venerdì 1 aprile 2016

Anche alla convivente della madre spetta il risarcimento per la morte del figlio

La giurisprudenza non sembra ormai nutrire alcun dubbio sulla risarcibilità del danno risentito da chi convive more uxorio per l’uccisione del partner, sempre che l’attore dimostri la sussistenza di un intenso legame affettivo. Talvolta la stessa linea è stata seguita anche in caso di relazione tra persone dello stesso sesso. Il Tribunale di Reggio Emilia, con la sentenza del 3 marzo 2016, arricchisce lo scenario fin qui delineatosi di un ulteriore elemento, proteso alla valorizzazione dei rapporti di coppia diversi da quelli di stampo tradizionale. Il giudicante, infatti, a fronte della morte di un diciottenne in occasione di un sinistro stradale, attribuisce il risarcimento non solo ad alcuni familiari dello scomparso, tra cui la madre, ma anche alla donna che con quest’ultima da molto tempo conviveva, evidenziando in proposito come anche costei avesse instaurato con la vittima un rapporto affettivo solido e diretto.
Mentre il Parlamento è alle prese con il tentativo di riconoscere e dare un assetto a relazioni interpersonali diverse da quelle che si innestano nell’alveo della famiglia tradizionalmente intesa, per un verso confrontandosi con le convivenze di fatto, sia eterosessuali che omosessuali, e per altro verso provando a regolamentare le unioni civili tra persone sesso (il disegno di legge contenente la relativa disciplina, approvato dal Senato il 25 febbraio 2016, è attualmente all’esame della Camera), tocca ai giudici farsi carico di alcune delle istanze di tutela che trovano la loro scaturigine nell’instaurazione di un legame affettivo stabile contrassegnato dalla condivisione di un percorso di vita. Alcune delle problematiche discusse nelle aule dei Tribunali ruotano attorno all’evento luttuoso rappresentato dalla morte di uno dei componenti della coppia, che sia stata provocata dall’illecito di un terzo. Orbene, con riferimento alle coppie formate tra persone di esso diverso, l’analisi del panorama giurisprudenziale rivela come possa ritenersi ormai un dato acquisito la legittimazione del convivente more uxorio a chiedere il ristoro dei danni, anche non patrimoniali, subiti per l’uccisione del partner. Nel solco tracciato da pronuncia resa oltre due decenni orsono (Cass. civ., sez. III, 28 marzo 1994, n. 2988), il Supremo Collegio in diverse occasioni ha avuto modo di esprimersi per la configurabilità di un siffatto pregiudizio, decretando il definitivo superamento della risalente concezione secondo cui la titolarità del diritto soggettivo al risarcimento dei danni conseguenti alla morte di una persona poteva ammettersi soltanto in capo a coloro che erano legati al defunto da un vincolo previsto e tutelato espressamente dalla legge (questo trend è manifestato da Cass. civ., sez. III, 16 settembre 2008, n. 23725, Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011, n. 12278; Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2014, n. 13654). In vista della concreta elargizione di una somma al convivente, il problema si sposta sul piano probatorio, occorrendo che l’attore fornisca la dimostrazione della sussistenza di un saldo legame affettivo con la vittima. A tal fine, sono state ritenute insufficienti le dichiarazioni rese dagli interessati per la formazione di un atto di notorietà, come pure le indicazioni dai medesimi fornite alla p.a. per fini anagrafici (Cass. civ., sez. III, 28 marzo 1994, n. 2988; nel senso che il certificato anagrafico non riesce a provare l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti, v. Cass. civ., sez. III, 29 aprile 2005, n. 8976); di contro, si è conferito rilievo al fatto che la convivenza fosse frutto di una comune scelta di vita e che la stessa era stata preceduta da un lungo rapporto, serio e stabile (Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2014, n. 13654, dove pure si è evidenziato che le caratteristiche del rapporto non possono essere indebolite dalla scelta di uno dei conviventi, titolare di un ingente patrimonio, di escludere l’altro dalla gestione dei propri rapporti economici, né tantomeno dalla brevità della convivenza). Nella giurisprudenza di merito si è arrivati ad attribuire anche all’ex convivente more uxorio di persona deceduta in seguito a sinistro stradale il risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita del rapporto, sul presupposto che risultava dimostrata la sussistenza di una relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale (Trib. Milano, 13 luglio 2011).
In relazione alle ipotesi in cui un’analoga tragedia investe coppie composte da persone dello stesso sesso, qualche apertura si è notata in alcune decisioni assunte dai giudici ambrosiani nell’ambito di procedimenti penali: a quanto consta, dapprima si è affermato che, in tema di costituzione di parte civile, ai fini del risarcimento del danno, patrimoniale e non, cagionato dalla morte del convivente, assume rilievo anche lo stabile rapporto di convivenza omosessuale (Trib. Milano, ord. 13 novembre 2009) e, successivamente, in altra vicenda l’imputato ritenuto colpevole di omicidio colposo è stato condannato, sul piano civilistico al risarcimento dei danni subiti dal convivente omossessuale del de cuius (Trib. Milano, 13 giugno 2011). Espressiva della tendenza all’equiparazione tra convivenze omosessuali ed eterosessuali è altresì la pronuncia, resa in una vertenza concernente la sussistenza del diritto a ottenere le prestazioni di una cassa regolata contrattualmente da parte del convivente, dove si legge che l’espressione «convivenza more uxorio» dev’essere intesa, conformemente alla funzione sociale del contratto, come riferita anche alle coppie dello stesso sesso (App. Milano 31 agosto 2012).
Rispetto alla casistica fin qui presa in esame, la controversia decisa dal Tribunale di Reggio Emilia con sentenza del 3 marzo 2016 presenta un’ulteriore peculiarità. Invero, nel novero di quanti avevano proposto l’azione risarcitoria nei confronti del conducente del veicolo alla cui condotta di guida imprudente era ascrivibile la tragica scomparsa di un diciottenne, figurava, oltre ai genitori, ai nonni e al convivente della nonna paterna, la compagna della madre, con cui era legata da una relazione affettiva di lunga durata.
Con riferimento alla posizione di quest’ultima, diviene allora decisivo stabilire se costei aveva instaurato con il figlio della convivente un legame di tale intensità da superare la soglia minima richiesta per l’accesso alla tutela per equivalente pecuniario. Gli elementi probatori raccolti nell’istruttoria depongono per una risposta affermativa a detto cruciale quesito. Attraverso le testimonianze di diversi amici e conoscenti, l’insieme composto dalle due donne e dal figlio di une di esse viene ricostruito come “un nucleo familiare di fatto caratterizzato dall’affettività, dalla coabitazione e dalla rassicurante quotidianità” dei rapporti interpersonali. In siffatto contesto, si era dunque creato e via via rafforzato un profondo legame tra il ragazzo e la compagna della madre. È proprio questo rapporto affettivo diretto, di là dalla pura constatazione del legame con la madre, che integra il fattore-chiave per il risarcimento dei danni sofferti in conseguenza della morte del ragazzo.
Più in generale, si fa strada l’idea che tutti coloro (e soltanto coloro) che sono in grado allegare e dimostrare l’esistenza, al momento dell’illecito, di un intenso legame affettivo con la persona deceduta –ovvero con la persona alla quale sono state inferte gravi lesioni – possono aspirare al risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio. L’esistenza di tale elemento è talmente densa di significato da non richiedere la concomitanza di altri profili, se non per corroborarlo; così come a fronte della sua insussistenza, finiscono col passare in secondo piano il dato fattuale della convivenza e persino i vicoli di parentela o di coniugio. In quest’ottica un legame affettivo rilevante può ben essere quello intercorrente tra i fidanzati che, anche quando non connotato dalla convivenza e non assimilabile a un rapporto di coniugio, appaia destinato a evolversi in matrimonio (così Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2013, n. 7128, che, in un caso di lavoratore gravemente infortunato, aveva evidenziato come la celebrazione del matrimonio, successivo all'incidente, non costituisce, da sé sola considerata un fatto rilevante per il riconoscimento del diritto al risarcimento in capo all’allora fidanzata del danneggiato; piuttosto, assume rilevanza quale fatto noto che consenta di risalire, eventualmente inquadrato nel complesso di altri elementi indiziari - al fatto ignoto dell'intensità di una relazione affettiva preesistente).
La preminenza del legame affettivo emerge anche da altri passaggi della sentenza del Tribunale di Reggio Emilia. Il padre del ragazzo deceduto – a seguito dalla separazione dalla moglie – non viveva assieme a lui da molti anni. Sennonché sulla scorta della frequentazione assidua tra genitore e figlio, nonché degli altri elementi di fatto che lasciavano presagire un consolidamento del rapporto tra i due, non stupisce l’accoglimento della domanda dal primo formulata. Anche il via libera alla pretesa risarcitoria dei nonni non viene subordinato alla convivenza col nipote (come invece pretendeva Cass. civ., sez. III, 16 marzo 2012, n. 4253), in quanto ciò che realmente conta è sempre l’esistenza di un solido legame affettivo (secondo quanto stabilito da Cass. pen., sez. III, 4 giugno 2013, n. 29735). Nel caso di specie il test è stato superato soltanto da una delle nonne, rispetto alla quale si è appurata una frequentazione del nipote non episodica e tutt’altro che formale.

Per leggere la sentenza clicca qui:Microsoft Word - Trib. Reggio Emilia Giud. Boiardi sent. 2-3-2016 n. 315-2016

Fonte: www.quotidianogiuridico.it

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