martedì 31 maggio 2016

Incentivo giovani genitori: si applica anche agli studi professionali

Via libera al bonus giovani genitori anche per gli studi professionali. L’ok è stato dato dal Ministero del Lavoro in risposta al preciso quesito posto dai Consulenti del Lavoro: anche gli studi professionali possono beneficare dell’incentivo giovani genitori, pari a un massimo di 5.000 euro, riconosciuto in favore di chi assume con contratto a tempo indeterminato, anche part-time, soggetti di età non superiore a 35 anni, genitori di figli minori legittimi, naturali o adottivi, ovvero affidatari di minori, rispetto ai quali risulti in corso o cessato un rapporto di lavoro a tempo determinato, in somministrazione, intermittente, ripartito, di inserimento, accessorio ovvero una collaborazione a progetto, nonché coordinata e continuativa? La risposta è sì. Il Ministero difatti ritiene possibile utilizzare una nozione ampia di imprenditore/datore di lavoro, ovvero connessa a “qualunque soggetto che svolge attività economica e che sia attivo in un determinato mercato”, a prescindere dalla forma giuridica assunta, ricomprendendo quindi tra i possibili beneficiari dell’incentivo giovani genitori anche gli studi professionali (Interpello n. 16 del 20 maggio 2016).

Fonte: www.lavoropiu.info/Incentivo giovani genitori: si applica anche agli studi professionali - La Stampa

Tradisce il marito e chiede la separazione: suo onere dimostrare la mancanza di nesso tra infedeltà e crisi matrimoniale

L’infedeltà viola uno degli obblighi direttamente imposti dalla legge a carico dei coniugi, tale da giustificare la separazione. Spetterà dunque al coniuge che ha tradito provare che l’infedeltà non è stata causa della crisi coniugale, dimostrando che il suo comportamento si è inserito in una situazione matrimoniale già compromessa e connotata da un reciproco disinteresse.
Il caso. Davanti al Tribunale di Bassano del Grappa una donna citava in giudizio il proprio coniuge per ottenere la separazione personale, la conseguente assegnazione a sé della casa coniugale, l’affidamento condiviso del figlio minore ma con collocamento prevalente dello stesso presso di sé, ed un contributo per il mantenimento dei due figli, non inferiore ad un certo importo, oltre al versamento del 50% delle spese straordinarie. In risposta il marito, favorevole alla separazione, chiedeva però ai Giudici l’addebito alla moglie, l’assegnazione a sé della casa coniugale, l’affidamento condiviso del figlio minore e l’attribuzione di un contributo per il mantenimento proprio e dei due figli, a carico della signora, non inferiore ad una cifra significativa e più alta di quella domandata dalla moglie, oltre alla metà delle spese straordinarie. A fronte delle richieste dei due coniugi Il Tribunale dichiarava la separazione con addebito alla moglie, affido condiviso con collocamento prevalente presso di lei, assegnazione alla stessa della dimora coniugale e mantenimento dei figli a suo carico, con un contributo a carico del marito. Non soddisfatta, la moglie proponeva appello ma senza successo: i giudici di secondo grado respingevano il suo ricorso e maggioravano l’assegno di mantenimento a suo carico, sulla base della provata relazione extraconiugale della stessa e della oggettiva disparità di reddito tra i due coniugi. La decisione viene ora confermata anche dalla Cassazione (sentenza n. 10823 del 25 maggio 2016).
A carico di lei l’onere di dimostrare l’irrilevanza del nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale. I Giudici di Cassazione ribadiscono che l’infedeltà viola uno degli obblighi direttamente imposti dalla legge a carico dei coniugi (art. 143, secondo comma c.c.), tale da giustificare la separazione. Spetterà dunque all’autore della violazione dell’obbligo la prova della mancanza del nesso eziologico tra infedeltà e crisi coniugale, sotto il profilo che il suo comportamento si sia inserito in una situazione matrimoniale già compromessa e connotata da un reciproco disinteresse.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Tradisce il marito e chiede la separazione: suo onere dimostrare la mancanza di nesso tra infedeltà e crisi matrimoniale - La Stampa

Riparte con la macchina, nonostante una persona si sia attaccata al finestrino: condannata

Confermata la responsabilità della donna alla guida. È ripartita pur essendo consapevole che una donna fosse aggrappata alla vettura, con le braccia ancora dentro l’abitacolo. Comportamento assurdo, quello della conducente, e tale da provocare alla persona offesa ripercussioni fisiche. La Cassazione conferma la sua responsabilità per le lesioni riportate dal passeggero involontario (sentenza n. 22705/16).
In marcia. Nessun dubbio per il giudice di pace, nessun dubbio per i giudici del Tribunale: la conducente dell’automobile è responsabile di «lesioni personali colpose». Ella, «alla guida del proprio veicolo», ha «proseguito la marcia nonostante una donna fosse rimasta attaccata al finestrino della vettura».
Secondo il legale della automobilista, però, è stato trascurato un particolare importante, ossia l’assurdo comportamento tenuto dalla donna che «era rimasta intenzionalmente aggrappata alla vettura, nonostante essa fosse già in marcia».
Questa obiezione si rivela inutile. Secondo i Magistrati della Cassazione, difatti, la conducente avrebbe dovuto «non proseguire la propria marcia», proprio perché «una persona era rimasta con le braccia all’interno del finestrino della vettura», e quella situazione rendeva «evidente il rischio di causarle un pregiudizio fisico».
Irrilevante, quindi, il comportamento tenuto dalla donna, che aveva conservato «la propria posizione con le braccia all’interno dell’abitacolo»: tale atteggiamento, sottolineano i magistrati, «non avrebbe in alcun caso potuto costituire una forma di aggressione» tale da legittimare il «comportamento» della persona alla guida della vettura.
Tutto ciò conduce alla conferma della condanna nei confronti della automobilista. Ella è responsabile per le ripercussioni riportate dalla donna rimasta attaccata alla vettura, ossia «cervicalgia e stato ansioso».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Riparte con la macchina, nonostante una persona si sia attaccata al finestrino: condannata - La Stampa

Corte Ue: ammissibile il divieto di portare il velo al lavoro

L'Avvocata generale spiega che il divieto di indossare il velo deve basarsi “su una regola aziendale generale, secondo cui sono vietati segni politici, filosofici e religiosi visibili sul luogo di lavoro o puo' essere giustificato al fine di realizzare la legittima politica di neutralita' religiosa e ideologica perseguita dal datore di lavoro”.
La Corte Ue e' stata chiamata in causa dalla corte di cassazione belga che ha chiesto precisazioni sulla proibizione di discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali previsto dal diritto dell'Unione europea. Juliane Kokott sostiene che il divieto a una lavoratrice di fede musulmana di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro potrebbe costituire una discriminazione indiretta fondata sulla religione, tuttavia tale discriminazione “potrebbe essere giustificata al fine di attuare una politica legittima di neutralita' religiosa e ideologica perseguita dal datore di lavoro nella propria azienda”. Nel caso belga, il controllo di proporzionalita' e' una questione delicata perche' i giudici nazionali avrebbero un certo potere discrezionale da esercitare, pero', nel rigoroso rispetto delle prescrizioni del diritto dell'Unione. Spetterebbe, quindi, in definitiva, alla Corte di cassazione belga valutare il caso, tenendo conto di tutte le circostanze rilevanti: dimensioni e vistosita' del segno religioso, tipo e contesto dell'attivita' svolta, iidentita' nazionale del Belgio. L'Avvocata generale in ogni caso ritiene che “sia pacifico, in linea di principio, che il divieto sia idoneo a conseguire la finalita' legittima perseguita dalla G4S di neutralita' religiosa e ideologica”, divieto che “anche necessario alla realizzazione di tale politica imprenditoriale”. La religione, argomenta Kokott, la religione rappresenta per molte persone una parte importante della loro identita' e la liberta' di religione costituisce uno dei fondamenti di una societa' democratica. Tuttavia, mentre un lavoratore non puo' “mettere nell'armadietto” il proprio sesso, il colore della propria pelle, la propria origine etnica, il proprio orientamento sessuale, la propria eta' o il proprio handicap non appena entra nei locali del proprio datore di lavoro, “dallo stesso lavoratore puo' essere pretesa una certa riservatezza per quanto attiene all'esercizio della religione sul luogo di lavoro, sia che si tratti di pratiche religiose o di comportamenti motivati dalla religione sia che si tratti - come nel caso in questione - del suo abbigliamento”.

Fonte: www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoComunitario/2016-05-31/corte-ue-avvocato-generale-ammissibile-divieto-portare-velo-lavoro-113958.php

Studi di settore 2015: i chiarimenti delle Entrate

L’indicazione infedele dei dati non preclude sempre l’accesso ai benefici del regime premiale. Infatti, i contribuenti che non hanno compilato correttamente i modelli per la comunicazione dei dati rilevanti possono comunque accedere alle agevolazioni previste dal regime se gli errori non modificano la situazione di congruità, coerenza e normalità.
È uno dei chiarimenti contenuti nella circolare n. 24/E di oggi, che illustra le principali novità sugli aspetti normativi e su quelli relativi alle modalità di elaborazione e applicazione degli studi di settore per l’anno di imposta 2015. L’Agenzia apre anche sulle sanzioni previste in caso di violazioni relative al contenuto delle dichiarazioni, che si applicheranno solo nel caso in cui le informazioni errate siano rilevanti per l’applicazione degli studi.
Quando il regime premiale è ok anche se l’indicazione è infedele - La circolare dell’Agenzia delle Entrate di oggi introduce alcune importanti novità sugli studi di settore, tra cui quelle riguardanti i casi di indicazione infedele dei dati, che non sempre precludono l’accesso ai benefici del regime premiale: la permanenza nel regime risulta sussistere, infatti, se restano confermate l’assegnazione ai cluster e le condizioni di congruità, coerenza e normalità.
In questi casi, quindi, porte aperte al regime premiale, l’opzione che permette ai contribuenti di beneficiare dell’esclusione dagli accertamenti analitico-presuntivi, della riduzione di un anno dei termini di decadenza per l’attività di accertamento e della possibilità di determinazione sintetica del reddito complessivo, solo nel caso in cui lo stesso ecceda di almeno un terzo quello dichiarato (invece che di un quinto come ordinariamente previsto).
Inoltre, risultano sanzionabili (art. 8 Dlgs 471/1997) solo i casi in cui i dati e le informazioni, dichiarati in maniera infedele, risultano rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore, in termini di assegnazione ai cluster di riferimento, di stima dei ricavi o dei compensi, di calcolo degli indicatori di normalità o di coerenza.
Le altre novità sugli studi di settore 2016 - Il documento di prassi fornisce chiarimenti anche in merito ad altre novità, come l’approvazione di 70 evoluzioni di studi di settore e di 5 specifici indicatori territoriali per tenere conto del luogo in cui viene svolta l’attività economica; l’aggiornamento delle analisi territoriali a seguito dell’istituzione dei nuovi comuni; l’elaborazione di 4 studi su base regionale mediante la metodologia dei “modelli misti”; la revisione congiunturale speciale (“crisi”) e alcune novità che interessano la modulistica. Infine viene confermata la centralità della fase del contraddittorio e, in particolare, le possibilità dell’utilizzo retroattivo delle risultanze degli studi di settore.

Per leggere la circolare clicca qui: agenzia-entrate-circolare-24-2016 pdf.pdf

Fonte: www.altalex.com

Cartelle di pagamento da domani solo via Pec

Cartelle di pagamento recapitate solo via Pec per società, imprenditori e lavoratori autonomi. A partire da domani entra in vigore l’articolo 14 del dlgs n. 159/2015, che obbliga Equitalia a notificare le cartelle dirette ad aziende e partite Iva esclusivamente tramite posta elettronica certificata. Gli agenti della riscossione estrarranno le mail dei destinatari dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec).

Equitalia ha peraltro già avviato in via facoltativa il processo di notifica delle cartelle mediante Pec nei confronti di società e ditte individuali. Le quali, al pari dei professionisti, hanno l’obbligo di dotarsi di una Pec. Tuttavia, il sistema ha registrato finora risultati poco soddisfacenti, legati per lo più alla non corretta manutenzione della casella da parte delle imprese, come i mancati rinnovi degli abbonamenti o l’omessa segnalazione dei cambi di indirizzo. Motivo per cui su circa 2,5 milioni di cartelle teoricamente notificabili via Pec, lo scorso anno Equitalia ne ha potute trasmettere con successo solo 1 milione. Al punto che nei giorni scorsi una nota del ministero dello sviluppo economico ha inviato i consigli nazionali delle categorie professionali a sollecitare gli ordini affinché gli obblighi di legge di aggiornamento dell’Ini-Pec siano rispettati, consentendo in questo modo il regolare flusso delle notifiche.

Fonte: www.italiaoggi.it//Cartelle di pagamento da domani solo via Pec - News - Italiaoggi

sabato 28 maggio 2016

Diffamazione via Facebook: condividere post offensivi non è reato

Con la sentenza 3981/2016 la Cassazione torna sulla questione della diffamazione a mezzo facebook, fattispecie che negli ultimi anni ha assunto una notevole rilevanza pratica, come evidenziato dalla copiosa casistica giurisprudenziale.
Invero, la posizione della giurisprudenza di legittimità è sempre stata piuttosto rigorosa.
Ritenuta l’idoneità della rete internet e dei social network a integrare la comunicazione con più persone richiesta dall’art. 595 c.p. per la consumazione del reato, ritenuta altresì in tali fattispecie la sussistenza dell’aggravante di cui al terzo comma della norma citata (ossia la diffamazione a mezzo stampa), le pronunce della Suprema Corte hanno più volte riconosciuto la responsabilità penale per frasi avente contenuto diffamatorio, espresse mediante post pubblicati su bacheca o gruppi facebook.
La questione sottesa al caso giunto all’esame della Cassazione di cui qui si tratta riguarda specificamente i limiti della responsabilità penale, anche in rapporto al diritto costituzionalmente garantito di libera espressione del pensiero, a fronte della pubblicazione di un post la cui portata diffamatoria non emergeva direttamente, ma doveva ricavarsi dal complesso della discussione tra utenti all’interno di un gruppo facebook.
Trattasi, com’è evidente, di questione particolarmente delicata; di fatti l’imputato, assolto dal Giudice di prima cure, era stato condannato in appello in quanto egli, partecipando ad una conversazione dai contenuti offensivi nei confronti della parte offesa, avrebbe prestato "una volontaria adesione e consapevole condivisione" di tali espressioni determinando la lesione della reputazione della persona offesa, pur se il contenuto personalmente postato non potesse dirsi intrinsecamente offensivo.
La lesività della condotta deriverebbe, dunque, dal contesto complessivo della discussione, con rilevanti ricadute pratiche: parametrare l’offensività di una determinata espressione non già all’intrinseco valore della stessa, bensì al tenore complessivo della conversazione determina che il fatto stesso di prendere parte a discussioni dai toni particolarmente “coloriti” potrebbe comportare il rischio di porre in essere fattispecie penalmente rilevanti.
La Cassazione, tuttavia, dopo aver precisato che non essendo stato messo in dubbio nemmeno dal ricorrente che al "gruppo di discussione" partecipassero almeno due altri soggetti rimane del tutto irrilevante l'accertamento sulla natura "aperta" o "chiusa" dello stesso, sconfessa la valutazione della Corte territoriale, nella misura in cui la stessa ha attribuito tipicità ad una condotta ritenuta intrinsecamente inoffensiva solo perchè la stessa dovrebbe considerarsi indirettamente e implicitamente adesiva a quella diffamatoria commessa in precedenza da altri […] Il che è per l'appunto errato nella misura in cui, per un verso, attribuisce all'art. 595 c.p., contenuti ultronei rispetto a quelli effettivamente ricavabili dalla lettera della disposizione incriminatrice e, per l'altro, finisce per negare qualsiasi effettività alla libertà di manifestazione del pensiero garantita dall'art. 21 Cost..
Ne deriva che non possa avere rilevanza penale la condotta di chi abbia inteso sì condividere una critica nei confronti della persona offesa, ma nel farlo sia rimasto entro i limiti ben definiti dell’esercizio del proprio diritto di manifestazione del pensiero, senza eccedervi in alcun modo ed esercitando invece tale suo diritto nei limiti della continenza richiesta dall’ordinamento, quindi senza ricorrere alle espressioni offensive utilizzate da altri, nè dimostrando di volerle amplificare attraverso il proprio comportamento.
Dunque, se la Suprema Corte riporta il reato di diffamazione tramite facebook entro confini determinati e logicamente prevedibili, si impone una riflessione sulle nuove modalità di comunicazione, di fronte alle quali il diritto si trova spesso costretto entro schemi difficilmente adattabili a un contesto fluido e in continua evoluzione.
La diffusione dei social network ha imposto la necessità di approntare nuovi strumenti di tutela per gli utenti, che il più delle volte sono poco consapevoli della portata del mezzo che utilizzano e rischiano di trovarsi coinvolti, loro malgrado, in situazioni al limite della legalità. Tali strumenti sono spesso di matrice giurisprudenziale e si sostanziano in un adattamento alla nuova realtà virtuale di figure pensate per i tradizionali mezzi di comunicazione; ne deriva un’insoddisfacente tutela, che a volte finisce per travalicare i limiti della ragionevolezza, come nel caso risolto dalla Cassazione con la sentenza in esame.
Al di là del buon senso che dovrebbe governare qualsiasi manifestazione del pensiero, i cui contenuti dovrebbero essere sempre rispettosi dell’altro, occorre che anche gli operatori del diritto, nella tutela degli interessi contrapposti in rilievo (tutela della reputazione e della persona da un alto, diritto di manifestazione del pensiero dal’altro) compiano scelte equilibrate e orientate alla realizzazione di una giustizia sostanziale attenta ai cambiamenti tecnologici che comportano l’insorgere di nuovi rischi e nuove necessità, delle quali non è possibile non tenere conto.

Fonte: www.altalex.com//Diffamazione via Facebook: condividere post offensivi non è reato | Altalex

Bilanci, le valutazioni ingannevoli restano reato

I fatti, per trovare allocazione in bilancio, devono essere “raccontati” in unità monetarie e dunque valutati. Ne deriva che rilevanti  falsità nelle valutazioni, idonee ad ingannare i destinatari del bilancio e a determinare scelte potenzialmente pregiudizievoli per gli stessi, configurano situazioni rilevanti ai fini dei novellati artt. 2621, 2621-bis e 2622 del codice civile. Spetta al giudice valutare la potenzialità decettiva della irregolare informazione contenuta nel bilancio. Qualora si accettasse la tesi della non punibilità del falso valutativo si sarebbe in pratica al cospetto di una interpretatio abrogans del delitto di false comunicazioni sociali  e sostanzialmente l’intero corpus normativo: <<Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio> finirebbe per presentare una significativa falla nella sua trama costitutiva. È quanto si legge nelle attesissime motivazioni  espresse dalle Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 22474 (Presidente Canzio, relatore Fumo), di ieri, 27 maggio, in merito alla rilevanza del falso valutativo nei reati di false comunicazioni sociali così come novellati dalla legge n. 69/2015. La massima provvisoria della sentenza era peraltro stata anticipata dalla Suprema Corte con l’Informazione provvisoria del 31 marzo 2016.

Fonte: www.italiaoggi.it//Bilanci, le valutazioni ingannevoli restano reato - News - Italiaoggi

venerdì 27 maggio 2016

Immigrati, stop alla «tassa» sui permessi

Colpo di spugna sul contributo per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno dei cittadini extracomunitari. Il Tar Lazio con la sentenza 6095/2016, ha dichiarato la «radicale illegittimità dell'istituzione» accogliendo il ricorso di Cgil e Inca e rilevando la totale incompatibilità della norma con le direttive europee in materia di immigrazione.
A cadere sotto la decisione dei giudici amministrativi (presidente Pasanisi, relatore Arzillo) è il decreto del Mef del 6 ottobre 2011, nella parte in cui prevede le tre fasce di pagamento di 80, 100 e 200 euro, vincolate tra l'altro alla durata del permesso richiesto (fino a un anno, fino a due anni, prezzo più alto per il permesso di soggiorno Ce).
Respinte le eccezioni sulla legittimazione attiva e l'interesse a ricorrere sia del sindacato sia del patronato - che «perseguono finalità statutarie in relazione alla categoria degli stranieri extracomunitari», scrive il Tar - i giudici hanno svolto d'ufficio una ricognizione sulle norme di riferimento europee e sulle decisioni in materia della Corte di giustizia, ricognizione da cui è scaturito l'accoglimento “rescindente” del ricorso.

Fonte: www.ilsole24ore.com//Immigrati, stop alla «tassa» sui permessi

Beni aziendali nuovi: le istruzioni delle Entrate sul super ammortamento

Il Fisco aiuta le imprese e i liberi professionisti che acquistano beni strumentali nuovi. Con la circolare n. 23/E, pubblicata oggi, l’Agenzia fornisce tutte le indicazioni per usufruire del cosiddetto “super ammortamento”, l’agevolazione, introdotta dalla legge di Stabilità 2016, che prevede l’incremento del 40% del costo fiscale di beni materiali acquistati nel periodo dal 15 ottobre 2015 al 31 dicembre 2016 e comporta quindi un più alto “sconto” fiscale.
Il maggior costo, che viene riconosciuto solo per le imposte sui redditi e non ai fini Irap, può essere infatti portato a deduzione del reddito attraverso le quote di ammortamento o i canoni di locazione finanziaria indicati in dichiarazione.
I beni “super ammortizzabili” - Rientrano nell’agevolazione tutti gli acquisti di beni materiali nuovi che siano strumentali all’attività d’impresa o professionale. La circolare di oggi illustra, anche tramite esempi, le modalità di calcolo del maggiore ammortamento deducibile e chiarisce alcuni casi particolari, ad esempio come trattare i beni acquisiti con contratto di leasing e quelli realizzati in economia. La maggiorazione del 40% riguarda anche i veicoli a motore: sia i mezzi esclusivamente strumentali o adibiti ad uso pubblico, sia quelli dati in uso promiscuo ai dipendenti per la maggior parte del periodo d’imposta, sia, infine, quelli utilizzati per scopi diversi (con deducibilità limitata e limite massimo alla rilevanza del costo di acquisizione).
Chi può accedere al beneficio - Possono usufruire del super ammortamento tutti i titolari di reddito d’impresa, indipendentemente dalla forma giuridica, dalla dimensione aziendale e dal settore economico in cui operano, e i lavoratori autonomi che svolgano arti o professioni anche in forma associata. Agevolazione aperta anche ai contribuenti minimi e a coloro che rientrano nel “regime di vantaggio” per l’imprenditoria giovanile e i lavoratori in mobilità, le stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti e gli enti non commerciali per quanto riguarda l’attività commerciale eventualmente esercitata. Non possono godere dell’agevolazione, invece, le persone fisiche che svolgono attività d’impresa, arti o professioni usufruendo del regime forfetario, visto che nel loro caso il reddito è calcolato applicando un coefficiente di redditività al volume dei ricavi o compensi e non come differenza tra componenti positivi e negativi. Allo stesso modo, sono escluse le imprese marittime che calcolano il reddito con il regime della “tonnage tax”.

Per leggere la Circolare clicca qui:agenzia-entrate-circolare-23-2016 pdf.pdf

Fonte: www.altalex.com

Guida in stato di ebbrezza: il risultato dell'alcoltest può essere superato dagli elementi sintomatici

L’esito dell’alcoltest può essere superato dal giudice di merito, al fine di ricondurre il fatto in una più grave ipotesi di reato, soltanto quando vi sia un complessivo quadro sintomatologico tale da sorreggere, con ragionevole certezza, l’affermazione secondo la quale l’imputato, indipendentemente dall’esito della rilevazione, al momento del fatto presentava nell’organismo una presenza di alcol superiore a quella rilevata meccanicamente, senza che sia possibile per il giudice porre a fondamento della sua decisione regole scientifiche da lui stesso individuate. Inoltre, qualora l’etilometro pervenga alla misurazione dell’etilemia nonostante il volume insufficiente d’aria in esso inspirata, il tasso alcolemico così riscontrato può essere assunto a fondamento della decisione. Questi i principi espressi nella sentenza n.19176 del 9 maggio 2016.
Il caso di specie
a) Il ricorrente è stato dichiarato colpevole del reato di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186, 2° co. lett. c) d.lgs. 30.4.1992, n. 285 (codice della strada) per aver circolato sulla pubblica via alla guida di un’autovettura in stato di ebbrezza. Egli lamenta, in particolare, che il giudice di merito abbia ritenuto l’ipotesi più grave fra quelle previste al 2° co. dell’art. 186 cod. strada, nonostante il tasso alcolemico rilevato con l’etilometro fosse riferibile all’ipotesi meno grave di cui alla lett. b) del 2° co. dell’art. 186 c.strada. La decisione del giudice di merito era stata presa sulla considerazione che la rilevazione, a distanza di due ore dal fatto, di un tasso prossimo alla soglia massima prevista per la fattispecie di cui alla lett. b) non poteva che portare a ritenere che, al momento del sinistro, il tasso alcolico fosse tale da essere riconducibile alla più grave ipotesi di cui alla lett. c) del codice della strada. Ciò sulla scorta del principio, definito come notorio, secondo cui la concentrazione di alcol assume un andamento decrescente dopo sessanta minuti dalla sua assunzione.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, sul rilievo che il giudice può superare l’esito della rilevazione meccanica in forza di un quadro sintomatologico tale da sorreggere, con ragionevole certezza, l’affermazione secondo la quale l’imputato presentava un tasso alcolemico diverso e superiore rispetto a quello emerso dall’alcoltest o anche in assenza di detta misurazione, ma non può egli stesso porre una regola scientifica con la quale risolvere il dubbio sulla qualificazione giuridica del fatto. Il giudice è, infatti, fruitore di regole scientifiche, ma non creatore delle medesime, anche nel caso in cui egli indichi lo studioso alla quale attribuisce la regola individuata.
b) La seconda sentenza in commento si è parimenti pronunciata in un caso di condanna per il reato di guida in stato di ebbrezza, di cui all’art. 186, 2° co. lett. c) c. strada. Il ricorrente lamenta che la condanna sia stata pronunciata in forza dell’esito dell’alcoltest, nonostante l’etilometro avesse emesso uno scontrino recante la dicitura «volume d’aria insufficiente», nonché la mancata sostituzione della pena principale con il lavoro di pubblica utilità.
La Corte di Cassazione ha accolto il secondo motivo di ricorso, avendo ritenuto validamente proposta l’istanza di sostituzione della pena detentiva in lavoro di pubblica utilità ancorché formulata per la prima volta in sede di discussione orale avanti alla Corte di Appello, in quanto l’impugnazione della sentenza sul punto relativo al trattamento sanzionatorio comporta la devoluzione al giudice d’appello del potere di intervenire sulla pena e, quindi, anche di concedere le sanzioni sostitutive.
Rilevazione meccanica del tasso alcolico e qualificazione giuridica del fatto
La giurisprudenza di legittimità è costante nell’attribuire rilevanza ai fini dell’inquadramento del fatto in una delle ipotesi previste al 2° co. dell’art. 186 c. strada agli indici sintomatici dello stato di ebbrezza constatati al momento dell’accertamento. Si afferma, infatti che l'esame strumentale mediante alcoltest non costituisce una prova legale e che, pertanto, l’accertamento dello stato di ebbrezza può essere effettuato, per tutte le fattispecie di cui all’art. 186 cod. strada, sulla base di elementi sintomatici (C., Sez. IV, 26.5.2015, n. 26562, in CED Cass., rv. 263876; Cass. pen. Sez. IV, 26-02-2014, n. 22241 (rv. 259222; C., Sez. IV, 29.1.2014, n. 22239, in CED Cass., rv. 259214; C., Sez. IV, 4.6.2013, n. 30231, in CED Cass., rv. 255870; C., Sez. IV, 7.6.2012, n. 27940, in CED Cass., rv. 253598).
Quando, tuttavia, in mancanza dell’alcoltest, non sia possibile individuare con ragionevole certezza in quale delle tre ipotesi contemplate dalla norma rientri la condotta dell’agente, il fatto è da qualificare ai sensi dell’art. 186, 2° co. lett. a), escludendo la rilevanza penale del fatto (C., Sez. IV, 20.2.2015, n. 15705, in CED Cass., rv. 263145; C., Sez. IV, 29.11.2012, n. 48251, in CED Cass., rv. 254078; C., Sez. IV, 16.12.2011, n. 6889, in CED Cass., rv. 252728).
In presenza di un accertamento strumentale del tasso alcolemico conforme alla previsione normativa, grava, invece, sull'imputato l'onere di dare dimostrazione di circostanze in grado di privare quell'accertamento di valenza dimostrativa della sussistenza del reato, fermo restando che non integra circostanza utile a tal fine il solo intervallo temporale intercorrente tra l'ultimo atto di guida e l'espletamento dell'accertamento (C., Sez. IV, 9.9.2015, n. 40722, in CED Cass., rv. 264716; C., Sez. IV, 4.3.2015, n. 24206, in CED Cass., rv. 263725). Altra sentenza ha affermato, in tali casi, la necessità di verificare, ai fini della sussunzione del fatto in una delle due ipotesi di cui all'art. 186, 2° co., lett. b) e c) c. strada, la presenza di elementi indiziari indicativi della gravità dello stato di ebbrezza (C., Sez. IV, 11.11.2014, n. 47298, in CED Cass., rv. 261573).
Con riferimento ai casi in cui lo spirometro proceda all’analisi nonostante l’insufflazione di un volume d’aria insufficiente, segnalato nello scontrino stampato all’esito della rilevazione, come avvenuto nel caso affrontato dalla seconda sentenza in commento, la giurisprudenza ritiene, comunque, utilizzabile ai fini della decisione il risultato fornito dall’alcoltest (C., Sez. IV, 29.1.2014, n. 22239, in CED Cass., rv. 259214; C., Sez. IV, 24.10.2013, n. 1878, in CED Cass., rv. 258179).

Per leggere le sentenze clicca qui:19176 pdf.pdf

Fonte: www.quotidianogiuridico.it

giovedì 26 maggio 2016

La mail della procura annuncia l’apertura di un’indagine, ma è una truffa online

Una mail dalla procura della Repubblica che annuncia l’apertura di un procedimento penale per evasione fiscale e riciclaggio di denaro. L’indagato rischia l’arresto entro un giorno e il blocco di tutti i conti correnti e delle proprietà immobiliari. Nel testo della mail c’è un link su cui cliccare per avere maggiori informazioni. Non si tratta di un vero atto giudiziario, ma di un tentativo di installare virus nel pc del destinatario, di rubare le password degli account e il numero della carta di credito.
È un nuovo tentativo di phishing che circola in questi giorni nelle caselle di posta elettroniche. Lo ha denunciato l’associazione dei consumatori ADUC in un comunicato stampa in cui ha pubblicato il testo della mail che riporta l’intestazione di una non precisata Procura della Repubblica e il nome e cognome del destinatario: «La presente per comunicarle che il suo patrimonio immobiliare, così come il suo conto corrente bancario, verranno posti in arresto con l’accusa di mancato pagamento delle imposte e concorso in riciclaggio di denaro, ad effetto della causa, l’arresto entra in vigore dal 27/05/2016».
La mail continua con tanto di numero della pratica e di un link in cui trovare le informazioni su come ricorrere in appello, il nominativo del giudice inquirente per la causa, la data e il luogo in cui si svolgerà il processo. E se il destinatario della mail non si è ancora reso conto della gravità della questione, provano a convincerlo così: «In caso di sentenza di condanna, le verrà confiscata ogni proprietà e rischia una condanna fino a 15 anni di reclusione».
Insomma, come consigliano nel comunicato di Aduc, «bisogna sempre diffidare di mail poco chiare, che invitano a inserire dati personali e relativi ai propri mezzi di pagamento, o contenenti richieste di cambio password».

Fonte: www.lastampa.it//La mail della procura che annuncia l’apertura di un’indagine, ma è una truffa online - La Stampa

Messaggi d’amore e foto su Facebook, ma per l’amante: il social network inchioda il marito

«È stato l’elemento centrale, quello decisivo», riconosce Gianluca Panetti, 43 anni, avvocato di Roma. E non avrebbe potuto essere altrimenti… un uomo che declama pubblicamente, su Facebook, il proprio amore per una donna – che non è la moglie! – è la prova più comoda da utilizzare in un caso di separazione.
Difatti, nella vicenda presa in esame dai giudici del Tribunale di Roma, proprio le esternazioni del marito sul social network – con foto annesse – sono state valutate come inequivocabili: logico, per i magistrati, attribuire all’uomo ogni responsabilità per la rottura della coppia.
Evidente il fatto che il rapporto è «entrato in crisi» a causa del «tradimento» da parte del marito, «reso pubblico sul social network». E a colpire negativamente i giudici sono state anche «le modalità con cui è stata coltivata la relazione extraconiugale», modalità che «hanno leso la dignità e l’onore» della moglie.
Confessione online. Tanti, e tutti rilevanti, gli elementi a disposizione di Panetti, legale della donna. Elementi che, come detto, hanno convinto i giudici: «È stata accolta la nostra versione, centrata sulla confessione del tradimento da parte dell’uomo».
In questa ottica, però, è stato importante, riconosce l’avvocato, il peso dato ai messaggi e alle foto disponibili su Facebook, ritenuti espressivi di «un atteggiamento denigratorio e offensivo nei confronti della moglie». E su questo fronte un ruolo di rilievo lo hanno avuto alcune amiche della donna, che le hanno segnalato le ‘stranezze’ del marito sul web.
Difficile, per il marito, riuscire ad uscire indenne dalla vicenda. Anche se, va aggiunto, quello in Tribunale è stato solo il primo round… Tra qualche mese, difatti, ci sarà un nuovo confronto giudiziario in Appello.
Con quali prospettive? La moglie punta a vedere confermato l’addebito della separazione al marito. Quest’ultimo, invece, tenterà di dimostrare che, in realtà, messaggi e foto su Facebook erano solo la testimonianza di una amicizia, di un rapporto profondo ma privo di connotazioni fisiche e sessuali.
Nessun tradimento, quindi, sosterrà l’uomo in Appello. Ma dovrà fare i conti con le prove fornite dal mondo virtuale di Facebook…
Virtuale e reale. E proprio questo elemento, ossia la vita che ognuno di noi ha sui social network, sembra destinato ad avere sempre maggiori ripercussioni nel mondo reale, nei rapporti tra le persone, e finanche nelle aule dei Tribunali.
Esemplare, come detto, il peso avuto da foto e messaggi on line su una coppia solida – almeno in apparenza –, con vent’anni di matrimonio alle spalle e impegnata come tante coppie a fronteggiare i problemi della vita quotidiana e a conservare il proprio equilibrio.
“Per me è stata la prima volta”. Così l’avvocato Panetti spiega di aver dovuto confrontarsi con una situazione professionale mai affrontata: il web come ufficializzazione della crisi nella coppia.
L’impressione, però, è che casi simili siano destinati a proporsi sempre più numerosi negli anni a venire. E in questa ottica colpisce “l’uso eccessivo, smodato, disinvolto dei social network, che a volte si trasforma quasi in un delirio di onnipotenza”, sostiene Panetti.
Ma tutto ciò che è postato on line, bisogna ricordarlo, è destinato ad avere ripercussioni, prima o poi, nella vita reale.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Messaggi d’amore e foto su Facebook, ma per l’amante: il social network inchioda il marito - La Stampa

mercoledì 25 maggio 2016

In Tribunale 8 anni per una lite sui pomodori

Alla base il presunto furto nell’orto a fine agosto del 2008 che finì con una rissa e sei persone sotto processo: ma la sentenza è arrivata soltanto ora.

È ben vero che, a volte, la realtà supera la fantasia. Per 4 pomodori giganti (pesavano un chilo e mezzo l’uno) - e Giuseppe Iemolo, che li aveva coltivati con amore nel proprio orto di vicolo Pulciano a Castellazzo Bormida, ne era molto orgoglioso - in 6 sono finiti sotto processo per lesioni o minacce o furto o ingiurie ma ci sono voluti quasi 8 anni prima di arrivare a sentenza e la mannaia della prescrizione ha fatto tabula rasa di tutto a eccezione delle ingiurie, peraltro a loro volta cancellate non essendo più l’accusa prevista come reato.
L’episodio del 31 agosto 2008
Tutto questo perché l’episodio risaliva al 31 agosto 2008 e la sentenza è stata pronunciata solo ieri. Una volta di più la lentezza della giustizia ha fatto la sua parte ovviamente favorita dai diretti interessati che, evidentemente, hanno cercato in tutti i modi di rallentarla con una serie di rinvii. E tutto per 4, dicasi quattro, pomodori. Gli imputati erano Maria Petrone, imputata del furto che ha sempre negato, e i suoi familiari o parenti Marco Bavuso, Teresa e Nadia Battaglia, Silvia Petrone, Mino Gioffrè. Quando Iemolo si accorse che quei pomodori giganti, luce dei suoi occhi, erano scomparsi, si precipitò a casa di Maria Petrone. Non l’avesse mai fatto: in 5 si scagliarono contro di lui coprendolo di contumelie e Gioffrè lo colpì con un bastone al capo. Di qui la denuncia. E otto anni in tribunale.

Fonte: www.lastampa.it/In tribunale 8 anni per una lite sui pomodori - La Stampa

Salvo il prestanome che dimostra di essere all’oscuro dei disegni criminosi

Se il prestanome accetta il ruolo di amministratore, non necessariamente deve rispondere delle accuse (nel caso di specie, bancarotta documentale e distrattiva) relative ai disegni criminosi commessi dall’amministratore di fatto, qualora dimostri che non ne era a conoscenza. Lo dicono i Giudici della Corte di Cassazione con la sentenza del 23 maggio  2016, n. 21364.
Nel caso in esame, un contribuente osservava che la Corte d’appello non aveva esaminato le doglianze contenute nel ricorso, gli elementi di prova a discarico e le deduzioni relative alla propria innocenza, visto che le condotte illecite contestate erano state poste in essere dagli amministratori di fatto e non da lui, semplice prestanome.
La sentenza d’Appello impugnata – secondo quanto affermato dai Giudici di Cassazione – esauriva il suo contenuto nella riproduzione della decisione di primo grado, senza esaminare le doglianze del contribuente indagato, riconosciuto per essere “pacificamente un muratore alle dipendenze dell’amministratore di fatto e, quindi, mero prestanome di quest’ultimo”. Dalla sentenza di appello si può evincere che il tema cruciale del vero prestanome sia stato del tutto eluso; e, hanno aggiunto i Giudici, l’accettazione del ruolo di amministratore apparente, benché consapevole, non implica necessariamente la consapevolezza dei disegni criminosi messi in atto dall’amministratore di fatto, tanto nel tema della bancarotta distrattiva quanto di quella documentale. Pertanto, la Cassazione ha accolto il ricorso del contribuente.

Fonte: www.fiscopiu.it//Salvo il prestanome che dimostra di essere all’oscuro dei disegni criminosi - La Stampa

Ascensore esterno non può ledere la veduta del singolo condomino

La vicenda origina nel lontano 1994, allorché una condomina di un caseggiato ubicato a Cortina d’Ampezzo evocava in giudizio l’amministratore di condominio ed i singoli condomini a causa dei lavori di realizzazione di un impianto di ascensore esterno. Il volume della gabbia dell’ascensore pregiudicava la visuale delle finestre di alcuni appartamenti di cui l’attrice era comproprietaria. Ella agiva, pertanto, per ottenere la sospensione dei lavori, chiedeva la demolizione della gabbia ed il ristoro di tutti i danni patiti. In primo grado, le domande attoree venivano accolte ed il giudice condannava i convenuti alla demolizione del manufatto oltre al risarcimento del danno ed alle spese di lite. La sentenza veniva confermata anche in appello.
In particolare, i giudici di merito rilevavano come la delibera assembleare con la quale si approvava la costruzione di un impianto esterno fosse affetta da nullità, giacché la gabbia ledeva il diritto di proprietà esclusiva della condomina, limitandone la visuale e ponendosi ad una distanza non regolamentare dalle finestre.
Sono, infatti, da considerarsi nulle le delibere, ancorché adottate con le maggioranze richieste dalla legge, allorquando risultino lesive dei diritti di altri condomini sulle porzioni di proprietà esclusiva. Inoltre, la nullità della delibera, dissimilmente dall’annullabilità, è rilevabile d’ufficio in ogni tempo. A tal proposito, la Corte ripercorre la consolidata giurisprudenza in virtù della quale «i poteri dell’assemblea non possono invadere la sfera di proprietà dei singoli condomini, sia in ordine alle cose comuni che a quelle esclusive, salvo che una siffatta invasione sia stata da loro specificamente accettata o nei singoli atti di acquisto o mediante approvazione del regolamento di condominio che la preveda».
L’amministratore ed i condomini sostenevano che l’opera costituisse una modificazione ai sensi dell’art. 1102 c.c. e non già un’innovazione ex art. 1120 c.c. Secondo tale ricostruzione, non occorreva nessuna delibera autorizzativa dei lavori. Inoltre, a riprova della citata tesi, si sottolineava come le spese non fossero state poste a carico dell’attrice. La suddetta argomentazione veniva rigettata dai giudici di merito, in quanto la base della gabbia occupava una porzione del suolo comune, alterava il decoro architettonico dell’edificio – trattandosi di una costruzione esterna in appoggio – ed, infine, conculcava il diritto di visuale della condomina. In buona sostanza, si trattava di un’innovazione vera e propria.
Del resto, l’art. 1102 c.c. ammette l’uso della cosa comune, da parte di ciascun comunista, purché non ne alteri la destinazione; solo a queste condizioni, ogni comproprietario, a spese proprie, potrebbe provvedere all’installazione di un impianto di ascensore. Nondimeno si ricorda che, secondo la più recente giurisprudenza ed in virtù della riforma sul condominio, l’installazione di un ascensore ex novo rappresenta un’innovazione ai sensi dell’art. 1120 c. 2 c.c. L’art. 1124, inoltre, come recentemente modificato, prevede anche per gli ascensori il medesimo criterio di ripartizione delle spese adottato per le scale.
Con l’edificazione della gabbia, secondo i giudici, si è travalicato il limite entro il quale ciascun compartecipe alla comunione può servirsi della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c. Nell’uso della res communis non è possibile alterarne la destinazione «sicché solo le modificazioni di questa, in quanto consentono il pari uso secondo il diritto di ciascuno, rientrano nella previsione legale, mentre è vietata ogni diversa attività innovatrice».
Nel caso di specie, la costruzione del manufatto risultava lesiva del diritto di veduta; tale diritto si sostanzia nella facoltà del proprietario all’inspectio ed alla prospectio, vale a dire alla possibilità di guardare e sporgersi sul fondo altrui, non solo frontalmente ma anche obliquamente e lateralmente. Il legislatore, onde evitare l’ “occlusione” della veduta, dispone il divieto di costruire ad una distanza minore di tre metri. La gabbia dell’ascensore, pertanto, non solo conculcava l’inspectio e la prospectio della condomina, ma avveniva in spregio alla citata norma in tema di distanze legali.
In ragione di tutte le suesposte motivazioni la Corte, nel confermare la nullità della delibera assembleare, ha rigettato il ricorso proposto dai ricorrenti e li ha condannati al pagamento delle spese di giudizio.

Fonte: www.altalex.com//Ascensore esterno non può ledere la veduta del singolo condomino | Altalex

Giudici di pace in sciopero dal 6 all' 11 giugno, siamo “onorari precari”

L'Unione Nazione Giudici di Pace e l'Associazione Nazionale Giudici di Pace hanno proclamato lo sciopero della categoria dal 6 all' 11 giugno prossimo. In una nota le organizzazioni dei giudici di pace, nel reiterare le loro richieste di stabilizzazione e di riconoscimento del loro ruolo istituzionale - continuità del servizio sino all'età pensionabile, piene tutele previdenziali ed assistenziali, congruo compenso, indipendenza del giudice ed autonomia degli uffici -, denunciano il “comportamento reiteratamente scorretto del Governo, il quale, anziché disporre la proroga nelle funzioni con decreto legge, sta procedendo mediante un decreto legislativo farraginoso, peraltro parzialmente attuativo di una legge parimenti affrettata, incostituzionale, contraria alle direttive comunitarie sul lavoro a tempo determinato ed a tempo parziale applicabili anche ai magistrati onorari sulla base di una vincolante sentenza della Corte di Giustizia Europea del 1° marzo 2012 (cd. caso O'Brien)”.

Nel frattempo, aggiunge la nota, “gli uffici del Giudice di Pace sono nel caos, a seguito del conferimento del potere di coordinamento ai Presidenti di Tribunale, i quali non possono certo garantire la costante presenza in ufficio. E il 31 maggio scade il termine previsto dal decreto legge 192 del 2014, e già prorogato, per l'approvazione dell'elenco degli uffici del Giudice di Pace attualmente chiusi ed ammessi alla riapertura a spese dei Comuni, senza che il Ministero abbia ancora assunto le dovute decisioni”. “Una politica sconsiderata di amministrazione della Giustizia”, conclude la nota, “che rischia, anche in vista dell'imminente raddoppio delle competenze, di nuocere gravemente al funzionamento degli uffici del Giudice di pace, gli unici che garantiscano la ragionevole durata del processo, con durata media delle cause civili e penali pari a 10 mesi”.

Fonte:www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoCivile/2016-05-25/giustizia-giudice-pace-sciopero-6-11-giugno-siamo-onorari-precari-145827.php

Celle sovraffollate e suicidi. Carceri lombarde al collasso

Partiva da qui, dalla Lombardia e precisamente dal carcere di Busto Arsizio, il ricorso che ha dato origine alla cosiddetta sentenza Torreggiani. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo tre anni e mezzo fa definiva il sovraffollamento carcerario «un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone». Prima di quella sentenza nel carcere di Busto Arsizio si viveva in tre all’interno di celle di 9 metri quadrati senza doccia o acqua calda. I detenuti, dietro le sbarre per venti ore su ventiquattro, erano arrivati a toccare quota quattrocento in una struttura che poteva ospitarne al massimo 238. Dopo la tirata d’orecchi ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) provano a raddrizzare la situazione. I problemi però non si misurano e soprattutto non si risolvono in metri quadrati. Anche perché, se da un lato negli ultimi cinque anni il numero dei detenuti in Italia è diminuito passando dai 68 mila del 2010 ai 52.164 del dicembre 2015, la cifra è tornata a salire nella prima metà del 2016. Gli ultimi dati del ministero della Giustizia segnano più di 53 mila presenze, 8 mila di queste in Lombardia, dove il sistema carcerario è pronto ad accoglierne poco più di seimila.

Il record in questo senso spetta alla casa circondariale Canton Mombello di Brescia che stando agli ultimi dati ospita più di 340 persone a fronte di una capienza regolamentare di 189 posti: un tasso di affollamento del 180% che rende la casa circondariale bresciana la struttura più affollata in Lombardia e la seconda in Italia dietro soltanto a Latina che tocca un tasso di affollamento del 189%. Non sempre le pene alternative, su cui sonnecchia in Senato un provvedimento per il loro allargamento, sono in grado di offrire un valido cuscinetto di atterraggio. In particolare per i detenuti stranieri che rappresentano il 46% della popolazione carceraria lombarda. I percorsi alternativi alla detenzione sono perlopiù pensati per i detenuti residenti e gli stranieri faticano ad avere un valido appoggio all’esterno oltre che un lavoro che possa garantire loro la sussistenza. Tralasciando per un attimo i numeri si nota come negli ultimi anni «il carcere stia diventando più che un luogo di punizione e rieducazione un collettore di marginalità e malessere oppure parte di un percorso socio-sanitario», spiega Valeria Verdolini dell’Associazione Antigone, che si occupa della condizione dei detenuti. Da qui l’importanza della presenza di educatori e psicologi in carcere, figure che però continuano a essere in numero inferiore rispetto all’organico richiesto. «Da oltre dieci anni — spiega Barbara Campagna, educatrice a San Vittore e coordinatrice regionale Cgil — non si bandiscono concorsi per assistenti sociali ed educatori. Gli psicologi operano solo sotto forma di consulenza oppure per conto dell’azienda ospedaliera per gli interventi sanitari, senza contare gli operatori costretti a coprire più sedi». Un paradosso pensando ai tavoli tecnici organizzati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che hanno messo al centro dell’attività degli istituti proprio la fase di rieducazione e reinserimento. Addirittura una parte di questa delega finisce di fatto alla Polizia Penitenziaria che a sua volta lamenta la mancanza di oltre mille unità. Carenza che determina turni logoranti e condizioni di stress che influiscono sui rapporti col detenuto. «La differenza tra me e le persone che sono detenute — spiega quasi ironicamente un agente — è che alla sera io torno a casa, loro no. Per il resto siamo tutti qui».

Poi ci sono quelli che non ci sono più. I morti di carcere. Negli istituti lombardi, nel corso degli ultimi cinque anni, sono stati 33, sei nell’anno appena trascorso. L’ultimo è Paolo Leone, che si è impiccato nel carcere di Opera il 25 novembre a ventiquattro ore dall’arresto avvenuto la sera precedente dopo il tentato omicidio dell’ex complice. A lui, tra gli altri, si aggiunge anche la donna ventunenne che si è suicidata impiccandosi con un lenzuolo all’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere nel giugno del 2014. L’ex Opg, oggi Rems (Residenze regionali per l’esecuzione delle misure di sicurezza), ospita 143 persone a fronte di una capienza di 104 posti e vi sono indirizzati pazienti autori di reato, giudicati incapaci di intendere e di volere. Nel panorama lombardo una eccezione è rappresentata dal carcere di Bollate, che negli ultimi tempi si è guadagnato la ribalta delle cronache grazie al progetto del ristorante InGalera, dove i detenuti cucinano e servono ai tavoli. Qui su 1.200 detenuti 200 sono ammessi al lavoro esterno. «Fin dall’inizio l’istituto — spiega Massimo Parisi, direttore del carcere di Bollate — è stato concepito per porre al centro il processo di recupero del detenuto. Devo ammettere che qui la collaborazione tra gli operatori, dalla polizia penitenziaria agli psicologi, passando per gli educatori — sottolinea Parisi — è più marcata che altrove. Fattore che permette al detenuto di avere un percorso positivo all’interno della struttura».

Fonte: www.corriere.it//CARCERI: Celle sovraffollate e suicidi. Carceri lombarde al collasso (corriere.it) -

lunedì 23 maggio 2016

Separazioni e divorzi: la sede preferita è ancora il tribunale

Per dirsi addio, gli italiani continuano a preferire il tribunale. Infatti le coppie che scelgono di separarsi o divorziare senza giudice, seppur in aumento, sono ancora poche. E questo spostamento è stato in parte compensato dall’aumento delle domande di divorzio, scatenato dalla riduzione dei tempi di attesa dopo la separazione.
Il divorzio breve ha debuttato un anno fa. Mentre le strade per lasciarsi alternative ai tribunali risalgono a fine 2014. È stato il Dl 132 a introdurre la possibilità di separarsi e di divorziare siglando un accordo in Comune o rivolgendosi agli avvocati (almeno uno per coniuge) raggiungendo un’intesa in negoziazione assistita. Al municipio però possono rivolgersi solo le coppie che non hanno né figli comuni né questioni patrimoniali. Limiti che non valgono per la negoziazione assistita. In entrambi i casi gli ex coniugi devono aver raggiunto un accordo. Gli addii in cui le parti non riescono a smettere di litigare restano quindi di esclusiva competenza del giudice.
In quasi un anno e mezzo, il ricorso alle vie stragiudiziali è aumentato senza però riuscire (per ora) a incidere in maniera significativa sui carichi degli uffici giudiziari. Dai dati raccolti dal Sole 24 Ore in 18 città emerge che, nel 2015, le coppie che hanno chiuso il loro matrimonio in Comune o con una negoziazione assistita sono state 6.641. Nello stesso periodo, le cause di separazione e divorzio consensuali sopravvenute nei tribunali sono state invece 33.292. Mentre le procedure giudiziali, con marito e moglie in contrasto, sono state 24.404. Si tratta di valori non direttamente comparabili poiché al tribunale non si rivolgono solo le coppie della città dove ha la sede ma anche quelle dei Comuni del circondario. Ma la differenza resta comunque grande.
«Le negoziazioni assistite stanno aumentando – rileva il presidente del Tribunale di Milano, Roberto Bichi – e in futuro dovrebbero portare una riduzione del carico di lavoro. Ma al momento le sezioni sono ingolfate, anche per l’aumento delle domande di divorzio. Sarebbe necessario – prosegue – rendere più conveniente le strade alternative: per una negoziazione assistita servono almeno due avvocati, mentre per la procedura consensuale in tribunale ne basta uno».
«Il beneficio della degiurisdizionalizzazione – spiega Franca Mangano, presidente della prima sezione civile del Tribunale di Roma – investe solo le separazioni e i divorzi consensuali, che rappresentano sì un lavoro (soprattutto per le cancellerie) ma non sono cause pesanti». Le sezioni dedicate alla famiglia si devono inoltre occupare dei figli di coppie di fatto che si separano, in passato di competenza del Tribunale dei minori. «A Roma – continua Mangano – nel 2014 sono stati 500 i procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio e nel 2015 sono raddoppiati. E fra qualche tempo arriveranno anche le liti delle coppie legate dalle unioni civili».
Prima di trasformarsi in (eventuali) separazioni le unioni civili dovranno però essere celebrate. E i primi a doversi far carico di queste nuove procedure saranno i Comuni, molti dei quali già in difficoltà a gestire le separazioni e i divorzi. «Abbiamo organizzato una nuova funzione senza risorse in più», chiarisce Cinzia Vigneri, direttore dei servizi civici del Comune di Genova. Lasciarsi di fronte al sindaco costa poco (al massimo 16 euro), ma in alcuni casi i tempi sono lunghi: «La legge fissa due incontri, a distanza di almeno 30 giorni l’uno dall’altro – spiega Vigneri -. Ma il problema è l’attesa: noi abbiamo molte richieste e a volte diamo il primo appuntamento un anno dopo». Genova non è un caso isolato: a Milano l’attesa è di sei mesi. Stessi tempi a Torino, anche se il Comune punta a ridurla a quattro. A Roma ci vogliono circa 60 giorni. Va meglio nei centri con meno domande, come Taranto: «Chiudiamo l’intera procedura entro 45-50 giorni», dice la responsabile dei servizi demografici Lucrezia Nocco.
La lentezza dei Comuni è una delle ragioni per cui molte coppie continuano a lasciarsi in tribunale. «Fino al mese scorso – dice Cesare Castellani, presidente della settima sezione civile del Tribunale di Torino – abbiamo chiuso le separazioni consensuali in circa quattro mesi. Si tratta anche di una procedura economica, poiché possono essere fatte senza avvocati». Anche al Tribunale di Genova le procedure consensuali sono rapide: «Si arriva alla fine in tre mesi al massimo – afferma Francesco Mazza Galanti, presidente della sezione famiglia – perché viene delegato a seguire l’iter il giudice onorario».
Discorso diverso per il divorzio. In tribunale non è possibile dirsi definitivamente addio senza avvocati: rivolgersi in Comune può essere quindi molto meno costoso.
Ma chi vuole lasciarsi senza passare di fronte a un giudice può anche ricorrere alla negoziazione assistita. I numeri però sono ancora contenuti. «È un trend in crescita. Si tratta di uno strumento irrinunciabile che l’avvocatura ha fortemente voluto e che richiede l’assunzione di maggiori responsabilità», dichiara Francesca Sorbi, componente della commissione Adr del Cnf, che dedicherà al tema un convegno che si terrà a Roma il 26 maggio. «È un riconoscimento dell’attività di conciliazione volta alla tutela dell’interesse della famiglia e soprattutto del benessere dei minori che l’avvocato ha sempre svolto ma che ora viene valorizzata ed esaltata».

Fonte: www.ilsole24ore.com/FAMIGLIA: Separazioni e divorzi, la sede preferita è ancora il tribunale (Il Sole 24 Ore) -

sabato 21 maggio 2016

Gite scolastiche, il prof non deve controllare l'autista

In occasione delle gite di istruzione, al personale della scuola non sono attribuiti specifici compiti di controllo della condotta del conducente o dell’idoneità del veicolo utilizzato per il trasporto degli studenti. E il vademecum della Polizia Stradale allegato alla circolare del Miur del 3 febbraio scorso non intende porre a carico della scuola ulteriori responsabilità, ma semplicemente favorire la collaborazione con gli organi accertatori. Il puntuale chiarimento è stato fornito il 28 aprile scorso nella 7° commissione cultura della Camera dal sottosegretario all’istruzione Toccafondi con la risposta all’interrogazione n. 5-07999 dell’on.le Sgambato. Con la circolare prot. n. 674 del 3 febbraio 2016 il Ministero dell’istruzione ha esortato i dirigenti scolastici e i docenti a porre molta attenzione nell’organizzazione delle visite di istruzione, al fine di garantire il trasporto nella piena sicurezza. Alla circolare è allegato il vademecum della Polizia Stradale, che evidenzia quali siano i criteri che devono essere seguiti dagli istituti scolastici per la scelta dell’azienda di trasporto e quali siano le prescrizioni a carico dei conducenti. Sia la circolare che il vademecum, però, possono essere interpretati, in alcuni passaggi, nel senso di attribuire specifici compiti di controllo alla scuola. Per dirimere questo dubbio, lo stesso Ministero dell’istruzione, con la successiva circolare prot. n. 3130 del 12 aprile 2016, ha chiarito che in carico ai dirigenti e ai docenti accompagnatori non c’è alcun obbligo di verifica dell’idoneità del mezzo di trasporto e di sorveglianza della guida. Inoltre, il vademecum non contiene prescrizioni a carico degli istituti scolastici, ma rappresenta uno strumento di supporto nell’organizzazione dei viaggi di istruzione. Questa posizione è stata ribadita il 28 aprile scorso dal sottosegretario Toccafondi, che, rispondendo all’interrogazione n. 5-07999 dell’on.le Sgambato, ha confermato che il vademecum della Polizia Stradale allegato alla circolare ministeriale del 3 febbraio 2016 non attribuisce al personale della scuola nuovi compiti o responsabilità rispetto a quelli già previsti dal codice civile e dal contratto collettivo nazionale del lavoro. L’obiettivo è soltanto quello di fornire alla scuola uno strumento utile per trasmettere eventuali segnalazioni agli organi accertatori, senza che i dirigenti scolastici e i docenti abbiano alcun obbligo di sorveglianza specifica. Eventuali violazioni stradali, infatti, sono addebitabili esclusivamente ai conducenti e alle società di trasporto.

Fonte: www.italiaoggi.it//Gite scolastiche, il prof non deve controllare l'autista - News - Italiaoggi

Corte Costituzionale: coltivare cannabis è reato

Coltivare cannabis per uso personale è reato. Non può essere equiparata a una violazione amministrativa.
A stoppare il tentativo di dequalificare l’illecito è la Corte costituzionale con la sentenza n. 109 del 2016, depositata il 20 maggio 2016, che non ha accolto la prospettazione di incostituzionalità sollevata in relazione al principio di uguaglianza.
Passa indenne il vaglio della Consulta l’articolo 75 del Testo unico stupefacenti (dpr 309/1990), e in particolare quella parte in cui non include tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative, se finalizzate in via esclusiva all’uso personale della sostanza stupefacente, anche la coltivazione di piante di cannabis.
Il problema è sorto in un processo a carico di una persona condannata per aver coltivato nel garage della propria abitazione otto piante di canapa indiana, due delle quali in avanzato stato di maturazione.
La questione di costituzionalità è approdata alla Consulta, che però l’ha considerata infondata, pur constatando che la legge vuole differenziare la reazione punitiva nei confronti del consumatore di droga rispetto al produttore e del trafficante. I secondi vanno puniti, mente i primi vanno curati e riabilitati.
A questo proposito il legislatore fa riferimento al concetto di uso personale, che conduce a una reazione più tenue.
In questo filone non sono però inserite alcune condotte ritenute particolarmente gravi come la vendita, il commercio, la cessione e anche quelle compatibili sia con l’uso personale che con quello di cessione a terzi.

Fonte: www.italiaoggi.it/Coltivare cannabis è reato - News - Italiaoggi

venerdì 20 maggio 2016

Stupefacenti: incostituzionali le misure di prevenzione per i consumatori

E' costituzionalmente illegittimo l'art. 4-quater del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, come convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della L. 21 febbraio 2006, n. 49, che introduce l'art. 75-bis del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309.
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza del 6 maggio 2016, n. 94.
Con ordinanza del 22 giugno 2015, il G.i.p. presso il Tribunale di Nola sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-quater del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti delle prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309), come convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della L. 21 febbraio 2006, n. 49, che introduce l'art. 75-bis del d.p.r. 309/1990, ritenendo che la disposizione violasse l'art. 77, comma 2, Cost.
Secondo il giudice remittente, la disposizione censurata, introdotta con la sola legge di conversione, avrebbe difettato del requisito di omogeneità rispetto alle norme contenute nell'originario decreto legge, nonché dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza di provvedere, stabiliti dall'art. 77 Cost.
Preme ricordare come il giudice delle leggi avesse già provveduto a dichiarare l'illegittimità costituzionale di altre disposizioni introdotte dalla legge di conversione del d.l. n. 272/2005, per eterogeneità delle stesse rispetto al contenuto, alla finalità ed alla ratio complessiva del decreto medesimo (ovvero gli artt. 4-bis e 4-vicies ter).
Secondo i giudici costituzionali, la disposizione di cui all'art. 4-quater prevede norme di carattere sostanziale del tutto svincolate da finalità di recupero del soggetto tossicodipendente, orientate a finalità di prevenzione di pericoli per la sicurezza pubblica, ovvero disposizioni attinenti a misure di prevenzione atipiche ed a sanzioni per il caso di loro violazione.
Conseguentemente, la palese eterogeneità delle disposizioni censurate, secondo la Corte, rispetto ai contenuti ed alle finalità del decreto legge in cui sono state inserite, appare evidente, con conseguente violazione dell'art. 77, comma 2, Cost., per difetto del necessario requisito dell'omogeneità, in assenza di qualsivoglia nesso funzionale tra le disposizioni del decreto legge e quelle introdotte in fase di conversione.

Fonte: www.altalex.com//Stupefacenti: incostituzionali le misure di prevenzione per i consumatori | Altalex

giovedì 19 maggio 2016

Rubare per fame non integra il delitto di furto

Si pubblicano qui di seguito le motivazioni della sentenza – ripresa anche dalle maggiori testate giornalistiche e televisive – con cui la Quinta Sezione della Suprema Corte di Cassazione ha mandato assolto un homeless di origine ucraina dall’accusa di furto per aver rubato presso un supermercato due porzioni di formaggio e un pacchetto contenente quattro wurstel.
Tralasciando per un attimo gli aspetti sociologici connessi alla vicenda, scopo del presente lavoro è concentrarsi sugli aspetti giuridici tracciati nel corso del ragionamento offerto dalla Suprema Corte.
La vicenda è nota: l’imputato – un senzatetto di origine ucraina privo di dimora e di occupazione – viene sorpreso da un cliente di un supermercato mentre si infila in tasca due porzioni di formaggio e quattro wurstel per un valore complessivo pari a 4 euro; segnalato al personale del centro, l’imputato restituisce la merce e viene denunciato.
Prende così avvio un procedimento penale che – dopo le condanne in primo e secondo grado – giunge all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione, la quale, come detto, annulla le statuizioni dei giudici di merito.
A destare attenzione, tuttavia, è la formula adottata dalla Quinta Sezione: «annullamento perché il fatto non costituisce reato».
In altri termini, ciò significa che la Corte non si è avvalsa delle recenti modifiche in materia di speciale tenuità di cui all’art. 131-bis c.p. riconoscendo così di fatto la sussistenza di un (pur lieve) fatto-reato. Al contrario, la soluzione adottata dalla Corte si è indirizzata nel riconoscere la sussistenza della causa di giustificazione ex art. 54 c.p. nella vicenda in esame.
Nello specifico, la Cassazione ha affermato che «la condizione dell’imputato e le circostanze in cui è avvenuto l’impossessamento della merce dimostrano che egli si impossessò di quel poco cibo per far fronte ad un immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi, agendo in stato di necessità».
Immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi dedotta, in primis, dalle caratteristiche dei generi alimentari rubati e dalle condizioni socio-economiche in cui versava l’imputato.
Infatti, due porzioni di formaggio e quattro wurstel sono cibi immediatamente consumabili dopo il furto, senza che siano generi surgelati o che necessitino di operazioni di cottura. Ciò conferma che l’esigenza di alimentarsi dell’imputato era immediata ed inevitabile (il requisito dell’attualità del pericolo involontario di un danno grave alla persona), anche e soprattutto in relazione alle disagiate condizioni economiche in cui egli versava.

Per leggere la sentenza clicca qui: corte-cassazione-sentenza-n-18248_2016.pdf

Fonte: www.giurisprudenzapenale.com

Lei precaria, lui senza lavoro ma con terreni e immobili: assegno all’ex moglie

A inchiodare l’uomo sono le dichiarazioni dei redditi e la relazione catastale prodotta dalla consorte. Evidente, documenti alla mano, lo squilibrio di forza economica tra i due oramai ex coniugi. Confermato, quindi, l’assegno mensile a favore della donna.
Redditi. Contributo minimo, quello previsto a favore della donna: secondo quanto valutato dai giudici, l’ex marito dovrà versarle un «assegno mensile» da 310 euro.
Nonostante tutto, però, tale decisione viene contestata in Cassazione. L’uomo, tramite il proprio difensore, spiega di avere «cessato ogni attività lavorativa». Ciò avrebbe modificato «le sue condizioni economiche in senso peggiorativo», ovviamente.
Ma tale dato, ribattono i magistrati nella sentenza n. 10099/2016 del 17 maggio, non sminuisce la forza economica del marito, nettamente superiore rispetto a quella della moglie.
I «possedimenti» evidenziati nelle «dichiarazioni dei redditi» dell’uomo e nella «relazione catastale» prodotta dalla donna hanno bisogno, è evidente, di «capacità di reddito, anche ai soli fini del loro mantenimento». E secondo i giudici è lecito presumere che «alcuni di quei possedimenti» forniscano all’uomo «rendite locatizie» tali da consentirgli «un adeguato sostentamento».
Sull’altro fronte, la moglie «si è adattata, dopo la separazione, a svolgere lavori precari e poco remunerativi», come quello di «bracciante agricola».
Tutto ciò conduce a ritenere netto il «divario economico» tra gli ex coniugi. Ciò soprattutto alla luce della notevole «capacità di reddito del marito», fondata sia «sulla notevole competenza del suo lavoro di ‘mastro muratore’, che è riuscito, nel corso degli anni, ad investire i propri guadagni in unità abitative e in terreni», sia sulle «sue precedenti dichiarazioni dei redditi».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Lei precaria, lui senza lavoro ma con terreni e immobili: assegno all’ex moglie - La Stampa

Sezioni unite: imprescrittibile il delitto punibile con ergastolo commesso prima della modifica dell’art. 157 c.p.

Un soggetto veniva condannato dalla competente Corte di Assise d’Appello alla pena di anni sei di reclusione - a titolo di continuazione riconosciuta rispetto al delitto, ritenuto più grave, giudicato con altra sentenza divenuta irrevocabile – per delitti di omicidio premeditato, commesso e tentato, previo riconoscimento in suo favore della attenuante della collaborazione prevista dall’art. 8 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152.
Il giudice di appello rigettava in particolare, tra gli altri motivi di impugnazione, quello relativo alla estinzione dei reati per maturata prescrizione. La difesa dell’imputato sosteneva infatti che i reati di omicidio premeditato, l’ultimo dei quali commesso nel giugno 1988, erano stati perpetrati prima della entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (cd. “ex-Cirielli) che ha reso imprescrittibili i reati puniti con la pena dell’ergastolo: di modo che, dovendosi applicare i commi secondo e terzo dell’art. 157 c.p., nella formulazione più favorevole previgente alla novella legislativa, erano pacificamente scaduti i termini massimi di prescrizione.
La Corte di Assise di Appello disattendeva tale impostazione, affermando, in linea con un principio già espresso nella giurisprudenza di legittimità, che un delitto punibile in astratto con l’ergastolo - quale quello di omicidio aggravato – commesso in epoca anteriore alla entrata in vigore della modifica dell’art. 157 c.p., è imprescrittibile, anche se le circostanze attenuanti siano valutate come equivalenti o addirittura prevalenti sulle aggravanti che comportano la pena perpetua.
La difesa proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo che per determinare il termine di prescrizione deve aversi riguardo alla concreta e specifica configurazione finale del reato, di modo che, avendo i giudici di merito riconosciuto l’attenuante della collaborazione (di cui all’art. 8 del d.l. n. 152 del 1991) che comporta la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella della reclusione da dodici a venti anni, trova applicazione l’art. 157, comma primo, n. 2, c.p., nella previgente scrittura, che fissava il termine massimo di prescrizione, in relazione a tale pena edittale, in anni ventidue e mesi sei, oramai decorsi rispetto all’epoca di commissione del reato; né poteva valere il principio richiamato dal giudice di appello, posto che la riduzione della pena non agisce per effetto della neutralizzazione delle circostanze aggravanti, ma deriva dal riconoscimento della attenuante ad effetto speciale della collaborazione che sostituisce ex lege la pena dell’ergastolo con la reclusione.
La prima sezione penale della Cassazione rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite, denunciando l’esistenza di un contrasto interpretativo, nella giurisprudenza della Corte, relativamente alla prescrizione o imprescrittibilità del reato di omicidio aggravato punibile con l’ergastolo, ove commesso prima della modifica dell’art. 157 c.p. operata dalla “ex-Cirielli” ed ove ritenuta riconoscibile l’attenuante della collaborazione.
L'art. 157 c.p., nella versione antecedente le modifiche, prevedeva infatti al comma 2 che per determinare il tempo necessario alla prescrizione dovesse guardarsi al massimo della pena stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto dell'aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti; ai sensi del comma 3, inoltre, in caso di concorso tra circostanze aggravanti e attenuanti, doveva farsi applicazione dell'istituto del bilanciamento di cui all'art. 69 c.p.
La norma come riformulata nel 2005, al contrario, stabilisce, al comma 2, che ai fini della determinazione del tempo necessario alla prescrizione debba aversi riguardo unicamente al massimo della pena prevista dalla norma incriminatrice per il reato consumato o tentato, mentre non si tiene conto della diminuzione di pena per le circostanze attenuanti e dell'aumento di pena per le circostanze aggravanti, salvo il caso del ricorrere di circostanze aggravanti a effetto speciale e di circostanze aggravanti per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa.
I precedenti nella giurisprudenza di legittimità
Sulla questione portata all’attenzione del supremo collegio si è in effetti registrato un contrasto interpretativo piuttosto netto.
Secondo un primo orientamento (Sez. 1, n. 11047 del 7 febbraio 2013; Sez. 1, n. 41964 del 22 ottobre 2009), non v'è alcuna differenza tra la disciplina attualmente vigente e quella precedentemente in vigore quanto alla imprescrittibilità del reato punito con la pena dell'ergastolo.
Infatti, la giurisprudenza sia di legittimità che di merito, in base alla formulazione letterale dell'art. 157 c.p. nel testo previgente - che prevedeva l'applicabilità della prescrizione ai soli reati puniti con le pene della reclusione, dell'arresto, della multa e dell'ammenda - aveva già univocamente ritenuto, con argomentazione a contrario, che solo i reati per i quali la legge stabiliva la pena dell'ergastolo, dovevano ritenersi imprescrittibili: sicché la nuova formulazione dell'art. 157 c.p., ponendosi in un rapporto di assoluta continuità con l'indicato orientamento giurisprudenziale, non ha fatto altro che recepire l'indicato principio di diritto nell'ordinamento positivo in occasione di una generale ridefinizione dell'istituto della prescrizione, anche allo scopo di dirimere ogni possibile controversia connessa alla problematica se, per l'affermazione dell'imprescrittibilità del reato, fosse sufficiente l'astratta punibilità dello stesso con la pena dell'ergastolo ovvero l'applicazione effettiva delle circostanze aggravanti tale da comportare una condanna alla pena dell'ergastolo.
Esiste tuttavia un diverso indirizzo, secondo cui il delitto di omicidio aggravato, punibile in astratto con la pena dell'ergastolo, è imprescrittibile soltanto se commesso dopo la modifica dell'art. 157 c.p. da parte della legge n. 251 del 2005.
Secondo tale posizione, infatti, prima della riforma della legge n. 251 del 2005 erano imprescrittibili solo i reati per i quali era stata effettivamente irrogata, in sentenza, la pena dell'ergastolo. A sostegno di tale ultima affermazione, veniva richiamata un principio di diritto - esplicitamente affermato da Sez. VI, n. 25680 del 9 gennaio 2003, dep. 12 giugno 2003, Piscicelli, Rv. 226420 - che, sia pure non riferito a reati punibili in astratto con l'ergastolo, aveva ritenuto che “…il termine di prescrizione deve essere computato in riferimento alla specifica e concreta configurazione finale che del fatto il giudice abbia ritenuto in sentenza, avuto riguardo alla qualificazione giuridica ed agli elementi circostanziali, e ciò anche in relazione alle fasi processuali precedenti, dovendosi in base ad esso stabilire, nella verifica di eventuale estinzione del reato, l'efficacia dei fatti interruttivi o sospensivi di volta in volta intervenuti”.
Tale essendo la disciplina previgente, in quanto più favorevole al reato rispetto a quella attualmente in vigore (che esclude la prescrizione per il solo effetto della previsione normativa della pena dell’ergastolo), essa deve essere necessariamente applicata ultrattivamente, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, c.p., in relazione ai delitti commessi prima della modifica dell’art.157 c.p. e non puniti, in concreto, con la pena dell’ergastolo per effetto del riconoscimento di attenuanti che agiscono in senso trasformativo in reclusione della pena perpetua edittalmente prevista.
La decisione delle Sezioni Unite
Nel risolvere il contrasto, gli Ermellini osservano preliminarmente che il quesito, ancorché formulato con esclusivo riferimento al delitto di omicidio aggravato e alla incidenza del riconoscimento della speciale attenuante della collaborazione, ha in realtà una portata più generale, investendo tutte le ipotesi nelle quali la ravvisata esistenza di circostanze attenuanti comporti, per fatti commessi nel regime previgente, l’applicazione di pene detentive temporanee in luogo dell’ergastolo edittalmente contemplato.
Ciò premesso, le Sezioni Unite osservano:
- che anche prima della modifica dell’art. 157 c.p. era incontestato che i delitti punibili con l’ergastolo fossero assolutamente imprescrittibili e che fosse del tutto ininfluente l’eventuale riconoscimento di circostanze attenuanti che in concreto comportasse l’applicazione di pena detentiva temporanea in luogo di quella a vita;
- che solo di recente (con la citata sentenza n.9391 del 17 gennaio 2013) si è fatta strada l’opinione - calibrata sulla fattispecie di omicidio aggravato ex art. 576 comma 1 c.p. commesso da minore in epoca precedente alla entrata in vigore della “ex- Cirielli”, nel concorso della diminuente dell’età e delle circostanze attenuanti generiche, ritenute prevalenti sulla aggravante ad effetto speciale – secondo la quale il delitto soggiace al termine di prescrizione, per effetto del riconoscimento di circostanze attenuanti che, a vario titolo, comunque impediscono in concreto l’irrogazione della pena perpetua;
- che peraltro, proprio con riferimento ai soggetti minorenni, la questione è oramai irrilevante, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 168 del 1994 che ha dichiarato la contrarietà alla Carta delle disposizioni degli artt. 17 e 22 c.p. nella parte in cui consentono che i minori siano passibili, anche in astratto, della irrogazione della pena dell’ergastolo;
- che invece, in generale, deve essere "… riaffermato il tradizionale orientamento della assoluta imprescrittibilità dei delitti, commessi anteriormente all’8 dicembre 2005, punibili con pena dell’ergastolo, pur nel caso in cui il riconoscimento di circostanze attenuanti comporti l’irrogazione della pena detentiva temporanea… ", posto che, sul piano normativo, la considerazione della pena in concreto irrogata dal giudice è del tutto irrilevante ai fini della prescrizione, anche nel caso del reato circostanziato: la Corte ricorda infatti che il termine di prescrizione deve essere computato in riferimento alla specifica e concreta configurazione finale che del fatto il giudice abbia ritenuto in sentenza, avuto riguardo alla qualificazione giuridica ed agli elementi circostanziali, senza che sul termine medesimo influisca in alcun modo la pena applicata in concreto (Sez. 6, Ordinanza n. 25680 del 9 gennaio 2003);
- una volta dunque configurata dal giudice la fattispecie come reato punito con l’ergastolo – come nel caso in cui venga riconosciuta l’ipotesi di omicidio premeditato – è allora la stessa previsione normativa dell’art. 157 c.p., nella formulazione previgente al testo in vigore, a segnare il discrimine, nella misura in cui la norma reca una disciplina della prescrizione dei soli reati per i quali tale istituto è previsto dall’ordinamento giuridico, determinando in tal modo “per esclusione” (per effetto implicito cioè della omessa considerazione in tale disciplina positiva) la classe dei reati imprescrittibili;
- per ultimo, i riferimenti contenuti nell’art. 157, secondo comma, c.p. (nel testo originario), all’aumento massimo e alla diminuzione minima delle sanzioni, anche in correlazione col giudizio di comparazione, testimoniano che tali disposizioni si applicano (e non potrebbero diversamente) solo alle pene detentive temporanee, ad ulteriore dimostrazione della impossibilità di applicare la intera materia della prescrizione ad una categoria, quella dei reati puniti con l’ergastolo, esclusa in radice dalla disciplina.

Per legger la sentenza clicca qui: 19756 pdf.pdf

Fonte: www.quotidianogiuridico.it

mercoledì 18 maggio 2016

Furto tentato al mercato: se il fatto non è grave l'arresto non va convalidato

Al fine di procedere alla convalida dell'arresto per tentato furto di alimenti occorre valutare la gravità del fatto, desunta dal peso complessivo dell'episodio. E' quanto emerge dalla sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione n. 11433/2016.

Il caso vedeva un uomo essere sorpreso in flagranza di tentato furto di generi alimentari. Il Tribunale rigettava la richiesta di convalida dell'arresto non potendo considerarsi il fatto come grave e pericoloso.

Secondo quanto stabilito dall'art. 381, comma 4, c.p., in caso di furto aggravato dalla sola esposizione dei beni alla pubblica fede, si procede all'arresto (facoltativo) solo se la misura è giustificata dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto.

Nella fattispecie i giudici del merito hanno ritenuto che il fatto non fosse connotato da alcuna particolare gravità, trattandosi di furto tentato di generi alimentari e che non poteva dedursi, dalle circostanze del fatto stesso, alcun sintomo di pericolosità del soggetto arrestato, incensurato e pertanto non noto agli operanti come soggetto dedito alla consumazione di reati contro il patrimonio.

Fonte: www.altalex.com//Furto tentato al mercato: se il fatto non è grave l'arresto non va convalidato | Altalex

Figlio disabile e moglie depressa, ma l’uomo rimane in carcere

Sotto accusa per spaccio di cocaina e sottoposto alla misura cautelare più rigida. L’uomo richiama la propria precaria situazione familiare per chiedere i domiciliari. Per i giudici di Cassazione, però, tale richiesta non è accoglibile: per l’assistenza a un figlio disabile si può far ricorso anche a soggetti esterni all’ambito genitoriale. E l’uomo resta in carcere.
Spaccio. Gravi le accuse: viene ipotizzato, difatti, il «reato di associazione a delinquere finalizzato allo spaccio di cocaina» nella zona di Napoli. Decisivo il blitz compiuto dalle forze dell’ordine, che ha portato all’«arresto» di diverse persone «in flagranza di spaccio». Inevitabile l’applicazione della «misura cautelare della custodia in carcere».
A contestare il provvedimento è uno dei componenti dell’organizzazione, ritenuto dagli inquirenti uno dei perni del gruppo, essendo, tra l’altro, «corriere della droga, distributore agli acquirenti e reclutatore di altri spacciatori».
L’uomo si sofferma sulla propria situazione familiare, chiedendo di usufruire degli «arresti domiciliari». In particolare, egli spiega che è necessaria la sua presenza fisica a casa, avendo un «figlio minore invalido civile al 100 per cento» e la moglie affetta da una «sindrome depressiva».
Domiciliari. Tale quadro, però, non è decisivo, secondo i Giudici della Cassazione, che difatti confermano la «custodia in carcere» nei confronti dell’uomo con la sentenza n. 20080 del 13 maggio scorso. Ciò perché «le particolari problematiche relative all’assistenza materiale del figlio disabile, che può normalmente provenire da soggetti esterni all’ambito genitoriale, non possono essere ritenute paragonabili a quelle riguardanti l’assistenza di un figlio in età evolutiva, che richiede la presenza di almeno uno dei genitori».
Di conseguenza, anche tenendo conto della «specifica attitudine a delinquere», è impensabile l’applicazione della «misura degli arresti domiciliari, anche col controllo elettronico»: essa, difatti, non potrebbe impedire, spiegano i Giudici, «la continuazione dello spaccio, anche dal proprio domicilio, a mezzo di terze persone».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Figlio disabile e moglie depressa, ma l’uomo rimane in carcere - La Stampa

«Vergognati, sei sulla bocca di tutti...»: parole di disprezzo, ma nessuna offesa

Scontro accesissimo. A fronteggiarsi due donne. Tra loro volano parole grosse. E a rendere la vicenda ancora più clamorosa è anche il contesto, un piccolo paesino di neanche ventimila abitanti.
Ma le frasi rivolte alla donna ritenutasi offesa, cioè «Vergognati, sei sulla bocca di tutti» e «Vergognati, hai buttato fuori di casa tuo marito», non sono catalogabili come una ‘ferita’ all’orgoglio e all’immagine. Così ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20528/2016 del 16 maggio.
Disprezzo. Ribaltate completamente le valutazioni compiute dal Giudice di pace. Azzerata la originaria condanna per il «reato di ingiuria».
Nessun dubbio sulle frasi pronunciate all’indirizzo della persona offesa: tra le altre, «Vergognati, sei sulla bocca di tutti» – con chiaro riferimento alla comunità del paese –  e «Vergognati che tuo marito dorme a casa di un mio dipendente perché l’hai buttato fuori di casa» – con riferimento alle vicissitudini familiari della donna –. Ma quelle parole, pur esprimendo «disprezzo», non presentano, secondo i magistrati della Cassazione, «quella intrinseca carica offensiva propria dell’ingiuria».
Logico, di conseguenza, far cadere ogni contestazione nei confronti della donna che, finita sotto accusa, può ora tirare un sospiro di sollievo.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/«Vergognati, sei sulla bocca di tutti...»: parole di disprezzo, ma nessuna offesa - La Stampa

lunedì 16 maggio 2016

Essere artigiani non implica di per sé dover pagare l’IRAP

Il fatto di essere un artigiano non è significativo, di per sé, per giustificare la soggezione all’IRAP: lo ha specificato la Cassazione, con la sentenza dell’11 maggio 2016, n. 9561.

Nel caso in esame, l’Agenzia delle Entrate ricorreva contro la sentenza della Commissione Tributaria Regionale che aveva ritenuto spettante il rimborso dell’IRAP richiesto da un artigiano, in quanto nella sua attività non era ravvisabile il presupposto che fa scattare l’imposta, ovvero la presenza di un’autonoma organizzazione. I Giudici avevano evidenziato come il contribuente esercitasse la sua attività avvalendosi addirittura dei macchinari dei clienti; i suoi unici beni strumentali erano l’auto e il telefonino. Ma nonostante i giudici avessero dato torto all’Agenzia delle Entrate, questa ha caparbiamente insistito fino in Cassazione, ottenendo il rigetto del ricorso presentato.

I Giudici di Cassazione hanno ripetuto ancora una volta che l’attività di lavoro autonomo, anche se svolta con abitualità, deve sottostare al requisito dell’autonoma organizzazione, che “ricorre quando il contribuente a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti […] il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione”.

E hanno spiegato: “La circostanza che la parte svolga l’attività di artigiano e rivesta perciò la qualità di imprenditore sia pure piccolo non è di per sé significativa ai fini della sua soggezione al tributo, in quanto non è la natura dell’attività che lo rende soggetto passivo dell’imposta, ma è il modo in cui l’attività è concretamente esercitata che può integrare […] la sussistenza di quei parametri valutativi che la giurisprudenza di questa Corte ha già indicato come espressivi di un’attività autonomamente organizzata”.

Fonte: www.fiscopiu.it /Essere artigiani non implica di per sé dover pagare l’IRAP - La Stampa

Gestori telefonici, l'assenso agli sms pubblicitari non deve essere scritto

Il gestore telefonico può provare il consenso del cliente alla ricezione di sms pubblicitari anche attraverso registrazioni e riproduzioni informatiche senza dunque dover produrre in giudizio un pezzo di carta scritto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 16 maggio 2016 n. 9982, chiarendo che il consenso al trattamento dei dati personali comuni non è soggetto alla forma scritta, potendo, a differenza dei dati sensibili, essere espresso anche oralmente purché poi sia possibile fornirne prova “documentale”.
Bocciato dunque il ricorso di un avvocato assegnatario di tre utenze Tim che aveva lamentato l'invio di messaggi promozionali senza il suo preventivo assenso. Nella fasi di merito, però, la compagnia telefonica aveva provato attraverso la produzione di estratti del proprio sistema informatico che il ricorrente aveva dato il suo placet, in periodi diversi, per tutte e tre le utenze. Tuttavia il legale ha eccepito l'inidoneità dei “documenti” presentati a fungere da prova.
Con la decisione odierna la Suprema corte, nel confermare la decisione del giudice milanese, afferma che il Codice della privacy laddove si riferisce alla categoria dei “documenti” non intende per essi soltanto «gli atti pubblici e le scritture private» ma «fa riferimento a qualsiasi oggetto idoneo e destinato a fissare in qualsiasi forma, anche non grafica, la percezione di un fatto storico al fine di rappresentarlo in avvenire», nozione che, del resto, prosegue la sentenza, «nel capo Il del titolo II del libro VI del codice civile, intitolato alla “Prova documentale”, trova compiuta regolamentazione».
In definitiva, affermano i giudici piazza Cavour, in tema di trattamento dei dati personali cosiddetti comuni per finalità promozionali e commerciali mediante messaggi di testo (Sms) su utenze telefoniche mobili valgono le seguenti tre regole: 1) la previsione introdotta dall'articolo 23, comma 3, del Dlgs n. 196 del 2003, secondo cui il consenso al trattamento è validamente prestato, tra l'altro, se è documentato per iscritto, «attiene non alla forma di manifestazione del consenso in questione - come, invece, stabilito per il trattamento dei dati sensibili di cui al comma 4 dello stesso art. 23 -, ma al contenuto dell'onere probatorio gravante sul titolare dei dati personali»; 2) «al titolare dei dati personali è imposto di dare documentazione per iscritto dell'assenso anche orale esplicitato dall'utente del servizio, al trattamento dei medesimi suoi dati per scopi pubblicitari e promozionali aggiuntivi rispetto al fornito servizio di telefonia mobile»; 3) la documentazione per iscritto «può essere integrata anche da riproduzioni meccaniche o informatiche di cui all'articolo 2712 c.c., effettuate dal titolare del trattamento, salva l'eventuale, successiva verifica dell'idoneità, adeguatezza e sufficienza del contenuto dell'acquisita annotazione».

Fonte: www.ilsole24ore.com//Gestori telefonici, l'assenso agli sms pubblicitari non deve essere scritto

domenica 15 maggio 2016

Legittimo impedimento del difensore integrato anche da condizioni meteorologiche avverse

Un avvocato non presenzia a un’udienza camerale tenutasi presso la sezione penale della Corte d’Appello di Cagliari, poiché le avverse condizioni climatiche gli avevano impedito di prendere l’aereo. La questione viene esaminata dalla Cassazione, dove la VI Sezione penale, con la pronuncia n. 10157 dell’11 marzo 2016, condivide la doglianza formulata dall’imputato che, nella specie, si era visto confermare la condanna.
La Corte, mutando giurisprudenza, ha sentenziato che le avverse condizioni meteorologiche, le quali impediscano ad un avvocato di recarsi presso le aule di giustizia, integrano un’ipotesi di legittimo impedimento, il cui ambito di operatività, con tale dictum, viene esteso ai procedimenti in camera di consiglio.
Tra i numerosi motivi, il ricorrente lamenta il vizio di violazione di legge e di motivazione, per avere la Corte territoriale rigettato l’istanza di rinvio dell’udienza, nonostante il legittimo impedimento del difensore: lo stesso, pur avendo deciso di partecipare all’udienza, si era trovato in una condizione di assoluta impossibilità di comparire.
Nel tragitto per recarsi all’udienza, rimase infatti bloccato presso due aeroporti, poiché il volo per Cagliari era stato dapprima sospeso, ed in seguito dirottato, a causa delle avverse condizioni meteorologiche, che avevano indotto la Protezione civile a interventi di carattere eccezionale. Tale legittimo impedimento venne rappresentato, il giorno dell’udienza, innanzi la Corte d’appello che, senza contestarne la sussistenza, rigettava l’istanza di rinvio, sulla base dell’asserto secondo il quale, nei procedimenti in camera di consiglio, rileva esclusivamente il legittimo impedimento dell’imputato e non anche quello del difensore, il quale viene sentito, quindi,  soltanto se compare. La Corte territoriale decideva dunque, sul punto, conformemente all’orientamento giurisprudenziale per il quale l’impossibilità, per il difensore, di partecipare all’udienza camerale, non integra motivo di rinvio della stessa.
La VI Sezione penale rileva che la complessità della specifica regiudicanda rendeva pregnante l’esigenza della presenza del difensore di fiducia, in funzione di garanzia dell’imputato, con la conseguenza che l’assenza del difensore  aveva arrecato un potenziale vulnus al diritto di difesa.
Il collegio richiama, sul tema, l’orientamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che in plurime occasioni ha evidenziato la necessità di assicurare all’imputato, nell’ottica delineata dall’art. 6 CEDU, un processo equo. Su tale premessa, riconosce quale “condizione indefettibile” la circostanza che sia assicurato un adeguato esercizio del diritto di difesa, in qualunque modulo procedimentale e in qualunque fase processuale, anche nelle udienze camerali. Il collegio richiama, inoltre, il principio secondo il quale, se una norma sia suscettibile di differenti interpretazioni, il giudice è tenuto a privilegiare la soluzione ermeneutica che ponga la norma in linea con i parametri costituzionali.
In relazione alle considerazioni formulate in tema di legittimo impedimento del difensore, la VI Sezione ritiene che l’orientamento ermeneutico secondo il quale il combinato disposto degli artt. 127, comma III, 443, comma IV, e 599 c.p.p. annette rilievo al legittimo impedimento del difensore anche nei procedimenti in camera di consiglio, oltre ad elidere ogni dubbio di costituzionalità, risultando pienamente conforme al dettato degli artt. 24 e 111 Cost., non incontra alcun ostacolo di ordine testuale. Ancor più nel dettaglio, la formulazione dell’art. 127, comma III, c.p.p., secondo la quale i difensori sono sentiti “se compaiono”, non preclude l’interpretazione secondo la quale la partecipazione all’udienza del difensore è facoltativa, ma il difensore ha comunque il diritto di comparire.
Laddove questi rappresenti tempestivamente il proprio intendimento di comparire e documenti un legittimo impedimento, a sostegno della richiesta di rinvio, il giudice è tenuto, in presenza di tutte le condizioni di legge, a disporre in tal senso. Sulla base delle esposte considerazioni, la Cassazione ha quindi annullato la pronuncia territoriale senza rinvio, con trasmissione degli atti alla Corte d’appello di Cagliari per il giudizio.

Fonte: www.altalex.com/Legittimo impedimento del difensore integrato anche da condizioni meteorologiche avverse | Altalex

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