianto normativo precedente, ad una procedura telematica univoca che il lavoratore non può derogare e sulla quale il datore di lavoro non può intervenire e rispetto alla quale riceve automaticamente una comunicazione di posta elettronica ovvero all'indirizzo PEC, ove provvistone.
Sussiste, altresì, un "diritto di ripensamento" da parte del lavoratore: le dimissioni, infatti, possono essere revocate entro 7 giorni dalla trasmissione del modulo relativo alle dimissioni. Ciò comporta, inevitabilmente, che per poter sostituire il lavoratore dimissionario, il datore di lavoro dovrà attendere lo spirare di detto periodo di tempo all'interno del quale il lavoratore può revocare le proprie dimissioni (sempre mediante procedura telematica).
La disciplina in esame si rivela non soltanto complessa poiché non è agevole la compilazione del modulo telematico da parte del lavoratore o della lavoratrice che, ove non rassegni le dimissioni per giusta causa, deve premurarsi anche di indicare la durata del periodo di preavviso e, onde poter procedere alla compilazione del modulo per la comunicazione delle dimissioni telematiche, deve avere ricevuto codice personale INPS (PIN INPS dispositivo) per accedere tramite il portale lavoro.gov.it al form on line, compilandolo.
In alternativa, il lavoratore può rivolgersi a soggetti abilitati alla trasmissione del modulo telematico quali patronati, sindacati, enti bilaterali, commissione di certificazione.
Non solo. Tale disciplina si applica anche alla risoluzione dei rapporti di lavoro con i dirigenti, nonché alle risoluzioni consensuali del rapporto salvo che le medesime siano effettuate in una sede protetta ai sensi dell'art. 2113 cod. civ. (Direzione del Lavoro, Commissione Sindacale di Conciliazione) ovvero avanti alle Commissioni di Certificazione (ex art. 76 D.Lgs. 276/2003).
Sono però escluse dal campo di applicazione della disciplina delle dimissioni con modalità telematica una serie di fattispecie variegate: le dimissioni del rapporto durante il periodo di prova, le dimissioni rese nel rapporto di lavoro domestico, nel rapporto di lavoro marittimo.
Per i genitori lavoratori permane l'obbligo di convalida davanti al servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio. Si tratta delle dimissioni rese dalla lavoratrice in stato di gravidanza, dal lavoratore o dalla lavoratrice durante i primi tre anni di vita del bambino o dall'accoglienza del minore adottato o in affidamento; in ipotesi di adozioni internazionali detto termine decorre dalla comunicazione della proposta di incontro con l'adottando o della comunicazione dell'invito a recarsi all'estero per ricevere la proposta di abbinamento.
Per le dimissioni della lavoratrice nel periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni del matrimonio ed un anno dopo la celebrazione delle nozze devono essere effettuate mediante la procedura telematica e confermate avanti alla Direzione Territoriale del Lavoro. Dall'entrata in vigore della legge 76/2016 che regolamenta le unioni civili fra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti, negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, ai sensi dell'art. 1, coma 20, si applicano anche alle unioni civili e, pertanto, la conferma delle dimissioni trova applicazione anche a questo caso, entro un anno dall'unione civile (non applicandosi a dette unioni le disposizioni del codice civile che prescrivono le pubblicazioni sub artt. 93-101).
Vale a dire che permane tutt'ora un panorama non unitario che impone, in ogni ipotesi di dimissioni, al datore di lavoro di verificare che, laddove tutt'ora permanga tale obbligo, le dimissioni siano confermate o convalidate. Ma non basta. Una recente interruzione del servizio telematico ha comportato dal 3 ottobre e sino alle ore 18 dell'11 ottobre 2016 l'impossibilità di porre in essere la procedura ordinaria (prevedendosi, invece una procedura temporanea utile a fornire il servizio durante i giorni di sospensione dovuta ad un guasto tecnico occorso agli hardware ministeriali, attraverso gli operatori abilitati sopra elencati, disposta con nota del Ministero del Lavoro).
Conclusivamente, non solo non sembra potersi parlar di una effettiva "semplificazione", ma sono altresì aggravati gli oneri del datore di lavoro laddove ad esempio, il lavoratore non effettui le dimissioni secondo modalità telematiche o non si rechi più al lavoro, senza addurre giustificazione alcuna.
In dette situazioni, infatti, il datore di lavoro non potrà che considerare inefficaci le dimissioni rassegnate semplicemente per iscritto, nonché, in ipotesi di successiva assenza ingiustificata e non correlata a malattia o causali che rendano legittima la medesima, esercitare il potere disciplinare ed -in mancanza di ripresa del servizio - intimare il licenziamento (sostenendo i relativi oneri economici rappresentati dal c.d. ticket di licenziamento che può arrivare sino all'importo di Euro 1.500,00).
Il che, in una situazione di crescita economica quale quella attuale, certamente non rappresenta un incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato, nonostante la disciplina del rapporto di lavoro a tutele crescenti di cui al D.Lgs. 23/2015 e rappresenta un corto circuito rispetto alle intenzioni dichiarate dal Legislatore di favorire la crescita e di semplificare le procedure burocratiche per cittadini ed imprese.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Dimissioni on line: le regole tecniche per la presentazione

sabato 19 novembre 2016

Assegno in bianco o postdatato, a garanzia di un debito, è contrario a norme imperative

L’emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia – nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento -, è contrario alle norme imperative contenute nella R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, artt. 1 e 2 e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume enunciato dall’art. 1343 cod. civ..
Pertanto, non viola il principio dell’autonomia contrattuale sancito dall’art. 1322 cod. civ. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all’art. 1988 cod. civ.
Questi i principi affermati dalla Corte di Cassazione, sez. prima, Pres. Forte – Rel. Bisogni, con sentenza del 24 maggio 2016 n. 10710.
La lite giudiziaria culminata con la proposizione del ricorso in cassazione trae origine da un decreto ingiuntivo fondato su un atto di transazione stipulato tra il creditore ed il debitore principale e su un assegno di conto corrente postdatato rilasciato – in favore del medesimo creditore – da un soggetto diverso dal debitore principale, a garanzia dell’obbligazione contratta da quest’ultimo.
Il traente-garante ha proposto opposizione avverso il suindicato decreto ingiuntivo eccependo la nullità del patto di garanzia correlato al predetto assegno postdatato, attesa la contrarietà dello stesso alle norme imperative di cui agli articoli 1 e 2 del R.D. n.1763/1933.
Rigettata sia l’opposizione che l’appello avverso la sentenza di primo grado, la questione è stata sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione.
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente ha lamentato la violazione della cosiddetta legge assegni ed ha posto il seguente quesito di diritto: se l’emissione di un assegno bancario postdatato a garanzia di un altrui futuro adempimento comporta, stante la violazione degli artt. 1 e 2 della legge assegni e dell’art. 1343 c.c., la nullità del sottostante patto di garanzia, stante la natura imperativa delle norme citate.
Il Giudice di Legittimità, richiamando precedenti pronunce (Cass. Civ, Sez. n. 3, n.26232 del 22 novembre 2013 e Cass. Civ., Sez. n. 2, n.4368 del 19 aprile 1995), ha formulato il principio di diritto riportato in massima e, ritenendo meritevole di accoglimento il motivo proposto, ha accolto il ricorso rinviando a diversa composizione della Corte di Appello affinché, applicato detto principio di diritto, valutasse nuovamente il merito della controversia.

Fonte: www.expartecreditoris.it/ASSEGNO: l’emissione in bianco o postdatato, consegnato a garanzia di un debito, è contraria a norme imperative - Expartecreditoris

Comprare all'asta e non correre rischi

Per non incorrere nel rischio di acquistare all’asta un immobile non rispondente alle proprie esigenze è buona norma leggere sempre e con estrema attenzione la perizia di stima e chiedere al delegato – se necessario – di esaminare il fascicolo della procedura esecutiva in seno alla quale il bene viene venduto.
Solo da tali atti emerge chiaramente ogni circostanza rilevante ai fini della valutazione della convenienza a proporre offerta di acquisto; mentre non bisogna fermarsi alla lettura dell’ordinanza di delega e dell’avviso di vendita, ad essa speculare, o della sola pubblicità.
Sul punto da ultimo si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21480/2016 che ha deciso sul ricorso proposto da un aggiudicatario, il quale lamentava un vizio della vendita in quanto nell’ordinanza di delega e nella relativa pubblicità non era stata espressamente indicata l’esistenza di una sentenza che condannava il debitore alla demolizione di parte dell’immobile e, quindi, ignota all’aggiudicatario.
Come non incorrere in rischi?
È semplice: basta leggere con attenzione la perizia nella quale sono contenute tutte le informazioni necessarie, che viceversa non devono essere dettagliatamente contenute nell’ordinanza di delega e nella relativa pubblicità cartacea o web, perché possono essere comunque ricavabili dagli atti del processo. Si può contattare il custode, che è il vero punto di riferimento della procedura esecutiva e che è il vero ausiliario del Giudice dell’Esecuzione perché deve tutelare gli interessi di tutte le parti.
É da tener presente che le informazioni vanno acquisite prima della partecipazione, perché il mancato versamento del saldo prezzo comporta la confisca di quanto già versato a titolo di cauzione.
È possibile visionare l’immobile prima dell’asta e chiedere tutte le informazioni utili per un buon acquisto.

Fonte: www.expartecreditoris.it/COMPRARE ALL’ASTA E NON CORRERE RISCHI - Expartecreditoris

Acqua: Gratis 50 litri per gli indigenti

Cinquanta litri di acqua al giorno gratis e tariffe differenziate in base alle condizioni economiche e all’uso. Così il decreto del presidente del consiglio dei ministri, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del il 18 novembre 2016, in attuazione della legge numero 221 del 2015 (art. 60, comma 1, che incaricava il governo di «fissare i principi e i criteri per garantire l’accesso alla fornitura della quantità di acqua necessaria al soddisfacimento dei bisogni fondamentali, a condizioni agevolate, agli utenti domestici del servizio idrico integrato in condizioni economico-sociali disagiate»). In particolare il decreto prevede che l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico (Aeegsi) deve determinare, con riferimento al quantitativo minimo vitale d’acqua, una fascia di consumo annuo cui applicare una tariffa agevolata. Inoltre l’Autorità, sempre con riferimento al quantitativo minimo di acqua, deve applicare un bonus acqua a tutti gli utenti domestici residenti, ovvero nuclei familiari, che sono in condizioni di disagio economico sociale. Il bonus è uguale prezzo che l’utente in condizioni economiche disagiate deve pagare ogni anno per il quantitativo minimo vitale determinato a tariffa agevolata.

Fonte: www.italiaoggi.it/Gratis 50 litri per gli indigenti - News - Italiaoggi

venerdì 18 novembre 2016

Niente stipendio, non punibili i messaggi rancorosi all’ex datore di lavoro

Retribuzione mai percepita. Scontata la reazione del dipendente nei confronti del suo ex datore di lavoro, bombardato con messaggi pieni di rancore. Per quanto la condotta tenuta dal lavoratore sia poco elegante, essa non è punibile.
Reazione. Il contenuto degli scritti ricevuti sul proprio cellulare è stato valutato dal datore di lavoro come «minaccioso». Ecco spiegata la citazione in giudizio nei confronti del suo ex dipendente, finito sotto accusa per «i delitti di ingiuria minaccia».
A sorpresa, però, sia il Giudice di pace che il Tribunale ritengono non punibile il lavoratore. In sostanza, i magistrati ritengono impossibile parlare di reali «minacce» ai danni dell’imprenditore, da un lato, e, dall’altro, spiegano che la condotta tenuta dall’ex dipendente è stata «frutto di uno sfogo incontrollato, derivante da una situazione esacerbata» e quindi va valutata come «reazione a una provocazione».
E questa visione è condivisa ora dai giudici della Cassazione, che confermano l’assoluzione del lavoratore con la sentenza n. 48245/2016 depositata il 15 novembre scorso.
Decisiva la ricostruzione della vicenda. In sintesi, «dopo un accordo definito informale», l’imprenditore ha «corrisposto un assegno per l’importo di 5mila euro» all’ex dipendente, che però non ha potuto incassarlo, essendo esso risultato «irregolare». Tale situazione, secondo i magistrati, rende comprensibile la «reazione» del lavoratore, reazione concretizzatasi, come detto, nei «messaggi astiosi» inviati al vecchio datore di lavoro.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Niente stipendio, non punibili i messaggi rancorosi all’ex datore di lavoro - La Stampa

Sospetta evasione per chi preleva o versa più di 1.000 euro al giorno. Salvi i professionisti

Giro di vite sui prelievi delle imprese. Una nuova disposizione, inserita nel Decreto Fiscale durante il passaggio alla Camera, prevede per le imprese un parametro quantitativo oltre il quale scatta la presunzione di evasione per i prelievi o i versamenti di importo superiore a 1000 euro giornalieri e a 5.000 euro mensili. Si tratta del 1° comma del corposo art. 7-quater che, rubricato “Disposizioni in materia di semplificazione fiscale”, inserisce una raffica di norme che vanno dalla riorganizzazione del calendario fiscale, alla deducibilità delle spese di viaggio dei lavoratori autonomi, agli adempimenti in tema di cedolare secca, all’obbligatorietà dell’utilizzo dell’F24 telematico, alla chiusura delle Partite IVA. Insomma, un pout pourri di norme eterogenee tra cui, appunto, la modifica dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973, in tema di presunzioni e utilizzo dei dati emersi durante le indagini bancarie.
Nello specifico la modifica contenuta nel Decreto Fiscale, la cui legge di conversione ha incassato ieri l’atteso sì della Camera, prevede che i dati e gli elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni risultanti dalle indagini bancarie vengano posti come ricavi (e non più anche come compensi, dunque la presunzione non opera per i professionisti) a base delle rettifiche e degli accertamenti fiscali, se il contribuente non indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni «per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili».

Fonte: www.fiscopiu.it/Sospetta evasione per chi preleva o versa più di 1.000 euro al giorno. Salvi i professionisti - La Stampa

Agenzia delle Entrate: avvisi di accertamento via Pec

Dal 1° luglio 2017 gli avvisi di accertamento e gli atti propedeutici (questionari, inviti, richieste di documenti) emessi dall’Agenzia delle entrate viaggeranno via Pec. La notifica telematica potrà essere effettuata direttamente nei confronti di tutti i soggetti obbligati per legge alla tenuta di una casella di posta elettronica certificata, vale a dire società, ditte individuali e professionisti iscritti all’albo. Per tali categorie di contribuenti, tuttavia, sparisce l’obbligo alla notifica esclusivamente tramite Pec delle cartelle di pagamento: l’ente di riscossione, che prenderà il posto di Equitalia, potrà ricorrere sì all’inoltro digitale, ma anche alle modalità tradizionali (raccomandata postale, messo comunale, ufficiale giudiziario). Lo prevede il dl 193/2016, approvato mercoledì dalla Camera dopo le modifiche apportate dalle commissioni bilancio e finanze di Montecitorio.
Accertamenti. Con una integrazione all’art. 60 del dpr 600/73 viene introdotta la facoltà per l’amministrazione finanziaria di notificare «gli avvisi e gli altri atti che per legge devono essere notificati» tramite Pec. Destinatari della novità sono imprese individuali, società e professionisti iscritti in albi o elenchi istituiti con legge dello stato. Gli uffici potranno estrarre gli indirizzi dall’indice nazionale Ini-Pec. La modifica normativa, che sarà in vigore dal 1° luglio 2017, disciplina anche la procedura di notifica e il momento di perfezionamento della stessa. In particolare, se la casella Pec del destinatario risulta satura o inattiva, l’Agenzia dovrà effettuare un secondo tentativo di consegna decorsi almeno sette giorni dal primo invio.

Fonte: www.italiaoggi.it/Avvisi di accertamento via Pec - News - Italiaoggi

domenica 13 novembre 2016

L'attività di meretricio sconta l’IRPEF

I redditi da prostituzione scontano l’IRPEF come “redditi diversi derivanti dall’attività di lavoro autonomo”. La Cassazione, con la sentenza del 4 novembre 2016, n. 22413, ha in buona parte approvato la tesi già avanzata dai giudici di merito, confermando l’accertamento nei confronti di una prostituta “di lusso” che per ben otto anni nonaveva dichiarato i propri redditi, nonostante fosse intestataria di numerose autovetture, di un appartamento, di alcuni contratti di locazione immobiliare e, infine, di dieci conti correnti. Era quindi un po’ sospetto che non avesse proprio nessun reddito da dichiarare. Va da sé, l’Agenzia delle Entrate aveva proceduto all’accertamento d’ufficio.
La difesa della donna è stata quella di ammettere che i redditi erano proventi di attività di prostituzione, e che erano pertanto esenti. Tuttavia, secondo i Giudici di merito, tali redditi erano invece perfettamente tassabili: secondo la CTR, infatti, il reddito da meretricio non costituisce reddito esente o non imponibile – così come non è provento da attività illecita – ma rientra tra i “redditi diversi” – e pertanto tassabili, derivanti da lavoro autonomo non esercitato abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare o permettere. Inoltre, la CTR accoglieva parzialmente l’appello dell’Ufficio, qualificando come reddito tassabile anche una parte dei versamenti in assegni, ma giustificando altri assegni ricevuti da una società.
Tuttavia, la Cassazione ha accolto il ricorso delle Entrate: la CTR non aveva valutato le deduzioni dell’Ufficio in merito a tali assegni. La donna era infatti estranea alla società in questione e la cospicua movimentazione di denaro non poteva essere giustificata da “meri rapporti di gentilezza e disponibilità”.
Fonte: www.fiscopiu.it/L'attività di meretricio sconta l’IRPEF - La Stampa

venerdì 11 novembre 2016

Affidamento condiviso per il cane della coppia non più convivente

Una donna ha convenuto in giudizio l’ex-convivente chiedendo al Tribunale di Roma la restituzione in suo favore del cane della coppia, a suo dire, illegittimamente detenuto dall’uomo, nonché il risarcimento dei danni subiti a causa della sua sottrazione. Durante la convivenza, la donna aveva adottato l’animale e lo aveva registrato a suo nome, con regolare microchip, all’anagrafe canina. Al termine della relazione, l’ex compagno, però, lo aveva trattenuto presso di sé, impedendole di vederlo regolarmente.

Il Giudice, tenendo conto dell’assenza nell’ordinamento italiano di una norma che disciplini l’affidamento degli animali d’affezione in caso di separazione di coniugi o conviventi, aderisce a due precedenti giurisprudenziali in materia che, volendo tutelare «l’interesse materiale- spirituale- affettivo dell’animale», avevano applicato per analogia, in due casi di separazione, la disciplina dell’affidamento condiviso prevista per i figli minori. Tale orientamento, secondo il Tribunale, appare il linea con la proposta di legge, presentata in Parlamento, con cui si vorrebbe introdurre nel codice civile l’istituto dell’affidamento degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi.

Nel caso di specie, il Giudice ha ritenuto che il regime giuridico in grado di tutelare l’interesse del cane e quello affettivo di entrambe le parti, sia l’affidamento condiviso che può essere disposto a prescindere dallo status delle parti dal momento che la proposta di legge citata estende la competenza del Tribunale a decidere sull’affido dell’animale anche alla cessazione della convivenza more uxorio e considerata la tendenza della giurisprudenza ad equiparare la famiglia di fatto a quella fondata sul matrimonio.

Per questi motivi il Tribunale di Roma, respingendo la richiesta risarcitoria dell’attrice, ha disposto l’affidamento condiviso del cane, che starà sei mesi all’anno con una parte e sei mesi con l’altra. Entrambi dovranno provvedere, inoltre, nella misura del 50% ciascuno, alle spese per il suo mantenimento (sentenza 5322 del 15 marzo 2016).

Fonte: www.ilfamiliarista.it /Affidamento condiviso per il cane della coppia non più convivente - La Stampa

Scuola e contratti a termine, abuso se reiterati per oltre 36 mesi

La reiterazione dei contratti a termine degli insegnanti e del personale tecnico e amministrativo della scuola si configura come un abuso solo se, per effetto dei diversi rinnovi contrattuali, la durata complessiva del rapporto supera il periodo di 36 mesi (computo nel quale rientrano solo i rapporti instaurati a partire dal 10 luglio 2001). Qualora si configuri la violazione di questo limite, la sanzione deve dare un ristoro effettivo: pertanto, può bastare la “stabilizzazione” mediante procedura selettiva, a patto che intervenga in un tempo congruo. In mancanza di tale misura, deve essere riconosciuto un risarcimento del danno.
Questa la lunga e complessa lista di conclusioni cui è giunta la Corte di cassazione con le prime decisioni elaborate dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 187/2016 in merito all'annosa questione dei contratti a termine dei docenti e del personale Ata.
Fonte: www.ilsole24ore.com//Scuola e contratti a termine, abuso se reiterati per oltre 36 mesi

mercoledì 9 novembre 2016

Gabbie piccole e sovraffollate, animali ansiosi: condannato il proprietario del circo

I circhi debbono essere innanzitutto a misura d’animale. Ecco perché è necessario punire chi ignora volutamente le condizioni precarie in cui i quadrupedi sono costretti a vivere, anzi a sopravvivere. Esemplare la condanna sancita in Cassazione nei confronti del titolare di un circo, ritenuto colpevole di avere provocato gravi sofferenze agli animali presenti nella struttura, e detenuti in condizioni deprecabili.
Lacune. A ricostruire la vicenda hanno provveduto in Tribunale. Lì sono emerse gravi lacune nella gestione degli animali presenti nella struttura: nell’ordine, «mancanza di luce naturale, mancanza di acqua per alcune specie, dimensioni obiettivamente insufficienti delle gabbie» e, in ultimo, «uniformità della temperatura all’interno della struttura». Senza dimenticare, poi, viene aggiunto, il «sovraffollamento degli ambienti».
Tutto ciò ha spinto i giudici a ritenere il proprietario del circo colpevole. Logica la condanna nei suoi confronti per il reato di «abbandono di animali», concretizzatosi nell’averli costretti a vivere «in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze».
Sofferenze. Ora, nonostante le obiezioni mosse dal legale dell’esponente circense, anche i magistrati della Cassazione ritengono lapalissiano, e meritevole di sanzione, il disumano trattamento cui sono stati sottoposti gli animali (sentenza n. 46144/16 depositata il 3 novembre). Decisive, però, non solo le precarie condizioni di vita subite, ma anche le ripercussioni riportate: diversi esemplari, difatti, presentavano «comportamenti stereotipi e ansiosi», annotano i giudici. E tale elemento è sicuramente sufficiente per considerare acclarata la «sofferenza» subita dagli animali.
Tutto ciò conduce alla conferma della condanna nei confronti del proprietario del circo. Allo stesso tempo, viene ribadita anche la legittimità del «sequestro degli animali», da affidare ad enti ed associazioni pronti ad accudirli degnamente.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Gabbie piccole e sovraffollate, animali ansiosi: condannato il proprietario del circo - La Stampa

Beccati mentre provano a rubare cosmetici: no all’arresto

Colpo maldestro. Due ladri vengono fermati mentre provano a portare via alcune confezioni di cosmetici da un supermercato. Pur se colti sul fatto, però, viene ritenuto non legittimo l’arresto operato dagli uomini delle forze dell’ordine. Decisiva la non gravità del danno patrimoniale per la società proprietaria della struttura commerciale.
Valore. A sorprendere è la decisione con cui i giudici del Tribunale non convalidano «l’arresto» di due uomini, entrambi originari dello Sri Lanka, fermati per «tentato furto» in un supermercato.
Ricostruito l’episodio, è certo che gli stranieri sono stati sorpresi mentre stavano provando a portar via dalla struttura commerciale «cinque confezioni di cosmetici». Per i giudici, però, è decisivo lo scarso peso del «danno patrimoniale» arrecato ai proprietari del supermercato.
E questa valutazione viene condivisa ora dai magistrati della Cassazione (sentenza n. 46703 depositata l’8 novembre 2016). Inutile l’obiezione mossa dal Procuratore della Repubblica, e centrata non solo sul «valore di 107,25 euro» delle «confezioni di cosmetici» prese di mira dai due uomini, ma anche sul fatto che esse non sono certo catalogabili come «beni di prima necessità».
Corretta, quindi, la decisione con cui in Tribunale si è deciso di non convalidare l’arresto dei due stranieri.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Beccati mentre provano a rubare cosmetici: no all’arresto - La Stampa

Consulta: sì al cognome della madre anziché del padre

Imporre al figlio il cognome del padre, se la madre non è d’accordo, è incostituzionale. Lo ha stabilito la Consulta con una sentenza destinata a passare alla storia. La Corte Costituzionale, infatti, ha accolto una questione di legittimità in merito sollevata dalla Corte d’appello di Genova. Così, dunque, è possibile dare al proprio figlio il cognome della madre anziché quello del padre. Oppure i bambini possono avere entrambi i cognomi. Con quello di mamma davanti a quello di papà. Purché mamma e papà siano d’accordo. Ma questo appare un dettaglio da poco. Altrimenti, quale sarebbe il problema?
Il problema si poneva prima, quando la legge imponeva il fatto che Mario Nero si sentisse in imbarazzo a chiamare il figlio “Mario”, come lui, per una questione di omonimia. A meno che il figliolo optasse per una delle tante importazioni americane e, sulla carta di identità come sul biglietto da visita, scrivesse “Mario Nero jr”, cioè junior, per distinguersi dal senior. Oggi il figlio di Mario Nero e di Giuseppina Bianco può chiamarsi Mario Bianco Nero. Se poi tifa Juventus è perfetto. Altrimenti può restare Mario Bianco. E basta. Lo ha detto la Consulta.
Se non c’è accordo tra i genitori sul cognome del figlio?
La stessa Consulta che ha, dunque, dichiarato illegittima la norma sull’attribuzione automatica del cognome paterno al figlio quando entrambi i genitori vorrebbero delle generalità diverse per il loro neonato. A meno che… A meno che i genitori litighino tra di loro su questo punto. Roba da fantascienza per i nostri nonni. Non per i genitori di oggi: si può discutere anche su questo.
Che due genitori non siano d’accordo sul nome da dare al nascituro, ci sta. Spesso ci si mettono anche le suocere, che spingono sul nome del povero zio venuto a mancare, del nonno che baderà al pupo, del caro parente che, per tradizione, deve avere il timbro sull’albero genealogico. Ma il cognome non è mai stato messo in discussione. Ci tiene, soprattutto, il padre. Non per altro, ma perché almeno è l’unico modo in cui può dimostrare di essere, anagraficamente, appunto, “il padre”. Il resto sono dettagli. Più o meno.
Non per la legge. La legge non accetta “dettagli”. Ma cosa dice in proposito la legge? Nulla, se non quello che la Consulta ha appena dettato. Perché il Parlamento deve ancora pronunciarsi in materia in modo definitivo.
Lo ha fatto la Camera dei Deputati nel 2014, approvando un disegno di legge che sancisce la possibilità di dare ai figli i cognomi di entrambi i genitori. Non lo ha ancora fatto, però, il Senato, nonostante l’Unione europea abbia sollecitato più volte un pronunciamento su questo tema. E se Palazzo Madama (o quel che resterà di lui dopo il referendum del 4 dicembre) dovesse confermare quanto detto a Montecitorio, padri e madri sappiano che in caso di litigio prevarrà l’ordine alfabetico. E così Giuseppe Rosso Perone sarà destinato a chiamarsi Giuseppe Perone Rosso.

Fonte: www.laleggepertutti.it//Consulta: sì al cognome della madre anziché del padre

lunedì 7 novembre 2016

No alla tenuità del fatto dal giudice di pace

La non punibilità per la particolare tenuità del fatto, prevista dall'articolo 131-bis del codice penale non può essere applicata ai procedimenti davanti al giudice di pace. L'estensione è da escludere soprattutto in considerazione del fine conciliativo al quale è ispirato il rito del giudice di pace, al quale si applica la norma sulla particolare tenuità prevista dall'articolo 34 del Dlgs 274/2000.

La sentenza 45996 della quinta sezione penale della Cassazione di ieri, arriva a poco più di un mese di distanza dalla sentenza 40699, con la quale i giudici della quarta avevano dato il via libera all'applicazione dell'articolo 131-bis anche nella giurisdizione del giudice di pace. In entrambe le sentenze, ovviamente, sono chiariti i motivi della scelta. Ieri i giudici hanno negato la non punibilità ad un ragazzo condannato per lesioni dal giudice di pace con l'avallo del tribunale.

Fonte: www.ilsole24ore.com/No alla tenuità del fatto dal giudice di pace

“Pensa prima di condividere”: Orlando e Facebook per un utilizzo consapevole dei social

Nel pomeriggio di giovedì 3 novembre 2016, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e i rappresentanti di Facebook Italia hanno presentato la guida «Pensa prima di condividere», per l’utilizzo consapevole dei social media e la sicurezza online.
«Tutti dicono che condividere è positivo. Grazie alla tecnologia possiamo condividere le nostre idee e opinioni, le foto e i video con gli amici e le altre persone. Nella maggior parte dei casi, condividere è positivo. Tuttavia, se non lo facciamo in modo adeguato, corriamo il rischio di ferire noi stessi e o le altre persone».
«Pensa prima di condividere». Questo l’incipit della guida «Pensa prima di condividere», presentata nel pomeriggio di giovedì 3 novembre, presso il Museo Criminologico a Roma, dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando, con la partecipazione del Capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità Cascini, del direttore dell’IFOS Pisano, del responsabile Relazioni Istituzionali Facebook Italia Bononcini e della dirigente dell’Ufficio IV della DGMC Mastropasqua.
Una guida interattiva, ricca di “clicca qui” per poter invogliare i giovani a leggere le storie di altri ragazzi. Questo perché sono proprio loro i destinatari di questa guida: i giovani.
I tuoi contenuti. Al centro del documento vi è infatti la sicurezza informatica, alla quale si richiama l’attenzione, «chiediti: voglio che le persone mi vedano in questo modo? Questo contenuto potrebbe essere usato per ferirmi? Mi darebbe fastidio se fosse condiviso con altre persone? Qual è la cosa peggiore che potrebbe succedere se lo condividessi?», un invito a pensare prima di condividere. L’attenzione viene rivolta anche ai contenuti sessualmente espliciti che i ragazzi sono spesso incitati a condividere con il proprio partner.
Come rimediare ad una scelta sbagliata. Si invitano i giovani a non disperare in caso di scelte sbagliate. Le soluzioni consigliate variano dall’eliminazione del proprio nome e cognome da post o foto in cui si è stati “taggati”, all’invito a parlare direttamente con la persona che ha condiviso il contenuto, e, infine, alla denuncia alla Polizia di Stato, nelle situazioni più gravi.

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Fonte: www.dirittoegiustizia.it

Ubriaco e contromano in autostrada, uccide 4 persone: è omicidio volontario

In stato di ebbrezza alla guida del proprio ‘suv’, procedendo contromano in autostrada. Situazione assurda e pericolosa, protrattasi per quasi 20 chilometri, fino a quando, purtroppo, l’ipotesi peggiore si è concretizzata: il conducente ha centrato in pieno una vettura, ferendo l’altro automobilista e uccidendo i 4 passeggeri.
Non si è trattato, però, di un incidente catalogabile come conseguenza dei fumi dell’alcol. Per i magistrati, difatti, l’automobilista ubriaco è da ritenere colpevole di omicidio volontario. Definitiva perciò la condanna a 18 anni e 4 mesi di reclusione (Cassazione, sentenza n. 45997/2016, Sezione Quinta Penale, depositata il 2 novembre 2016).
Autostrada. Il dramma, in pochi secondi, nell’agosto del 2011, quando, lungo l’autostrada A26, un ‘suv’ – una Audi Q7 –, procedendo contromano ad alta velocità, centra in pieno un’automobile – una Opel Astra – in cui viaggiano cinque persone, tutte francesi. Il bilancio è terribile: ferito gravemente il conducente dell’Opel e morti i 4 passeggeri che erano con lui.
A rendere ancora più terribile la situazione, poi, la scoperta che l’uomo – un albanese – alla guida del ‘suv’ è ubriaco e ha scientemente fatto inversione in autostrada, per poi percorrere quasi 20 chilometri contromano, obbligando gli altri automobilisti a manovre assurde e rischiosissime per evitare l’impatto.
Ricostruiti quei drammatici minuti, il conducente del ‘suv’ viene ritenuto responsabile di «omicidio volontario». La sua condotta è inequivocabile, secondo i giudici, e non può essere resa meno grave dal fatto di essersi messo al volante dopo aver bevuto alcol in abbondanza. Egli è ritenuto consapevole delle proprie azioni e delle potenziali conseguenze.
Omicidio. E ora la visione tracciata dai giudici della Corte d’assise di appello viene ritenuta corretta e condivisa dai magistrati della Cassazione. Ciò significa per il cittadino albanese una condanna definitiva a «18 anni e 4 mesi di reclusione».
Nessun dubbio, in sostanza, sulla responsabilità per il reato di «omicidio volontario». L’uomo alla guida del ‘suv’, pur guidando in stato di ebbrezza, ha agito consapevolmente e ha «accettato in anticipo le probabili conseguenze» poi purtroppo concretizzatesi.
È proprio il riferimento al «dolo eventuale» a inchiodare lo straniero alle sue colpe. In sostanza, il conducente del ‘suv’ «si era reso conto di viaggiare contromano, per le ripetute e insistite segnalazioni acustiche e visive degli automobilisti, costringendo questi ultimi ad effettuare improvvise deviazioni per evitare l’urto frontale e mantenendo invece la propria direzione di marcia senza effettuare alcuna manovra di emergenza». Ciò permette di ritenere, senza dubbio, spiegano i magistrati, che egli, pur consapevole delle possibili «gravi conseguenze negative», ha perseverato «in una condotta di guida altamente pericolosa, anche a costo di cagionare la morte di una o più persone». Di conseguenza, si può affermare, concludono i magistrati, che il conducente del ‘suv’ ha «pienamente voluto l’incidente mortale».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Ubriaco e contromano in autostrada, uccide 4 persone: è omicidio volontario - La Stampa

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